Covid-19: diritto alla riduzione del canone di affitto d’azienda per la chiusura delle attività commerciali?

Maurizio Tarantino
16 Settembre 2020

Chiamato a valutare il provvedimento di un giudizio cautelare ex art. 700 c.p.c. nei confronti della società proprietaria, in particolare della richiesta di sospensione del pagamento del canone di affitto di ramo di azienda e l'inibizione dall'escussione delle garanzie rilasciate in favore del proprietaria, il Tribunale adìto ha precisato che, avendo la resistente, senza sua colpa, potuto eseguire dall'11 marzo al 18 maggio 2020 una prestazione solo parzialmente conforme al regolamento contrattuale, la ricorrente aveva diritto ex art. 1464 c.c. ad una riduzione del canone limitatamente al solo periodo di impossibilità parziale. Di conseguenza, è stata ipotizzata una riduzione del canone nella misura del 70%.
Massima

Nell'ipotesi di contratto di affitto di ramo di azienda a fini commerciali, la mancata esecuzione dell'obbligo gravante sull'affittante di consentire all'affittuario la vendita al dettaglio nei locali aziendali, causata dalla sospensione governativa delle attività commerciali per l'emergenza pandemica, integra un'ipotesi di impossibilità parziale e temporanea della prestazione, rilevante ex art. 1464 c.c. Per l'effetto, il conduttore ha diritto ad una riduzione del canone limitatamente al periodo della sospensione delle attività.

Il caso

Con la sottoscrizione del contratto di affitto, la ricorrente aveva acquisito un ramo di azienda comprensivo di una serie di diritti tra i quali il diritto di esercitare, all'interno dei locali, l'attività di vendita al dettaglio. Ciò premesso, è circostanza pacifica che dalla data dell'11 marzo 2020 e sino al 18 maggio 2020 l'attività di commercio al dettaglio di beni diversi da generi alimentari sia stata sospesa sul territorio nazionale e che, dunque, il bene-azienda locato non abbia potuto, in quel periodo, essere utilizzato per l'uso pattuito.

Per i motivi esposti, la società ricorrente introduceva ricorso ex art. 700 c.p.c., eccependo che, nella specie, si versava in un'oggettiva situazione di impossibilità sopravvenuta della prestazione, quantomeno temporanea, ai sensi dell'art. 1256, comma 2, c.c. essendo divenuto oggettivamente impossibile usufruire non solo dei locali presso cui l'attività aziendale viene svolta, ma di tutto il complesso di beni che del ramo d'azienda facevano parte. In particolare, secondo la ricorrente, il sopravvenuto quadro “fattuale e normativo” rendeva non ulteriormente differibile la richiesta di sospendere le obbligazioni contrattuali di pagamento a favore della ricorrente, anche in considerazione ed in applicazione dell'obbligo di rinegoziazione quale applicazione del generale principio di buona fede oggettiva ed imperativa di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Quanto al periculum in mora, la ricorrente osservava che la sopravvenuta e conclamata inattività e la conseguente ed inevitabile perdita di ogni guadagno ai danni della stessa, esponeva la ricorrente ad una grave ed irreparabile compromissione della propria libertà negoziale e del proprio patrimonio.

Per i motivi esposti, la ricorrente aveva chiesto di sospendere fino a sei mesi dal deposito del ricorso l'obbligo gravante di corrispondere tutte le somme dovute in forza ed in ragione del contratto di affitto di ramo d'azienda; per l'effetto, l'inibizione di ogni azione volta all'escussione delle fideiussioni bancarie.

Con decreto emesso inaudita altera parte, veniva ordinato alla resistente di non escutere le fideiussioni, fissando contestualmente l'udienza per la conferma, modifica o revoca della misura concessa e disponendo la c.d. trattazione scritta del procedimento.

Costituendosi in giudizio, la resistente, tra i vari aspetti, eccepiva che la ricorrente sin dal 2019 era già morosa per il mancato pagamento dei canoni di affitto e che, in tal periodo, le parti sottoscrivevano una scrittura privata con la quale la resistente accordava alla ricorrente numerose concessioni finalizzate a consentire la prosecuzione dei rapporti contrattuali fra le parti. Quindi, sei mesi prima dell'attuale crisi sanitaria, la ricorrente riconosceva e ammetteva di essere debitrice nei confronti della resistente. Successivamente, in considerazione della straordinarietà degli eventi in corso, accordava un'ulteriore concessione alla resistente, comunicandole che la fatturazione relativa ai fitti e alle spese comuni per il trimestre aprile, maggio e giugno 2020 sarebbe stata posticipata al mese di maggio 2020. Inoltre, la resistente eccepiva che tale questione sarebbe stata già regolamentata dalle parti, atteso che il contratto prevedeva che “la concedente non sarà ritenuta responsabile per il mancato o non corretto adempimento delle proprie obbligazioni ai sensi del presente contratto qualora il mancato o non corretto adempimento siano dovuti ad una causa di forza maggiore” e che nel concetto di forza maggiore rientravano, sempre per previsione contrattuale, anche “atti, omissioni, impedimenti da parte di organi amministrativi e/o giurisdizionali”.

La questione

La questione in esame è la seguente: quali sono le conseguenze di tale divieto sul regolamento contrattuale e, in particolare, sull'obbligo di corrispondere il canone pattuito?

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente, il Tribunale di Roma ha precisato che il richiamo alla normativa emergenziale non offre elementi nella direzione indicata dalla ricorrente. Difatti, non vi è alcuna norma di carattere generale che preveda una sospensione dell'obbligo di corrispondere i canoni di locazione.

Per tali motivi, il giudicante ha reputato di non poter applicare in questa sede alcuna norma sospensiva dell'obbligo di pagamento di canoni di affitto di azienda tratta dalla disciplina emergenziale ad oggi adottata. Del resto, secondo il giudicante, il richiamo alle disposizioni di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (buona fede) e dell'art. 1467 c.c. (eccessiva onerosità sopravvenuta) non persuadeva le ragioni della sospensione.

Quanto alle contestazioni di parte resistente (forza maggiore regolamentata nel contratto), tale osservazione non convinceva in quanto l'art. 91, comma 1, del decreto c.d. cura Italia del 17 marzo 2020 nel prevedere una “esclusione della responsabilità del debitore”, incide sull' obbligo del debitore inadempiente di risarcire il danno causato dal proprio tardivo o mancato adempimento ma senza liberare il debitore dai propri obblighi contrattuali. Allo stesso modo, la clausola contrattuale citata da parte resistente operava al fine di escludere una responsabilità per danni della concedente - ad esempio, per il mancato guadagno della affittuaria per il periodo di indisponibilità dei locali per forza maggiore - ma nulla diceva in ordine alla sorte dell'obbligo di pagamento del canone della controparte. In conclusione, a parere del giudice romano, la clausola invocata dalla resistente non era rilevante per sciogliere l'interrogativo circa la persistenza dell'obbligo di corrispondere il canone contrattuale.

Diversamente opinando, secondo il provvedimento in esame, la soluzione alla questione risiedeva in una applicazione combinata sia dell'art. 1256 c.c. (norma generale in materia di obbligazioni) che dell'art. 1464 c.c. (norma speciale in materia di contratti a prestazioni corrispettive). Difatti, nel caso di specie, ricorreva un'ipotesi di impossibilità della prestazione della resistente allo stesso tempo:

- parziale, perché la prestazione della resistente è divenuta impossibile quanto all'obbligo di consentire all'affittuario, nei locali aziendali, l'esercizio del diritto a svolgere attività di vendita al dettaglio, ma è rimasta possibile, ricevibile ed utilizzata quanto alla concessione del diritto di uso dei locali, e quindi nella più limitata funzione di fruizione del negozio quale magazzino e deposito merci;

- temporanea, perché l'inutilizzabilità del ramo di azienda per la vendita al dettaglio è stata ab origine limitata nel tempo, per poi venir meno dal 18 maggio 2020.

Pertanto, ferma la circostanza che nessuna delle parti ha manifestato la volontà di sciogliersi dal vincolo contrattuale, le conseguenze di tale vicenda sul contratto non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea né quelle della impossibilità parziale definitiva.

Quindi, trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull'obbligo di corrispondere il canone sarà quello di subire, ex art. 1464 c.c. una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita (come poi accaduto a far data dal 18 maggio 2020).

Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, avendo la resistente, senza sua colpa, potuto eseguire dall'11 marzo al 18 maggio 2020 una prestazione solo parzialmente conforme al regolamento contrattuale, secondo il giudice, la ricorrente ha diritto ex art. 1464 c.c. ad una riduzione del canone limitatamente al solo periodo di impossibilità parziale, avuto riguardo alla sopravvissuta possibilità di utilizzazione del ramo di azienda nella più limitata funzione di ricovero delle merci, correlata al diritto di uso dei locali; del resto, il ramo di azienda era pur sempre rimasto nelladisponibilità della ricorrente.

Per i motivi esposti, è stata ipotizzata una riduzione nella misura del 70%. Nonostante ciò, evidenzia il giudicante, restano integralmente dovute accanto alla quota del 30% di canone comunque da corrispondere, non solo le somme maturate per morosità pregresse della ricorrente ma anche gli oneri “comuni” diretti ed indiretti, in quanto connessi alla disponibilità materiale dei locali che è rimasta, anche nel periodo di chiusura, in capo alla ricorrente. Infine, quanto al periculum in mora, il limitato riconoscimento del fumus boni iuris ha reso di per sé complessa la concessione di una misura cautelare. Per tali ragioni, la domanda è stata respinta; per l'effetto, è stata revocata la misura concessa inaudita altera parte.

Osservazioni

L'emergenza epidemiologica e i conseguenti provvedimenti adottati dal Governo al fine di contrastare e contenere il diffondersi del virus Covid-19, validi per tutto il territorio nazionale, hanno inciso pesantemente su rapporti commerciali e privatistici.

A ben vedere - come sostenuto da alcuni autori - però, se per un verso al conduttore è stato vietato l'esercizio della propria attività commerciale e non certo il pagamento del corrispettivo stabilito, anche per il locatore è divenuto pur temporaneamente impossibile rendere la sua prestazione, consistente appunto nel mantenere il bene locato nel pacifico godimento del conduttore (art. 1575 c.c.) secondo l'attività commerciale pattuita in contratto. È più che mai opportuno, in una anomala situazione venutasi a creare con il Covid-19, ricorrere ai canoni della buona fede e della ragionevolezza per risolvere le problematiche che emergono oggi riguardo alle locazioni e che si protrarranno di certo nel futuro. In una situazione di incertezza generalizzata e di crisi dei rapporti commerciali, in un quadro caratterizzato da procedimenti giudiziari che diverranno sempre più lunghi, gli istituti individuati - nella loro applicazione ed interpretazione giudiziale - non sono in grado di dare risposte tempestive, univoche ed efficaci alle parti del rapporto locatizio che invece pretendono soluzioni immediate. Se l'affittuario non vuole arrivare all'estrema conseguenza della risoluzione del contratto, la diffusa opinione dottrinale ritiene che un evento straordinario come la pandemia comporti comunque l'insorgere di un dovere di rinegoziare il contratto in applicazione del dovere di comportarsi in buona fede nell'esecuzione del contratto previsto dall'art. 1375 c.c. e anche in forza del dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., e dell'art. 1374 c.c. il quale dispone che le parti del contratto sono soggette anche all'equità (l'equità può assurgere a strumento di chiusura del sistema che legittima il giudice ad adeguare il canone alla mutata situazione di fatto).

Tuttavia, proprio in riferimento ai criteri di buona fede, nella vicenda in commento, il giudicante ha ritenuto che tali motivi non erano tali per ottenere la sospensione. Difatti, il principio della buona fede oggettiva si concretizza nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse della controparte e nel porsi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto. La buona fede si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell'altra parte (Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2006, n. 13345). Se è certamente possibile, quindi, far discendere da tale disposizione un obbligo di collaborazione di ciascuna delle parti alla realizzazione dell'interesse della controparte quando ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico, assai arduo (secondo il Tribunale di Roma) ed in definitiva impercorribile appare invece il tentativo di dilatarne l'ambito applicativo sino a toccare in modo sensibile le obbligazioni principali del contratto, a partire dai tempi e dalla misura di corresponsione del canone; si tratterebbe, del resto, di esito interpretativo - oltre che sconosciuto alla giurisprudenza formatasi in argomento - che rischierebbe di minare la possibilità, per le parti, di confidare nella necessaria stabilità degli effetti del negozio (quanto meno, i principali) nei termini in cui l'autonomia contrattuale li ha determinati.

Nonostante tale posizione, la pronuncia in commento è interessante soprattutto perché resa in pieno contraddittorio che ha considerato che, nell'affitto di azienda, il concedente si obbliga a mettere a disposizione dell'affittuario un complesso di beni organizzati comprensivi, oltre che del diritto di uso dei locali, anche del diritto a svolgere l'attività. Ed è proprio con tale premessa che il Tribunale capitolino ha ritenuto che a causa dei provvedimenti governativi si configuri un'ipotesi particolare di impossibilità parziale e temporanea della prestazione del concedente per tutto il periodo di chiusura dell'attività. Per tali ragioni, è stato riconosciuto il diritto alla riduzione del canone mensile nella misura del 70% per il periodo della sospensione delle attività, alla luce dell'impossibilità dell'utilizzo dei locali per i fini commerciali pattuiti nel contratto. La misura residua dovuta nel periodo emergenziale (del 30%) discende - secondo il Tribunale - dalla perdurante possibilità di utilizzazione dei locali del ramo nella più limitata funzione di ricovero delle merci (oltre che alla materiale disponibilità dei locali da parte dell'affittuario).

Diversamente, però, non è stato riconosciuto un pregiudizio irreparabile in capo alla ricorrente: la riduzione dei canoni non alterava significativamente l'esposizione debitoria della società affittuaria, formatasi per la gran parte nel periodo antecedente alla sospensione delle attività commerciali disposta dai decreti ministeriali.

Guida all'approfondimento

Vespasiani, Ancora su affitto commerciale e canoni locativi maturati nel periodo del lock down, in Quotidianogiuridico.it, 18 giugno 2020;

Baldoni - Seprini - Fratini, L'affitto d'azienda: fattispecie giuridica e rilevanza strategica, l'impatto del Covid-19, in Diritto24, 15 giugno 2020;

Tarantino, Covid-19 e il problema del pagamento dei canoni senza il concreto godimento degli immobili commerciali, in condominioelocazione.it.

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