COVID-19: il giudice riduce il canone delle locazioni ad uso di ristorante
29 Settembre 2020
Il caso
Una società che gestisce due ristoranti nel centro di Roma, ubicati entro locali da essa condotti in locazione, agisce in giudizio, diremo, in prevenzione, nei confronti della società locatrice, chiedendo, in sede cautelare, che venga inibita a tale società l'escussione di una fideiussione prestata da un terzo, una banca, a garanzia di adempimento dell'obbligazione di pagamento del canone mensile: il tutto in ragione della morosità insorta nel periodo del lockdown determinato dalla pandemia COVID-19. A fondamento della domanda cautelare, la conduttrice assume di aver subito, nel periodo in questione, a causa del lockdown, una brusca contrazione degli introiti, a causa della interruzione dell'attività provocata dalle note circostanze, e, così, di non aver potuto pagare il canone. Essa conduttrice chiede altresì che il canone per un anno, dal marzo 2020 al marzo 2021, venga drasticamente ridotto, e che il debito per la morosità effettivamente maturata venga ristrutturato e «spalmato» in un arco temporale decorrente dall'aprile del prossimo anno. Il giudice accoglie la domanda cautelare e, dunque, dispone la riduzione dei canoni di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20 % per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021, nonché la sospensione della garanzia fideiussoria fino ad un'esposizione debitoria di 30.000 euro.
Fonte: ilprocessocivile.it La questione
Se il conduttore di un immobile destinato ad uso diverso dall'abitazione subisce una contrazione dell'attività a causa della pandemia, e per tale ragione si trova a dover pagare un canone che non è più proporzionato, per un certo arco temporale, alle caratteristiche dell'immobile locato, può chiedere al giudice di ridurre il corrispettivo? Le soluzioni giuridiche
Undici volte buona fede. In un provvedimento di poche pagine, in pressoché totale assenza di qualunque altro richiamo, la motivazione del provvedimento impugnato si riassume nella affermazione secondo cui, qualora si ravvisi una sopravvenienza nella situazione fattuale e giuridica che costituisce il presupposto della pattuizione, quale quella determinata dalla pandemia da COVID-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni inizialmente convenute deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto, ai sensi dell'art. 1375 c.c. Il tutto stampellato da un richiamo espresso, non proprio ossequioso del comma 3 dell'art. 118 disp. att. c.p.c., ad una pur autorevole dottrina. Secondo il tribunale capitolino «non sembra possa dubitarsi in merito all'obbligo delle parti di addivenire a nuove trattative al fine di riportare l'equilibrio negoziale entro l'alea normale del contratto». Nell'ultima parte del provvedimento, la motivazione pare infine virare verso una soluzione diversa, giacché, secondo il giudice, si perverrebbe alle medesime conclusioni qualificando «la suddetta fattispecie come peculiare ipotesi di impossibilità della prestazione della locatrice resistente di natura parziale e temporanea … attesa la sostanziale impossibilità di utilizzazione dei locali locati per l'attività di ristorazione, idonea ad incidere sui presupposti alla base del contratto, e che dà luogo all'applicazione del combinato disposto degli articoli 1256 c.c. … e 1464 c.c.». Osservazioni
Non saprei dire se l'autore del provvedimento in commento abbia riservato una rapida lettura alla relazione tematica n. 56 dell'ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, datato 8 luglio 2020 ed avente ad oggetto «Novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-COVID-19 in ambito contrattuale e concorsuale»: relazione dalla quale il giudice si è comunque infine discostato. Il problema esaminato dal tribunale è senza dubbio rovente (e ciò giustifica tra l'altro questa irruzione in una materia che è estranea alla procedura civile). Ora, la pandemia che stiamo vivendo impone al giurista di verificare se gli strumenti consueti offerti dall'ordinamento consentano di affrontare adeguatamente il fenomeno, oppure se occorra escogitarne di nuovi, beninteso ove ciò sia possibile senza invadere la sfera del legislatore, o comunque di generalizzare l'impiego di soluzioni già prospettate, e tuttavia non ancora adeguatamente sedimentate. Viceversa, non pare costruttivo prospettare come scontate soluzioni che tali non sono e che, anzi, chiedono di essere omogeneizzate con un quadro normativo di segno semmai opposto. Ecco allora che la soluzione patrocinata nel provvedimento in commento potrebbe in definitiva non essere errata: ma è difficile condividere l'affermazione secondo cui non potrebbe «dubitarsi in merito all'obbligo delle parti di addivenire a nuove trattative al fine di ripotare l'equilibrio negoziale entro l'alea normale del contratto». Un'affermazione di segno diametralmente opposto, semmai, potrebbe trovare appoggio in una norma cardine dell'ordinamento, e cioè nell'art. 1372 c.c., secondo cui il contratto ha forza di legge tra le parti, sicché le sopravvenienze contrattuali in linea di principio non rilevano affatto, salvo non ricorrano i presupposti della eccessiva onerosità sopravvenuta di cui all'art. 1467 c.c., la quale, si badi, non porta al riequilibrio del contratto, salvo che il riequilibrio non sia offerto dall'altra parte, ai sensi dell'ultimo comma della disposizione, ma alla risoluzione contrattuale: la risoluzione, appunto, per eccessiva onerosità sopravvenuta. Se dunque stiamo allo stretto dato normativo, non possiamo che prendere atto che:
Ciò nondimeno, è vero che il tema dell'equilibrio contrattuale, nonostante l'art. 1372 c.c., agita da tempo la dottrina, quantunque sia stato fino ad ora soltanto lambito dall'intervento della giurisprudenza. È facile richiamare gli studi di Franco Galgano sulla (nuova) lex mercatoria, ed in particolare i riferimenti a meccanismi di rettifica dello squilibrio contrattuale sia originario che sopravvenuto, nell'ambito del commercio internazionale, attraverso le figure della Gross disparity (che si ha quando il contratto o una sua clausola attribuisce ad una parte un vantaggio eccessivo sull'altra), e dell'Hardship, per l'ipotesi dello squilibrio sopravvenuto fra le prestazioni contrattuali, provocato da eventi successivi alla sua stipulazione, il cui rischio non sia stato assunto dalla parte svantaggiata. In particolare, l'Hardship legittima la parte svantaggiata a chiedere alla controparte la rinegoziazione del contratto, con la previsione, nei principi Unidroit, del potere del giudice di «modificare il contratto al fine di ripristinare l'originario equilibrio». In tal modo si assume che l'equità correttiva si ponga come limite alla indiscriminata libertà contrattuale. L'Hardship — è importante dire — ha in tempi relativamente recenti trovato albergo nel § 313 del BGB, che, sotto la rubrica «Alterazione della base negoziale», a fronte del mutamento successivo delle circostanze che erano state poste a fondamento della pattuizione, consente al giudice di «imporre ad una delle parti l'adeguamento del contratto». Quanto all'Italia, l'Hardship ha fatto ingresso presso di noi attraverso un lodo arbitrale che, in una controversia concernente un contratto internazionale, ha rideterminato il prezzo di compravendita di un pacchetto azionario il cui valore si era fortemente ridotto a causa della crisi della new economy. Con la pandemia l'Hardship, o se vogliamo il § 313 del BGB, pare aver con il provvedimento in commento varcato la soglia dei nostri tribunali. È una soluzione, forse sensata, forse praticamente apprezzabile, che avrebbe però richiesto uno sforzo motivazionale più intenso e che richiederà approfondimenti, messe a punto, distinzioni. Il tribunale richiama difatti l'art. 1375 c.c., il principio di buona fede: ma la buona fede è altra cosa dall'equità correttiva, che non sta nell'art. 1375 c.c., bensì nell'art. 1374 c.c.: e secondo la nostra giurisprudenza la norma consente al giudice di integrare, appunto, non di sostituirsi alla volontà dei contraenti. Cosa che la già citata redazione tematica aveva egregiamente evidenziato. Il punto è questo: dire che il giudice può intervenire ab externo sul contenuto del contratto, modificandolo, cozza coi principi. Forse il tutto si può armonizzare, ma non dando per scontato ciò che invece deve essere dimostrato. Un'ultima notazione informativa. Il ricorso cautelare era stato depositato il 25 giugno 2020. Ora, il comma 1-quater dell'art. 3 d.l. 30 aprile 2020, n. 28, inserito in sede di conversione dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, ha aggiunto all'articolo 3 del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla Legge 5 marzo 2020, n. 13, il comma 3-ter secondo cui: «Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l'emergenza epidemiologica da COVID-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell'art. 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda». La disposizione è entrata in vigore il 30 giugno 2020, dunque dopo il deposito del ricorso. Peraltro la mediazione obbligatoria - che in tema di rinegoziazione può essere obbiettivamente utile - non avrebbe comunque precluso il ricorso cautelare. |