I ritardi della burocrazia incidono sul riconoscimento della natura di “società di comodo”

Claudio Sciancalepore
05 Ottobre 2020

Ai fini della disciplina sulle società non operative, l'Amministrazione finanziaria non può non tenere conto dei tempi burocratici, ordinariamente non brevi, per il rilascio di autorizzazioni o licenze, necessarie per realizzare i programmi produttivi che il contribuente intende attuare, con il conseguente venir meno di tutte le penalizzazioni.
Massima

Ai fini della disciplina sulle società non operative, l'Amministrazione finanziaria non può non tenere conto dei tempi burocratici, ordinariamente non brevi, per il rilascio di autorizzazioni o licenze, necessarie per realizzare i programmi produttivi che il contribuente intende attuare, con il conseguente venir meno di tutte le penalizzazioni.

La questione

Il caso che si segnala parte dalla impugnazione, davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari, di un avviso di accertamento emesso per IRES, IVA ed IRAP - anno 2012, da parte di una società qualificata dall'Agenzia delle Entrate come società “ di comodo”.

La società ricorrente era stata costituita allo scopo di avviare la realizzazione e gestione di campeggi ed aree attrezzate per roulotte e, a tal fine, aveva acquistato un terreno in agro di Porto Cesareo, in provincia di Lecce, composto catastalmente da più particelle aventi come destinazione urbanistica quella di aree per attrezzature turistiche e balneari - fascia costiera e zone agricole di salvaguardia. Il bene era stato acquistato da un'altra società che aveva già richiesto, anteriormente alla cessione del suolo, le necessarie autorizzazioni per avviare la pratica edilizia. Nonostante i numerosi procedimenti amministrativi intrapresi, poi sfociati in un ricorso al competente TAR conclusosi con sentenza di rigetto nel 2016, la società ricorrente non era riuscita, di fatto, a dare attuazione all'oggetto sociale.

Nel ricorso veniva evidenziato come gli ostacoli amministrativi alla realizzazione di quanto previsto dall'oggetto sociale abbiano fatto sì che, negli anni dal 2009 al 2012, la società andasse in perdita, anche sul piano fiscale, non possedendo altre risorse da far fruttare a copertura del disavanzo causato dai costi sostenuti per gli imprescindibili servizi di progettazione, difesa tecnica ed assistenza contabile e fiscale, non potendo ancora mettere a reddito il suolo con l'avvio dell'attività d'impresa, con l'inevitabile conseguenza del mancato superamento del “test di operatività” negli anni dal 2010 al 2012. La ricorrente osservava, inoltre, come gli obblighi assunti per l'acquisto del suolo in argomento, in assenza delle autorizzazioni richieste ma non ottenute, avevano impedito altresì di intraprendere ulteriori iniziative come l'acquisto di altri suoli ove attuare più rapidamente l'oggetto sociale. La contribuente evidenziava infine come, nelle more del giudizio davanti al TAR, con la finalità di mettere a frutto quanto prima il suolo, nel 2015 aveva comunque presentato una richiesta per la realizzazione di un chiosco bar con annessi servizi, rimanendo in attesa del relativo permesso di costruire.

D'altra parte, la Direzione Provinciale di Bari dell'Agenzia delle Entrate, con apposito invito, aveva chiesto la documentazione contabile, consegnata dalla ricorrente che, nel verbale di contraddittorio, aveva già evidenziato di non poter essere assoggettata alla disciplina delle società non operative poiché, nell'arco della propria esistenza, aveva posseduto soltanto il predetto suolo per il quale, a tutto il 2012, non aveva ancora ottenuto le autorizzazioni amministrative necessarie per attuare l'oggetto sociale, ragion per cui non era applicabile la disciplina delle società non operative.

L'Ufficio, invece, procedeva con la notifica degli avvisi di accertamento in considerazione delle perdite fiscali registrate negli anni dal 2009 al 2012 e del mancato superamento del test di operatività, reputando ai sensi dell'art. 2, comma 36–decies, del D.L. n. 138/2011 e dell'art. 30 della Legge n. 724/1994, che la ricorrente fosse una società “di comodo”, rideterminando, conseguentemente, il reddito d'impresa ai fini IRES,IRAP ed IVA con relative sanzioni ed interessi.

La questione

Il Collegio giudicante, con la sentenza in commento, affronta il tema delle c.d. “società di comodo” o “non operative” ed effettua una puntuale ricostruzione normativa al fine di valutarne l'applicabilità al caso sottoposto al suo giudizio, ricordando prioritariamente che l'intento perseguito dal legislatore è quello di disincentivare, fiscalmente, l'utilizzo di società che non intendano svolgere un'effettiva attività d'impresa e che vengono costituite al solo fine di gestire patrimoni personali.

I giudici della Commissione Tributaria Provinciale di Bari anticipano, già in apertura della parte motiva della sentenza, le proprie conclusioni ritenendo prima facie di poter escludere che la società ricorrente sia sorta al fine unico di gestire un immobile formalmente di sua proprietà ma di fatto attribuito ai soci, avendo la stessa dimostrato che l'unico bene posseduto, vale a dire il più volte menzionato terreno costituito da diverse particelle, non era mai stato assegnato in alcun modo ai soci o a società facenti capo agli stessi. Il Collegio evidenzia peraltro che, data la particolare destinazione urbanistica e lo stato del terreno, caratterizzato sin dal suo acquisto, dall'assenza di manufatti edilizi con presenza unicamente di vegetazione spontanea e macchia mediterranea, non sia immaginabile che lo stesso sia stato o venga utilizzato dai soci per propri scopi personali essendosi, oltretutto, la società attivata in ogni modo per cercare di avviare un'attività turistica su quel suolo, dimostrando di aver incontrato continui impedimenti amministrativi, preclusivi per la realizzazione dell'oggetto sociale.

Nel merito i giudici evidenziano come, volendo per assurdo aderire all'interpretazione fornita dall'A.F., la società ricorrente, non avendo di fatto raggiunto ricavi “normativamente adeguati”, avrebbe dovuto cessare di operare ed essere posta in liquidazione, dismettendo il bene immobile di sua proprietà, dovendo accettare, come unica alternativa, il gravoso ed incostituzionale adeguamento dei ricavi; soluzione, quest'ultima, ovviamente irragionevole come pure quella di vendere il suolo, stante la perdita di valore del bene a causa delle contrarie vicissitudini amministrative e giudiziali innanzi menzionate, senza contare il generale e contestuale crollo del mercato immobiliare.

Da tanto i giudici della Commissione Tributaria provinciale di Bari fanno conseguire che la società, come peraltro ampiamente documentato, si sia trovata ad essere in perdita per ragioni oggettive, indipendenti dalla propria volontà e sicuramente non auspicate dai soci.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento presenta profili di particolare interesse sia per il percorso logico-giuridico seguito per addivenire alla esclusione, nel caso di specie, della sussistenza di una società “di comodo” sia per la ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale sulla disciplina dell'istituto medesimo nonchè per l'attenta disamina della natura delle presunzioni che sorreggono la disciplina di riferimento, affermandone subito la natura di presunzioni semplici.

L'art. 30 della legge 23 dicembre 1994 n. 724, così come modificata dalla legge n. 662/1996, impone alla società di dichiarare, in ogni caso, un reddito imponibile minimo e, pertanto, si considera di comodo se, alternativamente, non supera il test di operatività o si trova, ex art. 2 D.L. 138/2011, in condizione di perdita c.d. “sistematica”. Per verificare l'operatività di una società, e quindi verificare il superamento del test di operatività, la legge prevede l'applicazione di determinati criteri. Occorre, essenzialmente, determinare i ricavi minimi, la media dei ricavi effettivi e procedere, quindi, a calcolare, ove necessario, il reddito da dichiarare.

Al riguardo i giudici ricordano come l'art. 30 della richiamata legge n. 724/1994, stabilisce, al primo comma, una prima presunzione in base alla quale si considerano “non operative” le società che non superano iltest di operatività”, ed ai commi 3 e 3-bis, una seconda presunzione applicabile solo dopo che sia stato riscontrato il mancato superamento del “test di operatività”, in base alla quale si presume che il reddito ed il valore della produzione netta IRAP non possono essere inferiori all'importo minimo forfettariamente e normativamente determinato; ed infine la presunzione , introdotta dall'art. 2, comma 36-decies del D.L. n. 138/2011, per cui si considerano “non operative” le società in perdita fiscale sistematica. Il Collegio al riguardo precisa che, trattandosi di presunzioni semplici, è ammessa la prova contraria anche a mezzo di contrarie presunzioni semplici, restando ininfluente, peraltro, la mancata presentazione dell'istanza di interpello disapplicativo (in tal senso si veda la richiamata giurisprudenza di legittimità: Cass., Sez. V, Sent. n. 21358 del 21/10/2015; Cass., Sez. V , Sent. n. 16204 del 20/06/2018; Cass., Sez. V, Sent. n.21358 del 21/10/2015).

I giudici, richiamando gli arresti della giurisprudenza di legittimità sull'argomento, chiosano evidenziando come un'applicazione delle presunzioni di cui alla disciplina afferente alle società non operative tale da rendere l'assolvimento dell'onere della prova così gravoso per il contribuente da renderne pressochè impossibile l'assolvimento, renderebbe tali presunzioni costituzionalmente illegittime per violazione non solo del principio della capacità contributiva bensì del fondamentale diritto di difesa, di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione.

Il Collegio ritiene inoltre che, nel caso in esame, non si è verificata la situazione astrattamente osteggiata dalla normativa in materia di società “non operative”, in quanto si è in presenza di eventi di carattere oggettivo, indipendenti dalla volontà della società ricorrente e dei suoi soci, che hanno impedito alla medesima società il conseguimento di un ammontare complessivo di ricavi, di incrementi di rimanenze e proventi pari o superiore all'importo stabilito dall'applicazione dei coefficienti, di cui all'art. 30, comma 1, della Legge n. 724/1994, nonché il conseguimento del reddito minimo presunto, di cui all'art. 30, comma 3, della stessa legge, e che hanno determinato, per gli anni dal 2009 al 2012, le perdite fiscali registrate considerati i costi imprescindibili, così come determinati. In altre parole, la società ricorrente ha fornito la prova di essersi trovata, per ragioni ad essa non addebitabili, nell'impossibilità oggettiva di svolgere l'attività economica che si era prefissata di esercitare, pur avendo fatto tutto quanto rientrava nell'ambito della propria sfera decisionale per dare avvio all'attività imprenditoriale che si era prefissata di svolgere.

Evidenzia il Collegio che, in definitiva, le attività di progettazione e di assistenza tecnica nonché gli adempimenti fiscali contabili e dichiarativi hanno comportato dei costi a carico della società ricorrente che, negli anni presi in considerazione nell'atto impugnato, hanno reso impossibile l'esercizio dell'attività economica che la stessa si era prefissata di svolgere, impedendole il raggiungimento dei risultati minimi previsti dall'art. 30 della Legge n. 724/1994 e di ottenere i ricavi necessari per evitare le reiterate perdite, di contro, registrate. I giudici sottolineano, quindi, che è la mancata concessione dei permessi e delle autorizzazioni edilizio-urbanistiche ed ambientali, con riguardo all'unico bene immobile di proprietà della medesima società, che ha impedito alla stessa di operare secondo l'oggetto sociale.

Dalla dettagliata ricostruzione fattuale, normativa e giurisprudenziale i giudici fanno emergere l'evidenza per cui si sono verificate oggettive circostanze impeditive, indipendenti dalla volontà della società e dei soci, che non consentono di applicare, al caso di specie, la disciplina delle società “non operative” con il conseguente venir meno di tutte le penalizzazioni inflitte con l'atto impugnato e con la relativa caducazione dei recuperi a tassazione operati con il medesimo atto e relative sanzioni.

Il Collegio sentenzia, quindi, che il Fisco non può non tener conto dei tempi burocratici, ordinariamente non brevi, per il rilascio di autorizzazioni o licenze necessarie per realizzare i programmi produttivi che il contribuente intendeva attuare.

I giudici, al riguardo, ricordano come sia la giurisprudenza sia la prassi (V. Circolari dell'Agenzia delle Entrate n. 5/E/2007e 44/E/2007) escludono la natura di società “di comodo” nel caso di società che non conseguono ricavi a causa del mancato ottenimento delle autorizzazioni amministrative ed in più evidenziano come sia stato comprovato dalla società, con ispezione ipotecaria, che il suolo in questione sia sempre stato l'unico bene immobile, su tutto il territorio nazionale, di proprietà della ricorrente; ragion per cui da un lato la ricorrente disponeva di un unico terreno su cui attivarsi per attuare l'oggetto sociale e dall'altro, a causa del mancato ottenimento delle necessarie autorizzazioni amministrative, aveva intrapreso azioni legali modificando e semplificando l'opus da realizzare riducendolo ad un chiosco bar, con annessi servizi, proprio al fine di intraprendere l'esercizio dell'attività imprenditoriale integrante l'oggetto sociale. A supporto della propria convinzione i giudici sottolineano che il suolo in esame non aveva mai subito alcuna trasformazione o intervento atto a renderlo idoneo a generare il benchè minimo vantaggio per la società o i soci prestandosi, di contro, agli svantaggi derivanti dall'alto rischio che ivi si realizzasse una discarica abusiva, a seguito del discarico incontrollato di rifiuti da parte di terzi.

Osservazioni

La sentenza in commento risulta di particolare valore sia sotto il profilo di diritto sostanziale sia processuale. Per quanto riguarda il primo aspetto, infatti, la conclusione a cui sono giunti i giudici baresi è stata pienamente legittimata dalla successiva giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, sez. trib., n. 3063 del 1 febbraio 2019) secondo cui la disciplina delle società non operative di cui all'art. 30 della L. n. 724/94, può essere disapplicata anche in caso di lungaggini amministrative inerenti il procedimento di autorizzazione all'esercizio dell'attività, a condizione però che i relativi procedimenti siano stati attivati tempestivamente e coltivati dal contribuente, presupposto questo ampiamente ricorrente nel caso di specie.

Sotto il profilo processuale, invece, il Collegio assicura adeguata motivazione a sostegno della decisione di compensare le spese fra le parti, aspetto a cui, troppo spesso, non viene riservato il giusto rilievo nelle decisioni giudiziali. Nel caso di specie, infatti, la sentenza correttamente attribuisce valenza e rilevanza al fatto che la ricorrente, sebbene nel processo verbale redatto in contraddittorio con l'Amministrazione Finanziaria si fosse riservata di presentare la documentazione attestante le circostanze impeditive dell'inizio dell'attività, in realtà non sia più tornata presso l'Ufficio per presentare la documentazione in questione limitandosi a fornire, solo in sede di giudizio, l'idonea e compiuta dimostrazione della sussistenza di una causa impeditiva oggettiva, indipendente dalla sua volontà, di esercitare l'attività d'impresa per la quale era stata costituita.

La decisione in argomento risulta, quindi, connotata dalla concreta e diretta attuazione di quelli che sono i principi generali dell'ordinamento tributario contemplati dallo Statuto dei diritti del contribuente, in particolare quello di collaborazione tra Fico e contribuente, di cui all'art. 10, comma 1, là dove viene attribuito il giusto valore negativo all'approccio poco collaborativo della società contribuente che, pur nel diritto di riservare alla fase processuale l'esibizione delle prove a proprio discarico, non ha comunque onorato l'impegno, assunto e verbalizzato in fase di contraddittorio con l'Ufficio, di fornire allo stesso la documentazione necessaria nella fase pre-contenziosa.

La predetta norma stabilisce che “I rapporti tra contribuente ed Amministrazione Finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”, ragion per cui la doverosità di un comportamento collaborativo va desunta trasversalmente dall'intero contesto ordinamentale. Riuscire ad individuare correttamente gli ambiti applicativi di tale dovere e comprendere se il medesimo si riferisca all'Amministrazione Finanziaria, al contribuente o ad entrambe le parti ha, con ogni evidenza, fondamentali risvolti applicativi. Ciò che è certo è che entrambe le parti del rapporto fiscale, nell'esecuzione degli adempimenti collegati alla fase istruttoria dell'accertamento, devono assicurare il rispetto del dovere di correttezza, come imposto, in via generale , dall'art. 1175 c.c..

Eventuali scorrettezze, pertanto, ben potrebbero avere effetti sfavorevoli per lo stesso contribuente tra cui la possibilità per il giudice di trarre argomenti di prova anche dal contegno tenuto dal soggetto passivo come nel caso in cui non fornisca i chiarimenti richiesti dall'Amministrazione Finanziaria o non offra i riscontri documentali in suo possesso, analogamente a quanto accaduto nella vicenda processuale in osservazione. Può, pertanto, accadere che la mancanza di collaborazione possa assurgere ad elemento di valutazione in sede processuale, alla stregua di un comportamento omissivo. Nel caso di specie, peraltro, l'A.F. nell'ambito dei propri poteri di richiedere al contribuente dati e documenti utili alla propria attività di accertamento, non pare essere andata oltre un reale rapporto di collaborazione, alla luce altresì della disponibilità manifestata dalla contribuente medesima di ostendere la documentazione richiesta dall'ufficio.

Alla luce di tali considerazioni, per cui il contribuente sia in fase procedimentale sia processuale, deve rispettare il dovere di correttezza e buona fede, la sentenza in commento presenta un profilo di estremo interesse laddove costituisce un concreto esempio di rimedio giustiziale alla violazione del principio di collaborazione, questa volta imputabile alla parte più debole del rapporto tributario.

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