La prova dello stato di ansia nel delitto di stalking tra vicini di casa
09 Ottobre 2020
Massima
Non è decisiva, ai fini della configurazione del reato di atti persecutori, la consulenza medico-psicologica in ordine alla sussistenza del perdurante e grave stato d'ansia e di paura di cui alla lett. a) dell'art. 612-bis c.p. se, alla luce di tutte le fonti di prova, sussistono altri importanti elementi probatori concernenti l'evento alternativo indicato dalla lett. c), ossia “la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita”. Il caso
Tizio, proprio balcone, rivolge ripetutamente frasi minacciose ai vicini di casa dirimpettai, e successivamente impedisce loro l'accesso al garage, rifiutandosi di spostare il suo veicolo appositamente ivi parcheggiato. Le reiterate condotte vessatorie poste in essere dal vicino di casa sono tali da obbligare l'intera famiglia a rientrare a casa passando dal retro, in modo da sottrarsi al pericolo di prossime aggressioni verbali e minacce. All'autore dei fatti vengono contestati i reati di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e di violenza privata (art. 610 c.p.), avvinti dal nesso della continuazione. Tutti i suddetti episodi minacciosi e aggressivi si svolgono ai danni dell'intero nucleo familiare, tra cui un minore, e alla presenza di testi oculari. Il Pubblico Ministero dispone consulenza tecnica, nominando una esperta in psicologia, allo scopo di verificare se le parti lese, compreso il minore, abbiano accusato un perdurante e grave stato di ansia e di alterazione dell'equilibrio psico-fisico a causa della condotta persecutoria posta in essere dal vicino di casa. A sua volta la difesa dell'imputato nomina un proprio consulente tecnico esperto in neuropsichiatria, il quale però contesta l'elaborato tecnico della collega in merito alle condizioni psicologiche del minore. Durante il dibattimento, innanzi al giudice, l'esperta psicologa depone testimonianza quale teste della pubblica accusa ribadendo il suo punto di vista. Avverso la sentenza di condanna ricorre in cassazione l'imputato, il quale innanzitutto eccepisce la nullità della sentenza, essendogli stata negata l'autorizzazione dai giudici di merito a farsi assistere dal suo consulente tecnico nel corso del controesame della teste esperta (la psicologa consulente del PM), trattandosi di questioni scientifiche di natura tecnica e non giuridica che richiedono il supporto tecnico anche durante l'escussione della prova testimoniale. Ritiene in sostanza la difesa che l'evento del reato di stalking, consistente nello stato di ansia e di alterazione psichica causato dalle condotte vessatorie del presunto reo, non sia stato sufficientemente provato, non essendo state rispettate le garanzie del contraddittorio durante l'acquisizione della testimonianza dell'esperto psicologo in dibattimento, e pertanto che la sentenza di condanna sia affetta da nullità e il giudizio tecnico del consulente non sia affidabile. In secondo luogo, la difesa contesta la credibilità delle dichiarazioni rese da tutte le parti lese. La questione
La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte non concerne la definizione degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. (perdurante stato d'ansia, timore di subire un male ingiusto, cambio delle abitudini di vita), bensì gli strumenti per ricercare la prova dei suddetti elementi. In particolare, gli argomenti posti al vaglio di legittimità da parte della difesa tendono a contestare la legittimità delle modalità e delle procedure di raggiungimento della prova dell'elemento più controverso e sfuggente del reato di atti persecutori: il grave e perdurante stato d'ansia. Sappiamo infatti che, ai fini della prova dell'evento tipico del reato, è indispensabile che venga accertata la sussistenza di una sortadi stato psichico di ansia o paura consistente, in sostanza, una condizione di rottura dell'equilibrio emotivo e di destabilizzazione della serenità della vittima. Tuttavia, fin dall'indomani dell'introduzione della norma incriminatrice, sia in giurisprudenza che in dottrina, si è evidenziato il deficit di tassatività e determinatezza che la fattispecie presenta, soprattutto per ciò che concerne il parametro oggettivo che qualifichi l'alterazione psichica del soggetto che subisce gli atti persecutori come gravi e perduranti. In tal senso, si ricorda che è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 25, comma 2, Cost., in quanto la norma non determinerebbe il minimum di condotta intrusiva temporaneamente necessaria per la configurazione del reato di cui all'art. 612-bis c.p., né cosa debba intendersi per perdurante stato di ansia e paura, né per fondato timore. La Corte Costituzionale (Corte Cost., n.172/2014) ha ritenuto la questione infondata, in quanto la norma, pur ricorrendo ad una tecnica di descrizione della fattispecie di tipo sintetico, che prescinde da una specifica definizione dei comportamenti vietati, consente tuttavia di fornire all'interprete un significato sufficientemente chiaro e preciso attraverso un'interpretazione integrata che rinvia a concetti extragiuridici o a dati tratti dall'esperienza. Sull'onda di questo orientamento dubbioso circa la completa determinatezza della fattispecie si collocano alcune pronunce della Suprema corte secondo cui la verifica della sussistenza dello stato psichico di “perdurante ansia”, da collegare causalmente all'azione criminosa dello stalker, “non può essere affermata semplicemente sulla base delle allegazioni della persona offesa”, non essendo ammissibile “con riferimento al reato in questione, una sorta di autodiagnosi da parte della pretesa vittima, anche perché neanche può essere trascurata l'ipotesi in cui la vittima stessa sia, di per sè e a prescindere dalla condotta dell'agente, un soggetto portatore di una patologia ansiosa, depressiva o di altra natura”che tale stato di stress fosse quantificabile e misurabile in base ad un criterio diagnostico omogeneo (Cass.pen., sez. V, 24 marzo 2015, n. 20363). Sulla base di ciò, sembrava quindi che fosse suggerito ai Pubblici Ministeri investiti delle indagini, prima, ed ai Giudici del merito, poi, nonché agli stessi difensori, di accertare la sussistenza dello “stato di stress o ansia” correlato all'azione delittuosa attraverso il ricorso allo strumento della consulenza tecnica/perizia medico-legale e psicologica, come si è soliti fare in tutti i casi in cui l'accertamento della verità processuale necessiti di un approfondimento scientifico, sottratto per sua natura alle competenze del giudice, sebbene peritus peritorum. Sembrava, quindi, indispensabile sottoporre le presunte vittime ad indagine medico-legale e psichiatrico-psicologico forense, attraverso un iter peritale corredato da strumenti specifici che possano il più possibile oggettivare la presenza di dati clinici riconducibili alle molestie denunciate, pur tenendo conto che lo stato di ansia costituisce una risposta individuale e personalissima di ciascuno di noi all'esperienza vissuta e che si differenzia in base alla capacità reattive e ad altri fattori psicologici. Successivamente, si è, però, affermato un diverso orientamento giurisprudenziale che ha manifestato una tendenza meno rigorosa nell'accertamento dello stato di stress perdurante e grave, non richiedendo che tale stato di alterazione psicologica coincida necessariamente con una patologia clinica vera e propria da accertare mediante certificati medici o perizia medico-legale, essendo sufficiente verificare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta del colpevole sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base delle regole di esperienza comune. Tale giurisprudenza afferma che si può prescindere da qual si voglia accertamento di stato patologico, essendo sufficienteche il contegno persecutorio dell'agente destabilizzi la serenità e l'equilibrio psicologico della vittima; quindi, che la prova del perdurante e grave stato di ansia o paura sia ricavabile dalle dichiarazioni della vittima e dai comportamenti conseguenti alla condotta dell'agente. Detto in altri termini, la condotta molesta (consistita nel caso in esame in ripetute minacce) deve essere, sulla base all'esperienza comune, tale da destabilizzare chiunque, anche senza bisogno che tale effetto sia dimostrato da un medico-legale, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa anche sulla base di massime di esperienza (Cass. pen., sez.V, 15 luglio 2016, n. 30334; Cass. pen., sez. V, 11 aprile 2017 n. 18646). Le soluzioni giuridiche
Ritornando alle questioni eccepite dalla difesa dell'imputato nel caso in esame, si precisa che la Corte di cassazione, nel dichiarare infondato il ricorso, condivide con il ricorrente il noto orientamento secondo il quale dà luogo a nullità di ordine generale il diniego di autorizzazione alla parte di farsi assistere dal consulente nel corso dell'esame testimoniale in dibattimento. Ma, evidenzia la Corte, si tratta, tuttavia, di nullità da ritenersi sanata, se è non dedotta immediatamente dopo l'ordinanza con la quale viene pronunciato il diniego di autorizzazione dalla parte che richiede di farsi assistere dal consulente. Nel caso al vaglio, attraverso l'esame degli atti, si constata che durante l'udienza con la quale il giudice di primo grado aveva sciolto la riserva rigettando la richiesta di autorizzazione proposta nell'interesse dell'imputato, il difensore presente nulla aveva eccepito immediatamente dopo la lettura dell'ordinanza in tal senso pronunciata. Pertanto, sotto il profilo processuale, l'eccezione di nullità della sentenza non merita accoglimento, in quando sanata. Inoltre, dal punto di vista della logicità e linearità logico-espositiva della sentenza di condanna, la Corte di cassazione evidenzia la superfluità dell'acquisizione probatoria dell'elaborato peritale e della testimonianza esperta in ordine allo stato di ansia del nucleo familiare e alle condizioni psichiche del bambino. Gli argomenti addotti non rivelano l'accoglimento dell'orientamento meno esigente sul piano probatorio, ma altri aspetti. Innanzitutto, si evidenzia che la deposizione della teste del Pubblico Ministero, psicologa del bambino, alla luce anche di tutte le fonti di prova, non è stata affatto decisiva ai fini della configurazione del reato e della conseguente condanna, dal momento che sussistono altri importanti elementi probatori concernenti, non tanto lo stato psichico di ansia e paura, quanto l'evento alternativo indicato dalla lett. c) dell'art. 612-bis c.p., ossia “la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita”. Ebbene, in proposito, i giudici di merito avevano indicato come evento alternativo del reato di atti persecutori anche il riscontrato cambio di abitudini di vita del nucleo familiare (in quanto costretti a passare dal retro, per evitare gli insulti al momento del rientro in casa), elemento già in sé sufficiente ad integrare il delitto di atti persecutori e confermato da altre fonti di prova, cioè da testi oculari. Perciò, a prescindere dall'accertamento dello stato di ansia, sulla base della mera ricostruzione del comportamento della vittima, basta dare atto del fatto che la vittima abbia modificato le proprie abitudini di vita al fine di non essere perseguitata e gli ulteriori elementi probatori avevano consentito di dimostrare che il “cambiamento di abitudini di vita" fosse significativo nonché diretta conseguenza della costrizione che l'agente ha esercitato sulla vittima. Osservazioni
Il caso in esame suscita una serie di riflessioni e osservazioni. La prima concerne la frammentazione delle condotte contestate quali reati autonomi, sia pure unificati dal vincolo della continuazione, ovvero il rapporto tra il reato di atti persecutori, concernente il proferimento reiterato di frasi minacciose (art. 612 bis c.p.), e il reato di violenza privata (art. 610 c.p.), consistente nell'aver ostacolato l'accesso al garage rifiutandosi di rimuovere l'auto appositamente collocata in modo da impedire la libertà di locomozione. La perplessità nasce dalla constatazione della vaghezza della nozione di atti persecutori, che il legislatore non ha né descritto in modo analitico né definito in modo tassativo, volendo comprendere qualunque comportamento che sortisca uno dei tre eventi richiamati alle lettere a), b) e c). Ne segue, quindi, che il reato di atti persecutori assorba certamente alcuni fatti autonomamente qualificabili come reato alla stregua di altre fattispecie incriminatrici, come certamente le minacce (art. 612 c.p.) e le molestie (art. 660 c.p.). E' controverso invece se il reato in esame debba assorbire anche quello di violenza privata, punito dall'art. 610 c.p. In proposito, la giurisprudenza ha preso posizione a favore della configurabilità del concorso tra reato di violenza privata e quello di atti persecutori, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi e in considerazione dell'elemento specializzante di cui all'art. 610 c.p., dato dallo scopo di costringere altri a fare, tollerare o omettere qualcosa, impedendone la libera determinazione, che invece manca nel reato di atti persecutori (Cass. en., sez. III, 13 giugno 2013, n. 25889; Cass. pen., sez. V, 11 novembre 2014, n.2283). La seconda riflessione concerne la definizione e l'accertamento dell'evento tipico “grave e perdurante stato di ansia”. La dottrina lo definisce come stato emotivo che la vittima percepisce come spiacevole in conseguenza di condotte assillanti quali fattori di condizionamento causali. La questione è se tali stati devono essere ricostruiti ed accertati secondo parametri rigorosamente oggettivi e scientifici o secondo il senso comune, tenendo però in conto che i termini ansia e paura, oltre ad essere estranei al linguaggio penalistico, sono molto generici tanto da sovrapporsi e spesso essere usati come sinonimi. Facendo riferimento a forme patologiche che trovano riscontro nella letteratura medica, i termini ansia e paura descrivono un fenomeno psichico assai specifico: il disturbo d'ansia generalizzato, ossia uno stato caratterizzato da preoccupazione costante ed eccessiva, sproporzionato rispetto alla realtà dei fatti, con la presenza di manifestazione di sintomi ansiogeni protratti nel tempo, anche in assenza di veri e propri fattori o eventi esterni che li scatenino. Gli esperti evidenziano come al siano necessari la manifestazione di tre o più sintomi, quali irrequietezza, affaticamento, difficoltà a concentrarsi, vuoti di memoria, alterazione del sonno, con cadenza giornaliera e in modo continuativo per almeno sei mesi. L'indagine sulla durata temporale del disturbo, suggerita dagli studi piscologici, potrebbe fornire una utile guida al magistrato nel giudizio. De Simone, Il delitto di atti persecutori, Aracne, 2013; Alberico, La reiterazione delle condotte nel delitto di atti persecutori, in Diritto penale contemporaneo, 18 maggio 2011; Diamante, La prova del perdurante e grave stato di ansia e di paura della vittima di stalking, in ProfessioneGiustizia.it, 30 novembre 2015. |