Limiti del diritto di critica sindacale: causa di risarcimento per diffamazione
08 Ottobre 2020
Massima
La differenza tra diritto di critica e diritto di cronaca consiste nel fatto che il primo non si limita ad una narrazione dei fatti, bensì in una ricostruzione degli stessi sottoponendoli ad un giudizio personale. Ne consegue che nella scriminante del c.d. diritto di critica non si verifica scrupolosamente la veridicità storica dei fatti raccontati, ma è necessario che gli stessi nei loro elementi essenziali siano veri o ritenuti tali per errore assolutamente scusabile e che nell'esposizione del giudizio sugli stessi non si superi il rispetto degli altrui diritti alla reputazione, all'onorabilità della persona e al decoro. (La Suprema Corte ha confermato il risarcimento del danno per diffamazione a carico di alcuni membri della RSU che hanno affisso sulla bacheca sindacale una comunicazione nella quale si sosteneva che un ex dipendente della ditta era stato licenziato perché “si è intascato in modo indebito soldi non versati nella cassa”). Il caso
Tizio aveva presentato ricorso contro i membri della RSU dell'impresa per la quale lavorava poiché questi avevano affisso un cartello nella bacheca sindacale con la quale si sosteneva che era stato licenziato perché “si è intascato in modo indebito i soldi mai versati alla cassa”. In primo grado il Tribunale di Milano aveva respinto integralmente la richiesta risarcitoria di € 50.000,00 da parte dell'attore. La Corte d'Appello accoglieva parzialmente la domanda dell'attore condannando i membri della RSU ad un risarcimento quantificato nella minor somma di € 8.000,00. Avverso tale pronuncia i membri della RSU proponevano ricorso in Cassazione lamentando che i Giudici di secondo grado in merito all'esercizio di critica sindacale avevano interpretato il requisito della continenza nel senso di divieto di utilizzo di espressioni offensive. Secondo la tesi dei ricorrenti l'esercizio del diritto di critica sindacale costituiva una giustificazione nell'utilizzo di affermazioni per così dire “colorite”. La questione
Quali sono i limiti del diritto di critica sindacale? Come si determina l'indennizzo a favore del soggetto diffamato? Le soluzioni giuridiche
La Terza Sezione, con ordinanza, conferma la sentenza di secondo grado ritenendo tutti i motivi a sostegno del ricorso inammissibili perché riguardanti valutazioni di merito precluse al Giudice di legittimità. Ciononostante l'ordinanza si sofferma sui requisiti affinché il diritto di critica costituisca una scriminante evidenziando come l'asserzione che il lavoratore si fosse appropriato indebitamente del denaro costituente il corrispettivo di un contratto stipulato dall'azienda ex datrice di lavoro non corrispondesse al vero. I giudici rilevano come i giudici di secondo grado avessero ricostruito integralmente la questione sottolineando le cause del licenziamento. Queste consistevano nell'aver utilizzato permessi aziendali retribuiti per finalità estranee e persino in concorrenza con il core business dell'azienda. L'accertamento nei precedenti gradi di giudizio di un contratto stipulato dal lavoratore in concorrenza con quello stipulato dal datore di lavoro con un'impresa terza faceva ritenere più che plausibile che il lavoratore avesse potuto ricevere somme di denaro che non riguardavano rapporti contrattuali della società datrice di lavoro. Non a caso nella contestazione disciplinare non si faceva alcun riferimento a condotte che potessero essere sussumibili nel reato di appropriazione indebita. La Suprema Corte tenuto conto dell'assenza di qualsiasi riscontro che potesse far apparire quantomeno verosimile l'appropriazione indebita riteneva l'espressione “essersi intascato indebitamente dei soldi” lesiva dell'onore e dell'integrità del lavoratore. Osservazioni
Una peculiarità della sentenza in commento consiste nel fatto che l'esercizio del diritto di critica della rappresentanza sindacale non sia rivolta nei confronti del datore, bensì verso un ex dipendente licenziato per giusta causa. Nella stragrande maggioranza dei casi sottoposti all'autorità giudiziaria la critica sindacale è -ovviamente- indirizzata nei confronti della parte datoriale con tutte le implicazioni in merito all'obbligo di fedeltà e subordinazione del lavoratore posto che comunque i rappresentanti sindacali aziendali sono dipendenti al servizio del datore di lavoro. A quanto consta allo scrivente sussiste solo un altro caso in cui l'esercizio del diritto di critica sindacale abbia avuto come destinatario non il datore, bensì soggetti diversi e, più precisamente, rappresentanti sindacali di altre associazioni (App. Napoli, Sez. IV, sent. 30 giugno 2005). In seno alla giurisprudenza sia di merito che di legittimità si è oramai consolidato l'orientamento iniziato con la sentenza della Suprema Corte sez. lav. del 25 febbraio 1986, n. 1173 in base al quale la critica sindacale ha una duplice copertura costituzionale in quanto manifestazione sia del principio di libertà di manifestazione del pensiero stabilito dall'art. 21 Cost. e sia della libertà dell'azione sindacale sancito dall'art. 39 Cost. Lo stesso diritto di critica trova altresì una tutela nell'art. 10 CEDU e nell'art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentali oltre che essere ribadito dall'art. 1 dello Stat. Lav. Sulla base di questa lettura deriva una più ampia estensione del diritto di critica del lavoratore che svolge funzioni sindacali rispetto al semplice lavoratore. Il sindacalista si pone in una posizione di pari livello con il datore di lavoro purché la critica sia finalizzata al miglioramento delle condizioni lavorative della collettività dei dipendenti o per finalità relative all'esercizio dell'attività sindacale (cfr. ex plurimis, Cass. civ., Sez. lavoro, Sent. n. 11436 del 3 novembre 1995; Cass. civ., sez. lav sent. del 10 luglio 2018 n. 18176). Sussiste, quindi, un rapporto paritario solo se tale diritto di critica viene esercitato per finalità sindacali e, quindi, abbia come oggetto le condizioni di lavoro e le scelte organizzative che incidono su di esse. Sotto questo profilo la critica anche se aspra è ampiamente discriminata ed, anzi, eventuali sanzioni disciplinari comminate dal datore sarebbero censurabili sia sotto il profilo discriminatorio sia dal punto di vista della repressione della condotta antisindacale ex art. 28 statuto lavoratori. Dunque anche se la sentenza in commento nulla rileva sulle finalità della critica sindacale, anche sotto questo profilo la condotta dei rappresentanti sindacali non sarebbe stata discriminata. Non sussiste alcun nesso tra la tutela delle condizioni generali di lavoro e l'accusa, peraltro infondata, nei confronti del lavoratore di essersi appropriato indebitamente del denaro dell'azienda. In relazione alla finalità di rilevanza costituzionale della critica sindacale la stessa può essere esercitata con toni aggressivi o addirittura esagerati, ma non deve mai superare il rispetto degli altrui diritti alla reputazione, all'onorabilità della persona ed al decoro (Cass. pen., sez. V, sent. 27 giugno 2000, n. 7499 e Cass. civ., sez. lav., sent. 6 giugno 2018, n. 14527). Se l'orientamento maggioritario della Suprema Corte è quello di tracciare il limite a tale esercizio con il divieto di utilizzo di espressioni volgari o volutamente iperboliche, parte della giurisprudenza ha esteso i confini della scriminante in questione ritenendo legittimo l'esercizio della critica sindacale anche mediante l'uso di un linguaggio colorito e inappropriato (Cass. civ., sez Lav. 14 giugno 2004 n. 11220) e parametrando tale requisito alle capacità linguistiche e al modo di esprimersi di colui che esercita tale diritto. Oltre la sussistenza delle finalità sin qui esposte e della continenza formale, l'altro requisito necessario per il corretto esercizio del diritto in commento è la cd continenza sostanziale, ovvero la veridicità delle affermazioni effettuate. Tale secondo requisito è da declinarsi in maniera più attenuata rispetto all'esercizio del diritto di cronaca. Sotto questo profilo il criterio della veridicità secondo parte della giurisprudenza andrebbe valutato in base al concetto di “verità putativa”, quindi la credibilità dei fatti oggetto di critica (Cass. civ., Sez. III, sent. 10 luglio 2018 n. 18176. Tuttavia in senso contrario in relazione alla necessaria esistenza oggettiva dei fatti oggetto di critica si veda Cass. civ., Sez. lav. Sent. del 7 maggio 2018 n. 10897). La sentenza in commento nulla rileva in merito alla quantificazione del danno nel caso in cui il diritto di critica sconfini nella diffamazione. Sul punto un interessante precedente in merito alla quantificazione del danno derivante da diffamazione è la sentenza della Cassazione Lavoro n. 7471 del 14 maggio 2012. In tale pronuncia viene esaminato un caso di un rappresentante sindacale che era stato sanzionato disciplinarmente per la critica rivolta al proprio datore di lavoro. Accertata giudizialmente la legittimità della critica in quanto costituente l'esercizio delle prerogative di rappresentante sindacale, il ricorrente richiedeva altresì il danno per diffamazione dovuto dal fatto che la sanzione disciplinare dichiarata illegittima lo avrebbe screditato sul luogo di lavoro. La Suprema Corte ricorda che anche nel caso di diritto inviolabili come la libertà di pensiero e critica e la reputazione il danno non è “in re ipsa”, ma deve essere allegato e provato in giudizio anche mediante l'utilizzo di presunzioni semplici (sul punto, cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. 13 maggio 2011 n. 10527). Del resto anche in un altra tipica ipotesi giuslavoristica di danno, quello da demansionamento, le Sez. Unite, sent. n. 6572 del 24 marzo 2006, hanno stabilito che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, derivante dall'esser adibito a mansioni inferiori deve anch'esso essere oggetto di specifica allegazione da parte del lavoratore il quale nel ricorso deve fornire elementi dal quale si possa desumere la natura e le caratteristiche del pregiudizio medesimo.
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