Legittimo il differimento degli effetti dell'estinzione societaria ai fini accertativi

19 Agosto 2020

Le scelte fatte con l'art. 28, comma 4, del D.Lgs. n. 175/2014, in ordine al differimento quinquennale degli effetti dell'estinzione societaria ai soli fini della validità ed efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione relativi a tributi e contributi, sanzioni e interessi, sono quindi coerenti con gli obiettivi di razionalizzazione dell'azione amministrativa in materia di attuazione e accertamento dei tributi perseguiti dalla delega.
Massima

La delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato. Pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto da tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, laddove l'art. 76 Cost. non impedisce l'emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante. Le scelte fatte con l'art. 28, comma 4, del D.Lgs. n. 175/2014, in ordine al differimento quinquennale degli effetti dell'estinzione societaria ai soli fini della validità ed efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione relativi a tributi e contributi, sanzioni e interessi, sono quindi coerenti con gli obiettivi di razionalizzazione dell'azione amministrativa in materia di attuazione e accertamento dei tributi perseguiti dalla delega. Tale disciplina neppure viola l'art. 3 Cost, dato che, nel favorire l'adempimento dell'obbligazione tributaria verso le società cancellate dal registro delle imprese, non determinano alcuna ingiustificata disparità di trattamento, anche considerato che non è configurabile una piena equiparazione fra le obbligazioni pecuniarie di diritto comune e quelle tributarie, per la particolarità dei fini e dei presupposti di queste ultime laddove l'interesse fiscale giustifica lo scostamento dalla disciplina ordinaria.

Fonte:IlSocietario.it

Il caso

La Commissione Tributaria Provinciale di Benevento, con l'Ordinanza n. 142 del 13 marzo 2019, aveva rinviato alla Corte Costituzionale la questione di legittimità in ordine al differimento quinquennale degli effetti dell'estinzione societaria ai soli fini della validità ed efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione relativi a tributi e contributi, sanzioni e interessi, ex art. 28, d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175.

Nel caso di specie, l'ex amministratore ed ex liquidatore di una Società a responsabilità limitata, in proprio e quale ex socio unico, impugnava gli avvisi di accertamento con cui l'Agenzia delle Entrate, in relazione agli anni di imposta 2013 e 2014, aveva accertato, a carico della società, una maggiore IRES, IRAP e IVA oltre sanzioni e interessi.

Deduceva, in particolare, il ricorrente la nullità della notifica degli avvisi impugnati, evidenziando che i citati atti impositivi, emessi in epoca successiva alla cancellazione della società nel registro delle imprese (e dunque nei confronti di un soggetto giuridico ormai inesistente), avrebbero dovuto dare atto di tale circostanza e specificare il destinatario della richiesta di pagamento e la relativa motivazione.

Osservava, inoltre, che la norma di cui all'art. 28, comma 4, d.lgs. n. 175/2014, secondo cui, ai soli fini della liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l'estinzione della società, ex art. 2495 c.c., ha effetto solo una volta trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese, presentava svariati profili di illegittimità costituzionale, sia per violazione dell'art. 3 della Costituzione, sia per eccesso di delega.

La Commissione Tributaria Provinciale rimetteva gli atti alla Consulta, per violazione del principio di uguaglianza e disparità di trattamento tra l'Amministrazione finanziaria e tutti gli altri creditori sociali e per il mancato rispetto dei limiti fissati dalla legge di delega n. 23 del 2014.

Secondo la CTP, in particolare, non poteva ritenersi che la questione prospettata fosse manifestamente infondata, dovendosi evidenziare che la scelta di differire l'efficacia dell'estinzione della società con riguardo ai soli rapporti con l'Amministrazione finanziaria, facendo rivivere per un così rilevante lasso di tempo un soggetto ormai estinto, si risolveva in un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri creditori sociali, per i quali l'estinzione di una società coincide con la sua cancellazione dal registro delle imprese.

Ma, soprattutto, secondo i giudici di merito, appariva evidente l'eccesso di delega in cui era incorso il legislatore delegato, laddove, l'art. 7 della legge di delegazione n. 23 del 2014, espressamente richiamato dal decreto legislativo n. 175/2014, faceva riferimento «alla revisione degli adempimenti, con particolare riferimento a quelli superflui o che diano luogo, in tutto o in parte, a duplicazioni anche in riferimento alla struttura delle addizionali regionali e comunali, ovvero a quelli che risultino di scarsa utilità per l'amministrazione finanziaria ai fini dell'attività di controllo e di accertamento o comunque non conformi al principio di proporzionalità».

Tanto premesso, la CTP, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, aveva quindi sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 28 d.lgs. n. 175 del 21 novembre 2014, per violazione degli articoli 3 e 76 della Costituzione;

La questione

La Consulta, con riferimento al profilo di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza, rileva come la Presidenza del Consiglio dei ministri, costituitasi in giudizio tramite l'Avvocatura di Stato, abbia evidenziato che la «"sopravvivenza fiscale" della società» consente al fisco di «provvedere al recupero del proprio credito, in maniera uniforme a quanto previsto per le società che non abbiano richiesto la propria cancellazione».

Secondo la difesa statale, infatti, in assenza della norma censurata, i termini previsti dalla normativa civilistica sarebbero così stringenti da impedire, di fatto, o, comunque sia, da rendere eccessivamente gravosa, l'attività di controllo prevista dalla normativa fiscale.

Del resto, la discrasia tra la normativa civilistica e quella tributaria sarebbe da imputare alle diverse finalità che la prima si prefigge rispetto alla seconda.

In altri termini, la norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità sarebbe per l'Amministrazione finanziaria necessaria per svolgere, «nel rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione, le ordinarie attività a cui la stessa è demandata».

Al riguardo la difesa statale rileva del resto che, prima che venisse adottato l'art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 175 del 2014, l'Amministrazione finanziaria si trovava spesso nella situazione di dover concentrare le proprie attività di controllo in un tempo assai ridotto, rispetto a quello ordinariamente previsto per le imprese in attività, tanto che tale «situazione determinava di fatto una differenza ingiustificata di trattamento di situazioni simili».

A supporto di tale affermazione, l'Avvocatura generale dello Stato ricorda inoltre come il termine previsto per la presentazione delle dichiarazioni ai fini delle imposte dirette, pari all'ultimo giorno del nono mese successivo alla chiusura della liquidazione stessa o, nel caso sia prescritto in via telematica, al deposito del bilancio finale di liquidazione, va di là dal termine previsto dalla normativa civilistica per la cancellazione dal registro delle imprese. In assenza della norma censurata, pertanto, l'Amministrazione finanziaria avrebbe un lasso di tempo ridotto per effettuare nei tempi prescritti i necessari controlli, e tali attività ricadrebbero, comunque sia, «in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione, e quindi a società presumibilmente ormai estinta».

La norma censurata, secondo l'Amministrazione, ha, pertanto, uniformemente disciplinato situazioni simili, equiparando l'attività amministrativa di controllo dell'operato delle imprese in stato di liquidazione a quella riguardante le altre società, così rimuovendo la disparità di trattamento che era invece determinata dall'applicazione della disciplina civilistica.

In aggiunta, l'Avvocatura generale dello Stato deduce poi che la concentrazione dei controlli e delle eventuali azioni di recupero, determinata dai termini previsti dalla disciplina civilistica, avrebbe comportato un dispendio di risorse non sempre giustificato, con «evidenti effetti anche sull'efficacia e l'economicità dell'azione amministrativa», laddove, la normativa censurata impedirebbe, in punto di fatto, che la pretesa creditoria dell'amministrazione finanziaria sia convogliata solo verso una parte dei contribuenti, in violazione del principio di cui all'art. 53 Cost.

Riguardo alla violazione dell'art. 76 Cost., l'Avvocatura generale dello Stato, rileva invece come, dal combinato disposto degli artt. 1, comma 1, lettera c), e 7, comma 1, lettera b), della legge n. 23 del 2014, il Governo sia «stato delegato a provvedere alla "revisione degli adempimenti che risultino di scarsa utilità"», anche mediante «la "definizione di una disciplina unitaria degli atti dell'amministrazione finanziaria"».

E proprio a questi fini sarebbe stato introdotto l'art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 175 del 2014, il quale si riferisce ad un istituto civilistico, ossia l'estinzione automatica dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, la cui efficacia sarebbe di ostacolo all'attività di controllo e accertamento dell'amministrazione tributaria e, pertanto, «ben peggiore che una mera scarsa utilità».

Rileva, infatti, la difesa dello Stato che gli obiettivi posti dalla delega riguarderebbero non soltanto la riduzione e l'eliminazione degli adempimenti superflui a carico dei contribuenti, ma in generale «il raggiungimento di un sistema fiscale più equo, trasparente ed orientato alla crescita attraverso il perseguimento di una maggiore coerenza ed uniformità dell'esercizio dei poteri tributari».

In questa prospettiva, l'art. 28 del d.lgs. n. 175 del 2014 rispetterebbe quindi tutti gli obiettivi fissati dalla legge di delega, dettando una serie di previsioni finalizzate sia alla semplificazione di alcuni oneri amministrativi a carico delle imprese e sia alla razionalizzazione di alcuni strumenti di contrasto ai fenomeni di frode ed evasione fiscale.

Aggiunge infine l'Avvocatura generale dello Stato che la norma censurata, permettendo all'Amministrazione di rivolgersi direttamente alla società cancellata e non al liquidatore, a titolo risarcitorio, e ai soci, nei limiti del ricevuto, solleva gli uffici finanziari dall'onere della prova sul nesso tra il mancato pagamento del tributo e il pagamento di crediti non tributari di grado inferiore da parte del liquidatore, o l'assegnazione di bene ai soci in dispetto dall'obbligo tributario.

In conclusione, la difesa statale pone in evidenza come la prospettata interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata sarebbe non irragionevole, garantendo l'art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 175 del 2014, così interpretato, non solo il rafforzamento delle attività di controllo e recupero fiscale, ma anche l'equiparazione del trattamento fiscale delle società in liquidazione a quello previsto dalla legge per le altre società, e la razionalizzazione del trattamento fiscale delle società in stato di liquidazione, così evitando particolari turbative ai contribuenti, conseguenti alla necessaria concentrazione dei controlli nel periodo ordinario di scioglimento e liquidazione della società, con «evidenti effetti benevoli anche in termini di semplificazione, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa».

Le soluzioni giuridiche

La Corte Costituzionale, con la sentenza in commento, ha ritenuto infondate le questioni di illegittimità costituzionale.

Quanto alla censura di violazione dell'art. 76 Cost., la Consulta rileva che la giurisprudenza della stessa Corte è costante nel ritenere che la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto da tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (ex plurimis, sentenze n. 96 del 2020 e n. 10 del 2018).

In particolare, l'art. 76 Cost. non impedisce quindi l'emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo. Di conseguenza, neppure l'assenza di un'espressa previsione del legislatore delegante può impedire, a certe condizioni, l'adozione di norme da parte del delegato, trattandosi in tal caso di verificare che le scelte di quest'ultimo non siano in contrasto con gli indirizzi generali della legge delega (cfr., Cass., n. 79 del 2019, n. 212 del 2018 e n. 278 del 2016).

Pertanto, se, alla luce del richiamato orientamento, la verifica di conformità deve essere condotta in riferimento agli indirizzi generali della delega, la circostanza che la norma censurata non trovasse copertura in una singola disposizione della legge di delega non era motivo, di per sé sufficiente, per ritenere integrata la violazione dell'art. 76 Cost. La valutazione di conformità, rileva la Corte, deve essere condotta, infatti, mediante uno scrutinio che tenga conto della delega nella sua globalità.

Ciò posto, nella specie, secondo la Consulta, venivano in rilievo i principi e i criteri direttivi di cui agli artt. 1, comma 1, lettere a) e c), e 3, comma 1, lettera a), della legge n. 23 del 2014, dai quali risultava che il legislatore aveva delegato il Governo ad adottare misure volte a uniformare, tendenzialmente, la disciplina delle obbligazioni tributarie, a razionalizzare i poteri dell'Amministrazione finanziaria anche con riguardo alla disciplina della efficacia e validità degli atti di accertamento e a razionalizzare e sistematizzare la disciplina dell'attuazione e dell'accertamento relativa alla generalità dei tributi, al fine di apportare «uniformità e chiarezza nella definizione delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive dei contribuenti e delle funzioni e dei procedimenti amministrativi» (art. 3, comma 1).

Alla luce delle citate disposizioni, fra i contenuti della delega si delineava quindi un obiettivo di generale razionalizzazione dell'azione amministrativa, in materia di attuazione e accertamento dei tributi.

Così individuati i contenuti della delega, per valutare la conformità ad essi dell'art. 28, comma 4, del Dlgs. n. 175 del 2014, occorreva dunque muovere dalla considerazione che tale disposizione, nello stabilire che «[a]i soli fini della validità e dell'efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l'estinzione della società di cui all'articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese», si inserisce, derogandola, nella disciplina civilistica della cancellazione delle società dal registro delle imprese, riguardo alla quale, ponendo fine ad un annoso dibattito, l'art. 4 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 ha riscritto l'art. 2495 cod. civ., il quale, per ciò che qui rileva, al secondo comma, prevede che, «[f]erma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l'ultima sede della società».

Su tale disposizione, peraltro, ricordano i giudici costituzionali, sono intervenute le sezioni unite della Corte di cassazione, le quali, per un verso, hanno chiarito che la cancellazione dal registro delle imprese determina in ogni caso l'estinzione delle società di capitali, e per l'altro, che l'estinzione della società si produce anche qualora rimangano debiti insoddisfatti, poiché, in tale evenienza, i creditori potranno far valere, comunque sia, le loro ragioni nei confronti dei soci, considerati successori universali seppur sui generis, e, se in colpa, nei confronti dei liquidatori (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 12 marzo 2013, n. 6070, n. 6071 e n. 6072).

Come si legge nella relazione governativa al decreto delegato, la disciplina civilistica, se, da una parte, risulta «funzionale a garantire tempi brevi e certi della cancellazione e della realizzazione dei conseguenti effetti», dall'altra, «rende di difficile realizzazione i controlli e le azioni di recupero fiscale».

E proprio per sopperire alle divergenze tra la disciplina civilistica e la struttura e le finalità specifiche del controllo tributario, è stato introdotto l'art. 28, comma 4, del Dlgs. n. 175 del 2014, laddove il termine quinquennale è stato individuato - si legge ancora nella citata relazione governativa - «avuto riguardo ai termini di cui agli articoli 43, comma 2, del d.P.R. n. 600/73 e 57, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972 che disciplinano, rispettivamente, i termini per l'accertamento in ipotesi di omessa dichiarazione II.DD. o IVA».

Così chiarita la ratio della norma censurata, la scelta del Governo, secondo la Corte Costituzionale, non era estranea agli obiettivi di razionalizzazione dell'azione amministrativa in materia di attuazione e accertamento dei tributi perseguiti dalla delega e, anzi, si poneva in linea di continuità e complementarità rispetto a tali obiettivi, occorrendo anche considerare che la possibilità di notificare validamente gli atti intestati ad un soggetto non più esistente si presenta coerente con il sistema tributario, in quanto l'art. 65, quarto comma, del Dpr. 29 settembre 1973, n. 600 permette, con riguardo alle persone fisiche, che «la notifica degli atti intestati al dante causa [possa] essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell'ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui al secondo comma».

Tanto chiarito in ordine a tale profilo, secondo la Consulta non sussisteva del resto neppure la denunciata violazione dell'art. 3 Cost, dato che la disciplina di cui all'art. 28, comma 4, del Dlgs. n. 175 del 2014, nel favorire l'adempimento dell'obbligazione tributaria verso le società cancellate dal registro delle imprese, non determina l'ingiustificata disparità di trattamento denunciata dal rimettente.

E questo anche considerato che non è configurabile una piena equiparazione fra le obbligazioni pecuniarie di diritto comune e quelle tributarie, per la particolarità dei fini e dei presupposti di queste ultime (sentenza n. 291 del 1997), che si giustificano con la «garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato» (sentenza n. 281 del 2011), cui è volto il credito tributario.

In definitiva, conclude la Corte, l'interesse fiscale perseguito dalle obbligazioni tributarie giustifica lo scostamento dalla disciplina ordinaria.

Osservazioni

Il Dlgs. n. 175/2014, all'art. 28, comma 4, ha disposto la “sopravvivenza”, ai soli fini fiscali, della società estinta, per la durata di un quinquennio dalla avvenuta cancellazione (purché “richiesta” in data successiva al 13 dicembre 2014).

La ratio della fictio iuris così introdotta consiste nella possibilità data al Fisco di coltivare la propria pretesa creditoria e ottenere la “certezza legale del tributo” dovuto dalla società cancellata.

Con due Circolari (la n. 31/E del 30 dicembre 2014 e la n. 6 del 19 febbraio 2015), l'Agenzia delle Entrate aveva peraltro sostenuto la tesi della applicabilità dell'art. 28 in via “retroattiva”, vale a dire anche alle cancellazioni di società “richieste” prima della sua entrata in vigore (13 dicembre 2014).

Questa tesi, tuttavia, non ha trovato seguito nella giurisprudenza, che ha rilevato come la norma, infatti, opera su un piano sostanziale e non “procedurale” (cfr., Cass. 2 aprile 2015, n. 6743; Cass. 11 marzo 2016, n. 4788; Cass. 8 settembre 2016, n. 17791).

In tutti i casi, comunque, una volta scaduto il quinquennio, la società “muore” a tutti gli effetti, anche fiscali e quindi l'Amministrazione finanziaria dovrà rivolgere la propria pretesa nei confronti degli ex soci, ferma restando la validità degli avvisi in precedenza notificati alla società.

Analogamente, con riguardo alle cancellazioni anteriori al Dlgs n. 175/14 (che, come detto, non ha valenza retroattiva), l'Amministrazione finanziaria dovrà dirigere la pretesa nei confronti degli ex soci e degli ex liquidatori, secondo il rispettivo titolo di responsabilità e nei limiti previsti dagli artt. 2495 c.c. e 36, Dpr. n. 602/9173.

In conclusione, nell'uno e nell'altro caso (responsabilità società “tenuta in vita” o dei soci), con l'estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese, non si estinguono comunque i debiti ancora insoddisfatti che alla stessa società facevano capo, laddove la ratio della normativa risiede appunto nell'intento d'impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, espropriare il creditore del suo diritto.

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