Sulla liquidazione del “danno morale” in aggiunta al danno biologico, come conseguenza pregiudizievole diversa e ulteriore

14 Ottobre 2020

A quali condizioni può essere liquidato il danno morale in aggiunta al danno biologico, ossia come voce di danno autonoma e non sovrapponibile allo stesso?
Massima

Pur dovendosi ribadire che la liquidazione del danno morale non è da considerare conseguenza automatica dell'avvenuto riconoscimento del danno biologico, deve tenersi conto del fatto che non può essere, in ogni caso, disconosciuta al danno morale autonoma consistenza, là dove esso si riferisca a profili di pregiudizio (il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione) non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente; la liquidazione del danno alla persona deve, infatti, aver luogo: evitando duplicazioni, misurandosi con l'unitarietà del danno non patrimoniale, ma anche assicurando alla vittima l'integrale riparazione del danno subìto.

Il caso

Nel caso di specie, una paziente veniva invitata a sottoporsi ad un intervento di colangiopancreatografia retrograda endoscopica (in sigla CPRE) presso una Struttura ospedaliera di Catania. L'intervento veniva programmato da un chirurgo endoscopista, il quale, tuttavia, prima di procedere, non svolgeva alcun accertamento preliminare, neppure ecografico, né forniva alla paziente adeguate informazioni circa le modalità con le quale si sarebbe svolta la procedura, né circa gli eventuali rischi che la stessa avrebbe potuto correre e, nemmeno, la informava in ordine alle ipotizzabili alternative chirurgiche.

L'intervento di CPRE non veniva eseguito perché, dopo vari tentativi, i medici non riuscivano a predisporre le cannule nelle vie biliari per consentire l'esame endoscopico. La sollecitazione dovuta alle numerose prove fatte dallo staff medico aggravava ulteriormente le condizioni della paziente, che veniva colpita da pancreatite acuta con versamento endoaddominale; per questo, veniva dapprima trasferita nel reparto di terapia intensiva, e successivamente trasportata in eliambulanza in ospedale di altra città, dove veniva sottoposta ad una massiccia terapia antibiotica per un periodo di 50 giorni, per poi essere dimessa.

Dopo aver cercato di ottenere stragiudizialmente il risarcimento dei danni subiti, la ricorrente chiedeva al Tribunale di Catania di essere sottoposta ad accertamento tecnico preventivo, dal quale emergeva un danno biologico permanente dell'8%, una riduzione della capacità lavorativa specifica dell'8%, una invalidità temporanea assoluta di 100 giorni, ed una invalidità temporanea del 50% di 60 giorni. La paziente agiva dunque in giudizio dinanzi al Tribunale di Catania per chiedere il risarcimento dei danni nei confronti della Struttura ospedaliera e del medico endoscopista.

Il Tribunale di Catania rigettava, in primo grado, la richiesta risarcitoria.

La Corte d'Appello investita del gravame dalla soccombente, con sentenza n. 388/2017, riformava la decisione di primo grado: tuttavia, pur ravvisando la responsabilità del medico endoscopista e della Struttura sanitaria (che condannava in solido al relativo risarcimento, quantificandolo, in base alle Tabelle milanesi, in euro 25.595,00 a titolo di invalidità temporanea e permanente, per un danno biologico dell'8%), riteneva di non dover liquidare il danno morale.

Per tale ragione, la ricorrente proponeva ricorso per Cassazione.

La questione

La Suprema Corte di cassazione ritorna su un argomento chiave nella liquidazione del danno non patrimoniale alla persona: ovvero la sua “personalizzazione”.

Senza mettere in discussione il principio di omnicomprensività del danno biologico, l'ordinanza n. 19189/2020 apre le porte alla autonoma consistenza e risarcibilità del danno morale da malpractice sanitaria.

La pronuncia cerca così di rispondere al seguente interrogativo: “a quali condizioni può essere liquidato il danno morale in aggiunta al danno biologico, ossia come voce di danno autonoma e non sovrapponibile allo stesso"?

Le soluzioni giuridiche

Nell'ipotesi esaminata dalla Suprema Corte nel caso di specie, la ricorrente sosteneva che la Corte d'Appello di Catania avesse omesso, senza ragione, di liquidare il danno morale ai sensi e per gli effetti dell'art. 2059 c.c., e in combinato disposto con quanto previsto dalle Tabelle del Tribunale di Milano; danno richiesto espressamente nella misura corrispondente alla personalizzazione del danno biologico prevista dalle predette Tabelle (+50%) per la fascia d'età della paziente (45 anni) all'epoca del pregiudizio, e per la percentuale di danno biologico accertata (8%).

Tale immotivato scostamento dalle Tabelle di Milano, sarebbe stato in palese ed insanabile contrasto con l'evoluzione della nozione giuridica di danno non patrimoniale, e coi precedenti della Suprema Corte.

La Corte d'Appello, in particolare, ad avviso della ricorrente, avrebbe omesso di considerare alcune rilevanti circostanze di fatto che avrebbero dovuto imporre la liquidazione del danno morale: in primo luogo, l'astratta ricorrenza del reato di lesioni personali colpose, perseguibile d'ufficio (essendo sorta una malattia nel corpo o nella mente superiore a venti giorni); in secondo luogo, i gravi turbamenti e le significative sofferenze psico-fisiche patite dopo l'intervento endoscopico (atteso che la donna ebbe un collasso poche ore dopo l'intervento con fortissimi dolori addominali e repentino innalzamento dei valori di amilasi e amilasuria; che venne ricoverata presso il Centro di rianimazione a seguito della Tac eseguita all'indomani dell'intervento, che permise di diagnosticare la pancreatite necrotico emorragica con versamento endoaddominale; che venne trasferita d'urgenza in elicottero in altra città a seguito del progressivo decadimento delle condizioni cliniche generali, ove rimase ricoverata 50 giorni, subendo massicce terapie medico farmacologiche per non incorrere in pericolo di vita; che venne ricoverata successivamente per l'eliminazione della calcolosi in conseguenza di una forte colica addominale come diretta conseguenza del trauma patito a causa della pancreatite, con successiva sottoposizione a intervento chirurgico di laparotomia esplorativa; che venne nuovamente ricoverata per gli esiti di pancreatite cronica consistenti in crisi sub-occlusive ricorrenti).

Ebbene, la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso della paziente, ha stabilito che, nonostante il danno morale non sia da considerare una conseguenza automatica dell'avvenuto riconoscimento del danno biologico cagionato dal medico, alla paziente vada, comunque, assicurata l'integrale riparazione del pregiudizio subìto a seguito della malpratica del sanitario.

Non può essere infatti disconosciuta al danno morale autonoma consistenza laddove esso si riferisca a profili di pregiudizio (il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione) non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente.

La liquidazione del danno alla persona deve avere luogo evitando duplicazioni, misurandosi con l'unitarietà del danno non patrimoniale, ma è, altresì, vero che, al fine di assicurare alla vittima l'integrale riparazione del danno subito, il danno non patrimoniale deve risultare omnicomprensivo.

Quindi, se sono dimostrati profili di pregiudizio estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, il paziente ha diritto ad un autonomo ulteriore risarcimento.

Nella motivazione si legge dunque che, ove ricorra il danno biologico, non necessariamente deve ritenersi esaurito il danno non patrimoniale alla persona (Cass. civ., 21 settembre 2017, n. 21939; Cass. civ., 7 novembre 2014, n. 23778): solo una logica deformante di panbiologizzazione – spiega la Corte – che, per di più, tradisce il significato della omnicomprensività, può indurre a credere che il danno biologico abbia carattere assorbente ed esclusivo di ogni altra voce di danno alla persona (Cass. civ., 17 gennaio 2018, n. 901, nella quale si sottolinea che tale tesi è stata sconfessata al massimo livello interpretativo da Corte Costituzionale 16 ottobre 2014, n. 235, e dalla recente riforma del 2016 – c.d. “Legge di stabilità” – che, nel modificare la rubrica degli artt. 138 e 139 CDA, ha espressamente riconosciuto l'autonomia del danno morale rispetto a quello dinamico-relazionale).

In aggiunta a ciò, nè l'unitarietà del danno non patrimoniale, né la diffusione e l'incentivazione all'uso delle Tabelle di liquidazione, esonerano il giudice del mertio dall'obbligo di rendere trasparenti i criteri di liquidazione adottati, nè da quello di dare contezza del contenuto descrittivo del danno; ciò, non solo al fine di rendere intellegibile la funzione del risarcimento, ma anche di verificare il collegamento e la corrispondenza tra le poste ammesse al risarcimento, i criteri di liquidazione adottati e la somma in concreto riconosciuta alla vittima; somma che deve essere tale da garantire e coniugare l'uniformità di base, con la valorizzazione del vissuto individuale, in vista della realizzazione di una uguaglianza che sia anche sostanziale (ossia in modo tale che vittime della stessa età e con la stessa percentuale di invalidità permanente ottengano il medesimo risarcimento).

In concreto, spiega la Corte, ciò significa che, ove le proiezioni negative patite non divergano da quelle subite da altre vittime della stessa età e con lo stesso grado di invalidità permanente, la vittima non avrà diritto al riconoscimento di un quid pluris rispetto alla somma riconosciuta a titolo di danno biologico, sulla scorta della liquidazione standardizzata realizzata con l'applicazione del metodo tabellare. All'opposto, però, la richiesta risarcitoria di poste ulteriori andrà presa in considerazione ove siano soddisfatte due condizioni; in primo luogo, che la pretesa risarcitoria non sia stata già riconosciuta; in secondo luogo, che vi sia la prova della ricorrenza di circostanze che ne giustificano l'accoglimento.

La prima condizione chiama in causa la natura omnicomprensiva del danno biologico.

La seconda condizione considera, invece, onere del paziente allegare in maniera circostanziata una sofferenza interiore connessa, ad esempio, alla percezione della lesione nella relazione intimistica con sè stesso, alle circostanze in cui si è verificato l'illecito e alla gravità della condotta del medico (nel caso di specie, il ricovero in terapia intensiva, il trasferimento d'urgenza in elisoccorso in altro ospedale, i plurimi ricoveri successivi al primo intervento necessari per fronteggiarne gli esiti negativi e per monitorare le condizioni di salute della paziente).

A queste condizioni, dunque, il danno morale sarà risarcibile in aggiunta al danno biologico, e anche se quest'ultimo non sia di grande entità. L'entità di fatto “contenuta” del pregiudizio alla salute – spiega la Corte - non esclude infatti di per sé la sofferenza interiore, la quale dipende dal modo in cui il danneggiato vive la lesione nella sua sfera intima. E il danno morale si deve addirittura presumere se, pur di fronte ad una ridotta invalidità, il paziente è costretto alla terapia intensiva e a plurimi ricoveri successivi al primo intervento chirurgico.

Osservazioni

La preoccupazione manifestata dai giudici di legittimità nella pronuncia in esame è quella, prima di tutto, di evitare inammissibili duplicazioni risarcitorie: ossia di evitare il rischio di riconoscere alla vittima un ingiustificato arricchimento riconducibile “direttamente” al riconoscimento di una liquidazione che sia il risultato della somma di poste risarcitorie riguardanti il medesimo pregiudizio; ovvero derivante “indirettamente” dalla sopravvalutazione delle conseguenze della lesione occorsa.

Tuttavia, il fatto che la liquidazione debba essere unitaria (così, anche Cass. civ., 17 gennaio 2018 n. 901, la quale ha chiarito che unitarietà significa che la lesione di un interesse della persona, costituzionalmente protetto avente carattere di inviolabilità, produce un danno non patrimoniale), non può essere lo schermo dietro cui celare liquidazioni non trasparenti; e nemmeno può tradursi in un'arbitraria ed immotivata contrazione del risarcimento. Ancor di più, l'uso delle Tabelle milanesi non dispensa il giudice dal rendere trasparenti i criteri di liquidazione adottati.

Ebbene, secondo il ragionamento della Suprema Corte, premesso che il danno biologico non è solo quello derivante dalla violazione dell'integrità psicofisica in sé e per sé considerata - poichè deve tenere conto anche dei riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività realizzatrici della persona umana -, la compromissione dinamico-relazionale da ritenersi conseguenza normale dell'evento costituisce danno biologico non per assorbimento, ma per identificazione (Cass. civ., n. 7513/2018); dunque, di regola, la vittima non può pretendere, in assenza di prova della ricorrenza di una situazione eccezionale, la liquidazione di un quid pluris né come voce autonoma di danno - diversamente etichettato e nominato - né come adeguamento in sede liquidatoria di quanto già riconosciutole a titolo di danno biologico.

Diversa è, tuttavia, l'ipotesi - verificatasi nel caso di specie – nella quale la vittima chieda il riconoscimento a fini risarcitori di una conseguenza pregiudizievole diversa dal danno biologico, con ciò intendendo una proiezione negativa dell'illecito che non abbia costituito la base di riferimento per la liquidazione del danno biologico medesimo, perché non avente base organica, ed estranea alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente (come, ad esempio, la sofferenza interiore, il dolore dell'animo e la paura). Nello stesso senso si è pronunciata Cass. civ., ordinanza 26 maggio 2020, n. 9865, secondo cui “non costituisce duplicazione la congiunta attribuzione del ‘danno biologico' e di un'ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)”.

Va, infatti, “oltre” la sofferenza insita nel danno biologico – e non costituisce, quindi, duplicazione – il fatto di chi patisca una lesione della salute per essere stato sottoposto ad estenuanti terapie e riabilitazioni.

La Suprema Corte, in sostanza, a seguito di una più attenta lettura della definizione di danno biologico, consente risarcimenti che liquidino, in aggiunta, il danno morale, con la possibilità di personalizzare in aumento il quantum dovuto, stabilendo che “nella valutazione del danno alla persona da lesione della salute (art. 32 Cost.), la liquidazione finalisticamente unitaria di quel danno dovrà attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subìto anche sotto l'aspetto della sofferenza interiore”.

Questo ragionamento conferma la legittimità dell'individuazione della duplice dimensione della sofferenza: quella di tipo relazionale, inserita nella previsione legislativa, e quella di natura interiore, non codificata, lasciando libero il giudice di quantificare “se e quanto sia dovuto” con un'ulteriore equa valutazione. Pertanto, se le Tabelle del danno biologico prevedono un indice standard di liquidazione, l'eventuale aumento percentuale sarà funzione della specificità del caso concreto, in base al pregiudizio effettivamente arrecato alla vita di relazione del soggetto.

Del resto, va tenuto presente che sia le Tabelle normative che la Tabella milanese (anche del 2014) prevedono criteri di personalizzazione: ai sensi del comma 3 dell'art. 138 novellato «Qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l'ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale di cui al comma 2, può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30 per cento»; ai sensi del comma 3 dell'art. 139 novellato «Qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati ovvero causi o abbia causato una sofferenza psico-fisica di particolare intensità, l'ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella di cui al comma 4, può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 20 per cento»; nei “Criteri orientativi” della Tabella milanese si afferma che la personalizzazione del danno potrà essere effettuata: «laddove il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato, in particolare: sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali; sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva (ad es. dolore al trigemino; specifica penosità delle modalità del fatto lesivo)». Nel punto 7) della c.d. “ordinanza decalogo” (Cass. civ., ord. n. 7513/2018) si afferma che «in presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento». Conseguentemente, la parte dovrà allegare compiutamente una circostanza personalizzante, affatto peculiare, pregiudicata dalla menomazione.

La personalizzazione in esame deve avvenire in maniera unitaria, tenendo congiuntamente conto sia dell'aspetto dinamico-relazionale sia della correlata maggiore sofferenza soggettiva interiore; e l'aliquota di aumento prevista nell'ultima colonna della Tabella milanese va applicata all'intero danno non patrimoniale già accertato dal giudice: questa soluzione appare in armonia con le modalità di liquidazione disciplinate dagli artt. 138 e 139 cod. ass. (cfr. Focus di Damiano Spera del 9 luglio 2019, “Le novità normative e la recente giurisprudenza suggeriscono un ritocco della Tabella milanese del danno non patrimoniale da lesione del bene salute?, in questa Rivista).

E dunque, quanto espresso dalla Cassazione in commento, in realtà è già previsto dalle Tabelle milanesi. I giudici, quando liquidano il danno non patrimoniale, già considerano l'incremento relativo alla sofferenza morale.

Bisogna, però, intendersi: non basta lamentare una generica sofferenza fisica, la quale non può che accompagnarsi al danno biologico patito (Cass. civ., 27 marzo 2018, n. 7513; Cass. civ., 7 novembre 2014, n. 23778; Cass., 23 settembre 2013, n. 21716; Cass. civ., 16 maggio 2013, n. 11950); ciò che può essere considerato “altro e diverso” aspetto del danno, risulta infatti la sofferenza interiore (c.d. danno morale), che dipende, ad esempio, dalla percezione della lesione da parte del danneggiato nella relazione intimistica con sè stesso (Cass. civ., 22 gennaio 2015, n. 1126).

Ricorrendo tali ipotesi, la posta risarcitoria oggetto di richiesta si colloca inevitabilmente al di fuori del danno biologico: quindi, dovrà ad esso sommarsi senza la preoccupazione di dar luogo ad una inammissibile duplicazione.

Al fine di bandire ogni automatismo, occorre però che la vittima alleghi situazioni circostanziate, non bastando enunciazioni generiche, astratte o ipotetiche, e che dimostri - avvalendosi di ogni mezzo di prova (fatto notorio, massime d'esperienza, inferenza) - la ricorrenza di conseguenze peculiari che, nel caso concreto, abbiano reso il pregiudizio sofferto diverso e maggiore rispetto ai casi consimili (Cass. civ., 27 marzo 2018, n. 7513; Cass., 18 novembre 2014, n. 24471).

Applicando tali principi alla vicenda in oggetto, la Suprema Corte ha ritenuto che la ricorrente abbia correttamente prospettato l'erronea pretermissione dei profili pregiudizievoli ulteriori e diversi da quelli inseriti nella liquidazione del danno biologico: ciò, attraverso la deduzione di una serie articolata di fatti e di circostanze (ricovero in terapia intensiva, trasferimento d'urgenza in elisoccorso in altro ospedale, plurimi ricoveri successivi al primo intervento, necessità di continui monitoraggi delle proprie condizioni di salute), che avrebbero dovuto, quantomeno, far presumere che, pur a fronte di un danno biologico di entità contenuta, la sofferenza e l'angoscia patite esorbitassero i limiti della sofferenza insita nel danno biologico.

In conclusione, è d'obbligo rilevare che quanto previsto dalla Suprema Corte è stato oggetto di ampia discussione ed approfondimento, già da tempo, presso il “Gruppo danno alla persona” dell'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano e che nel Focus pubblicato 20 novembre 2019 a cura del Dr. Spera e pubblicato su questa rivista, si è dato ampiamente atto che rientrano nel danno non patrimoniale - e devono essere oggetto di separata valutazione e liquidazione - i pregiudizi rappresentati dalla sofferenza interiore che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente. Nel succitato “Focus” del 20 novembre 2019, peraltro, si dà atto che il 6-7 aprile 2018, un gruppo di Esperti Specialisti Medico Legali Nazionali, componenti della Società Italiana di Medicina Legale (SIMLA), ha approvato il documento denominato “Valutazione medico legale della sofferenza psico-fisica – proposta di statement”, nel quale viene formulata la distinzione tra la “sofferenza pura”, conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente garantito diverso dal bene salute e che, in quanto tale, non è di pertinenza valutativa medico-legale (come, ad esempio, in ipotesi di danno da perdita rapporto parentale) e la “sofferenza menomazione-correlata”, conseguente, invece, al danno biologico temporaneo e permanente.

Ciò posto, il Gruppo 9 danno alla persona dell'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano ha approvato una bozza di nuovo quesito, in cui il medico - legale dovrà indicare nella relazione con riferimento al danno biologico temporaneo e permanente:

“1. se il soggetto sia stato o meno in grado di percepire gli effetti della malattia sul “fare quotidiano”;

2. quali attività della vita quotidiana siano state precluse o limitate;

3. quale sia il grado di sofferenza fisica, costituito dall'eventuale dolore nocicettivo, specificandone la terapia antidolorifica;

4. quale sia stato il trattamento terapeutico, specificando il tipo e l'entità delle medicazioni e degli

interventi chirurgici necessari e le relative modalità (ad es.: se in anestesia generale o locale);

5. la necessità di terapie continuative o di presidi protesici e/o dell'ausilio di terzi;

6. alla luce dei predetti accertamenti, ove sia stato richiesto il risarcimento del danno da sofferenza interiore, il CTU dovrà indicare in quale dei seguenti parametri possa essere valutata la c.d. “sofferenza menomazione-correlata” al danno biologico temporaneo e permanente: assente, lieve, media, elevata, elevatissima.”

In tutte le ipotesi di micropermanenti (invalidità dall'1% al 9%) il CTU sarà tenuto a fare sempre applicazione della “Tabella delle menomazioni” (richiamata dall'art. 139 Codice delle Assicurazioni private); in tutte le altre ipotesi (invalidità dal 10% al 100%) il CTU indicherà i criteri di determinazione del danno biologico e la tabella di valutazione medico legale di riferimento (barème).

Occorre, infatti, che sia evitata l'ipotesi che il CTU apoditticamente precisi il grado di sofferenza soggettiva, senza fornire alcuna motivazione; il giudice, infatti, solo sulla base delle motivate valutazioni tecniche del CTU medico legale e, tenuto conto dei documenti prodotti e dell'eventuale espletata istruttoria orale, potrà trarre - in questo modo davvero senza automatismi - la conseguente liquidazione di questa componente del danno non patrimoniale, tenendo conto dei valori monetari espressi nella Tabella milanese.

Ciò in conformità anche alle determinazioni del Supremo Collegio che, a ben vedere, sono da tempo presenti nell'orizzonte concettuale delle Tabelle Milanesi.

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