Danni da fauna selvatica: ne risponde la Regione ex art. 2052 c.c.
12 Giugno 2020
Massima
Ai fini del risarcimento dei danni cagionati dagli animali selvatici va applicato il criterio di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c. e il soggetto pubblico responsabile va individuato nella Regione, in quanto ente al quale spetta in materia la funzione normativa, nonché le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte - per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari - da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi per i casi di eventuali omissioni. Il caso
D.B. ha agito in giudizio nei confronti della Regione Abruzzo per ottenere il risarcimento dei danni riportati dalla propria autovettura a seguito della collisione con un cinghiale avvenuta su una strada pubblica. La domanda è stata accolta dal Giudice di Pace di Pescara. Il Tribunale di L'Aquila ha confermato la decisione di primo grado. Ricorre la Regione Abruzzo, sulla base di un unico motivo. In particolare, la Regione censura la decisione impugnata in relazione alla propria individuazione come ente passivamente legittimato, sul piano sostanziale, a rispondere dei danni riportati dall'autovettura dell'attore, senza svolgere in realtà censure in ordine all'affermazione della sussistenza di una condotta colposa, causalmente rilevante in relazione ai suddetti danni, addebitabile in concreto proprio al soggetto pubblico titolare delle funzioni di controllo e gestione della fauna selvatica nell'area in cui è avvenuto l'incidente. La questione
Chi risponde del danno cagionato dalla fauna selvatica? Il parametro normativo ed il conseguente onere della prova sono riconducibili all'art. 2043 c.c. ovvero all'art. 2052 c.c.? Le soluzioni giuridiche
Con la sentenza in rassegna la Suprema Corte torna ad occuparsi funditus della responsabilità della P.A. in caso di danni cagionati dalla fauna selvatica, con particolare riguardo alla questione dell'individuazione del soggetto, pubblico o privato, tenuto a rispondere dei danni causati dagli animali selvatici. La Suprema Corte, dopo aver citato i riferimenti normativi rilevanti in materia (l. 27 dicembre 1977, n. 968; l. 11 febbraio 1992, n. 157) ha, anzitutto, richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale – avallato dal Giudice delle Leggi (Corte Cost., 4 gennaio 2001 n. 4, ord.) - in base al quale il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita nell'art. 2052 c.c., inapplicabile con riguardo alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della pubblica amministrazione, ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò, richiede l'individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. I, 24 aprile 2014, n. 9276; Cass. civ., Sez. III,27 febbraio 2019, n. 5722). I Giudici di legittimità hanno, quindi, evidenziato una diversità di orientamenti giurisprudenziali in ordine all'individuazione del soggetto tenuto a rispondere in caso di danni cagionati da animali selvatici. Secondo un primo orientamento, infatti, l'individuazione dell'ente pubblico (eventualmente) responsabile per la colposa omessa adozione delle misure necessarie è stato individuato nella Regione, quale ente titolare della competenza a disciplinare, sul piano normativo e amministrativo, la tutela della fauna e la gestione sociale del territorio; e ciò anche laddove la Regione avesse delegato i suoi compiti alle Province, poiché la delega non fa venir meno la titolarità di tali poteri e deve essere esercitata nell'ambito delle direttive dell'ente delegante (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. III, 16 novembre 2010, n. 23095; Cass. civ., Sez. III, 13 gennaio 2009, n. 467; Cass. civ., Sez. III, 21 febbraio 2011, n. 4202). In alcune più recenti decisioni si è affermato, invece, che la responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici non è sempre imputabile alla Regione ma deve in realtà essere imputata all'ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc., a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, anche in attuazione della legge n. 157 del 1992, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che i poteri di gestione derivino dalla legge, sia che trovino la fonte in una delega o concessione di altro ente (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. III, 21 giugno 2016, n. 12727; Cass. civ., Sez. III, 31 luglio 2017, n. 18952; Cass. civ., Sez. IV - 3, 17 settembre 2019, n. 23151). In seno a questo nuovo filone giurisprudenziale, secondo cui non sempre è la Regione il soggetto cui deve imputarsi la responsabilità per danni da fauna selvatica, si possono registrare diverse posizioni. Si è, infatti, talora affermato che la Regione, anche in caso di delega di funzioni alle Province, è responsabile, ai sensi dell'art. 2043 c.c., dei danni provocati da animali selvatici a persone o a cose, il cui risarcimento non sia previsto da specifiche norme, a meno che non sia dimostrato che la delega attribuisca alle Province un'autonomia decisionale ed operativa sufficiente a consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni. Si è, in altre pronunzie, sancito che si deve indagare, di volta in volta, se l'ente delegato sia stato ragionevolmente posto in condizioni di adempiere ai compiti affidatigli, o sia un "nudus minister", senza alcuna concreta ed effettiva possibilità operativa (cfr.: Cass.civ., Sez. III, 06 dicembre 2011, n. 26197; Cass. civ., Sez. III, 21 giugno 2016, n. 12727; Cass. civ., Sez. VI - 3, ord. 17 settembre 2019, n. 23151). In altri casi si è poi stabilito che la responsabilità extracontrattuale per danni provocati alla circolazione stradale da animali selvatici va imputata alla Provincia a cui appartiene la strada ove si è verificato il sinistro, in quanto ente cui sono stati concretamente affidati poteri di amministrazione e funzioni di protezione degli animali selvatici nell'ambito di un determinato territorio, e non già alla Regione, cui invece spetta, ai sensi della legge 11 febbraio 1992, n. 157, salve eventuali disposizioni regionali di segno opposto, solo il potere normativo per la gestione e tutela di tutte le specie di fauna selvatica (Cass. civ., Sez. VI - 3, 19 giugno 2015, n. 12808). Si è altresì affermato che i poteri di protezione e gestione della fauna selvatica attribuiti alle Province toscane rendono le stesse responsabili dei danni cagionati da animali selvatici (Cass. civ., Sez. III, 10 novembre 2015, n. 22886). Si è anche affermato che le Province dell'Emilia-Romagna sono responsabili dei danni provocati nell'intero territorio da specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse (Cass. civ., Sez. III, Sent. 21 giugno 2016, n. 12727). La Suprema Corte evidenzia come, in base agli attuali orientamenti giurisprudenziali, il soggetto privato danneggiato dalla condotta di animali selvatici viene posto in una condizione di estrema difficoltà nell'esercitare in giudizio la tutela dei suoi diritti, trovandosi questi costretto, non solo a dover individuare e provare una specifica condotta colposa dell'ente convenuto, causativa del danno, ma anche a districarsi in un ipertrofico e confuso sovrapporsi di competenze statali, regionali, provinciali e di enti vari, il che finisce in molti casi per risolversi in un sostanziale diniego di effettiva tutela, in evidente tensione con i valori costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost. Nella sostanza, tende ad affermarsi in concreto un regime della responsabilità civile per i danni causati dagli animali selvatici differenziato, regione per regione, regime di dubbia compatibilità sistematica con il principio, anch'esso di rilievo costituzionale, per cui la normativa regionale non può incidere sui rapporti di diritto privato. Inoltre, in moltissimi casi è possibile osservare che la questione dell'individuazione dell'ente "legittimato passivo sostanziale" di fatto assume rilievo determinante ed esclusivo ai fini della stessa attribuzione della responsabilità, trascurandosi la valutazione della concreta allegazione e prova, da parte dell'attore, della specifica condotta omissiva in rapporto di causalità con l'evento dannoso, e addirittura dando in qualche modo per scontata la sussistenza della responsabilità dell'ente individuato come "legittimato passivo" sotto tale profilo, in considerazione del mero coinvolgimento dell'animale selvatico nell'evento dannoso. In tal modo, si perviene molto spesso ad una sorta di "tacita" applicazione, nei fatti, di un criterio di imputazione della responsabilità molto più vicino a quello previsto dall'art. 2052 c.c. (benché in linea di principio lo si affermi come non utilizzabile), che non a quello, espressamente (ma solo apparentemente) enunciato come applicabile, di cui all'art. 2043 c.c. Per superare l'incerto quadro interpretativo fin qui delineato – osserva la Corte – occorre abbandonare il tradizionale criterio di imputazione della responsabilità ex art. 2043 c.c., fondato sul presupposto dell'impossibilità di estendere alla fauna selvatica il regime previsto dall'art. 2052 c.c. Questa impostazione viene sottoposta a severa critica da parte del Collegio di legittimità per diverse ragioni. Innanzitutto, il criterio di imputazione della responsabilità per i danni cagionati dagli animali espresso nell'art. 2052 c.c. non risulta, in primo luogo, espressamente limitato agli animali domestici, ma fa riferimento esclusivamente a quelli suscettibili di proprietà o di utilizzazione da parte dell'uomo; non si vede, quindi, perché non debba applicarsi anche ai danni da animali selvatici. Inoltre, esso prescinde dalla sussistenza di una situazione di effettiva custodia dell'animale da parte dell'uomo, come si desume dallo stesso tenore letterale della disposizione, là dove prevede espressamente che la responsabilità del proprietario o dell'utilizzatore sussiste sia che l'animale fosse «sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito». Un'interpretazione letterale dell'art. 2052 c.c. porta, quindi, a ritenere che il relativo criterio di imputazione della responsabilità si fondi non sulla custodia, ma sulla stessa proprietà dell'animale e/o comunque sulla sua utilizzazione da parte dell'uomo per trarne utilità (anche non patrimoniali). Ne discende, quale logica conseguenza, l'applicabilità anche alla Pubblica Amministrazione, soggetto al quale appartiene la fauna selvatica – che è patrimonio indisponibile dello Stato – del regime oggettivo di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c. Un percorso analogo è del resto già avvenuto in giurisprudenza con riguardo ad altre simili fattispecie, quali la proponibilità dell'azione di ingiustificato arricchimento nei confronti degli enti pubblici, ai sensi dell'art. 2041 c.c., o la stessa responsabilità oggettiva per i danni causati da cose in custodia, con riguardo ai beni demaniali, ai sensi dell'art. 2051 c.c. La Suprema Corte passa, quindi, ad elaborare un nuovo “statuto” della responsabilità per danni cagionati dalla fauna selvatica. I) Anzitutto, soggetti legittimati passivi sono le Regioni, cioè gli enti che «utilizzano» il patrimonio faunistico protetto al fine di perseguire l'utilità collettiva di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema.
II) Per quanto concerne l'onere della prova, in applicazione del criterio oggettivo di cui all'art. 2052 c.c., sarà naturalmente il danneggiato a dover allegare e dimostrare che il danno è stato causato dall'animale selvatico. Ciò comporta, evidentemente, che sull'attore che allega di avere subito un danno, cagionato da un animale selvatico appartenente ad una specie protetta rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato, graverà l'onere dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell'animale e l'evento dannoso subito, oltre che l'appartenenza dell'animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla legge n. 157 del 1992 e/o comunque che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato.
III) Per quanto riguarda la prova liberatoria, il cui onere grava sulla Regione, essa deve consistere, ai sensi dell'art. 2052 c.c., nella dimostrazione che il fatto sia avvenuto per "caso fortuito". L'oggetto di tale prova liberatoria, è opportuno ribadirlo ancora una volta, non riguarda direttamente il nesso di causa tra la concreta e specifica condotta dell'animale ed il danno causato da tale condotta, che spetta esclusivamente all'attore dimostrare (esattamente come spetta esclusivamente all'attore dimostrare il nesso di causa tra la cosa ed il danno, nella analoga fattispecie regolata dall'art. 2051 c.c., ovvero quello tra condotta del dipendente e danno, nella fattispecie regolata dall'art. 2049 c.c.). La Regione, per liberarsi dalla responsabilità del danno cagionato dalla condotta dell'animale selvatico, dovrà dimostrare che la condotta dell'animale si sia posta del tutto al di fuori della sua sfera di possibile controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno, e come tale sia stata dotata di efficacia causale esclusiva nella produzione dell'evento lesivo, cioè che si sia trattato di una condotta che non era ragionevolmente prevedibile e/o che comunque non era evitabile, anche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna (e di connessa protezione e tutela dell'incolumità dei privati), concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto, purché, peraltro, sempre compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema cui la stessa tutela della fauna è diretta.
IV) Quanto, infine, alle eventuali responsabilità di altri enti diversi dalla Regione, cui spettava il compito (trattandosi di funzioni di sua diretta titolarità ovvero delegate) di porre in essere le misure adeguate di protezione nello specifico caso omesse e che avrebbero impedito il danno, la stessa Regione potrà rivalersi nei confronti di detto ente e, naturalmente, potrà anche, laddove lo ritenga opportuno, chiamarlo in causa nello stesso giudizio avanzato nei suoi confronti dal danneggiato, onde esercitare la rivalsa; ( in tal caso l'onere di dimostrare l'assunto della effettiva responsabilità del diverso ente spetterà alla Regione, che non potrà naturalmente avvalersi del criterio di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c., ma dovrà fornire la specifica prova della condotta colposa dell'ente convenuto in rivalsa, in base ai criteri ordinari) .
Osservazioni
La sentenza in rassegna è molto articolata e densa di spunti di riflessione. Innanzitutto, i Giudici di legittimità mettono bene in evidenza il variegato panorama giurisprudenziale che si è venuto a formare negli ultimi anni in tema di danni cagionati da fauna selvatica. In particolare, è stato sottolineato come un ruolo sempre più centrale nel dibattito abbia assunto la questione relativa all'individuazione del soggetto passivamente legittimato sostanziale. Le soluzioni fornite al riguardo sono state le più disparate e ciò ha indubbiamente creato negli operatori una situazione di profonda incertezza, costringendo, spesso, il danneggiato ad un'opera di difficoltosa ricerca delle fonti normative di livello regionale di volta in volta in rilievo, con conseguente aumento del contenzioso e sostanziale compressione del principio di effettività della tutela dei diritti. Per uscire da questa impasse, la Cassazione opera nella sentenza in rassegna una vera e propria “rivoluzione” interpretativa, scardinando schemi ricostruttivi che sembravano oramai consolidati e proponendo un nuovo “statuto” della responsabilità per danni cagionati dalla fauna selvatica. Volendo sintetizzare il percorso argomentativo, si può affermare che il fuoco dell'attenzione dell'interprete è concentrato sull'art. 2052 c.c. Questa è la norma che disciplina, in generale, la responsabilità per danno cagionato da animali e, come tale – secondo la Corte - non si può non applicare a quella particolare fattispecie di responsabilità di danno cagionato da fauna selvatica. Non vi sono ragioni letterali che ostano ad una tale conclusione. Il dettato dell'art. 2052 c.c. non contiene espressioni tali da escludere dal campo di applicazione anche la fauna selvatica. Né si può sostenere, in contrario, che vi sarebbe una sorta di incompatibilità logica tra gli animali selvatici e la ratio dell'art. 2052 c.c., in quanto quest'ultima avrebbe come presupposto il rapporto di custodia con l'animale. L'art. 2052 c.c. – obietta la Corte – ha come suo fondamento non la custodia, ma la “proprietà” dell'animale o la sua “utilizzazione”. Da ciò la Corte fa discendere due conclusioni di grandissima rilevanza pratica: 1) l'individuazione del cosiddetto “legittimato passivo” dal lato sostanziale nelle Regioni; 2) l'uscita di scena dell'art. 2043 c.c. e la riconduzione della fattispecie in esame nell'alveo della responsabilità oggettiva ex art. 2052 c.c. Si tratta di approdi che, a prima vista, sembrano assai rassicuranti per l'operatore, se non altro perché contribuiscono a fare chiarezza in materia. Ad un esame attento di ciascuno di questi due punti, però, emergono alcuni aspetti problematici ancora non del tutto risolti. Sulla questione della legittimazione passiva in senso sostanziale, la Suprema Corte pare non aver dubbi. Le Regioni, e soltanto le Regioni, sono i soggetti tenuti a rispondere nei confronti del danneggiato dei danni allo stesso causati dalla fauna selvatica. In particolare, le Regioni sono ritenute gli enti che “utilizzano” la fauna “allo scopo di realizzare il fine di utilità collettiva della protezione dell'ambiente e dell'ecosistema”. Vi è da chiedersi se effettivamente le Regioni possano essere qualificate come soggetti “utilizzatori”, ai sensi dell'art. 2052 c.c., alla luce della portata del concetto di “utilizzatore”, elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Si è, infatti, sostenuto che l'utilizzatore non è necessariamente colui che, soggetto diverso dal proprietario, vanti sull'animale un diritto reale o personale di godimento, che escluda ogni ingerenza del proprietario sull'utilizzazione dell'animale, ma anche colui che, con il consenso del proprietario, e pure in virtù di un rapporto di mero fatto, usi l'animale per soddisfare un interesse autonomo, anche non coincidente con quello del proprietario (Cass. civ., Sez. III, 7 luglio 2010, n. 16023; Cass. civ., Sez. III, 5 febbraio 2018, n. 2674). E' stato rilevato che la norma trova il proprio fondamento nel principio per cui chi fa uso dell'animale nell'interesse proprio o per il perseguimento di proprie finalità, anche se non economiche, è tenuto a risarcire i danni arrecati ai terzi che siano causalmente collegati al suddetto uso (ubi commoda, ibi et incommoda). Ebbene, allorquando si afferma che le Regioni “utilizzano” la fauna selvatica “allo scopo di realizzare il fine di utilità collettiva della protezione dell'ambiente e dell'ecosistema”, si fa riferimento ad un interesse (protezione dell'ambiente e dell'ecosistema) che non è delle Regioni, ma di tutta la collettività nazionale e, dunque, dello Stato. In tal senso depone l'art. 1 della l. 11 febbraio 1992, n. 157, la quale sancisce che la fauna selvatica facente parte del patrimonio indisponibile dello Stato è tutelata non più solo nell'interesse della comunità nazionale, ma anche nell'interesse di quella internazionale Deve, poi, rilevarsi come, ai sensi dell'art. 1, l. 27 dicembre 1977, n. 968, «la fauna selvatica italiana costituisce patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell'interesse della comunità nazionale». Dunque, il “proprietario” della fauna selvatica, ai sensi di questa disposizione, è da rinvenirsi nello Stato. Anche sotto questo profilo il riferimento alle Regioni quali soggetti legittimati ex art. 2052 c.c. al risarcimento dei danni causati dalla fauna selvatica non appare convincente. Perplessità suscita, poi, con riguardo al secondo punto, la ricostruzione del contenuto della prova liberatoria. Se si riconduce la fattispecie in esame nell'alveo dell'art. 2052 c.c., ne deriva che, trattandosi di responsabilità oggettiva, la prova liberatoria non potrà che avere ad oggetto il caso fortuito, da intendersi come fattore causale autonomo (diverso, quindi, dall'animale) ovvero come fattore che si inserisce, interrompendola, nella serie causale che conduce dall'animale all'evento lesivo (casus=non causa). Invece, la prova liberatoria, nei termini delineati dalla Suprema Corte, si atteggia diversamente e, anzi, viene espressamente affermato che essa «non riguarda direttamente il nesso di causa tra la concreta e specifica condotta dell'animale ed il danno causato da tale condotta», dovendo, piuttosto, essere tesa a dimostrare che la condotta «non era ragionevolmente prevedibile e/o che comunque non era evitabile, anche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna (e di connessa protezione e tutela dell'incolumità dei privati), concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto». In tal modo, il caso fortuito viene, in sostanza, concepito come assenza di colpa (casus=non culpa) e, dunque, seguendo una logica che appare difficilmente compatibile con la responsabilità oggettiva disciplinata dall'art. 2052 c.c. |