Pedone disattento: le conseguenze della caduta in una buca visibile ed evitabile sul marciapiede sono solo a lui imputabili
16 Ottobre 2020
Massima
Il pedone deve alla sua completa disattenzione o negligenza la ragione della caduta se la buca su marciapiede non rappresentava una insidia e poteva essere evitata senza alcuna difficoltà.
Il caso
Tizia, mentre in ore diurne percorreva a piedi la pubblica via, si era imbattuta in una buca sul marciapiede a causa della quale era caduta, procurandosi lesioni alla spalla con esiti permanenti. Evocato in giudizio il Comune – quale proprietario della strada – per sentirlo condannare al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 2051 c.c., il Tribunale aveva accolto la domanda. La sentenza, impugnata dall'amministrazione comunale, è stata integralmente riformata in appello. La questione
L'amministrazione comunale è responsabile dei danni che si sia procurato un pedone cadendo a causa di una buca presente sul marciapiede se era ben visibile il grado di incuria in cui versava il marciapiede e se le dimensioni dell'ostacolo erano tali da essere apprezzabili “ad occhio”? Le soluzioni giuridiche
Il Tribunale aveva affermato la responsabilità del Comune ex art. 2051 c.c. perchè, essendo stata accertata la anomalia ed il nesso di causalità tra la detta anomalia e la rovinosa caduta, non erano emersi elementi da cui poter desumere un concorso di colpa della medesima danneggiata ai sensi dell'art. 1227 c.c. In particolare, per il Giudice di prime cure era irrilevante che, date le dimensioni della buca e la lentezza dell'incedere dovuto alla non più giovane età dell'attrice, quest'ultima avrebbe dovuto percepire la presenza dell'ostacolo: anzi, proprio perché si trattava di soggetto anziano, era molto plausibile che l'attrice fosse inciampata a causa delle sue difficoltà deambulatorie e della assenza di segnali di pericolo; conseguentemente, del danno non poteva non rispondere il Comune, non essendo sufficiente - al fine di elidere il nesso causale – che il sinistro fosse avvenuto in ore diurne e con buone condizioni di visibilità. La Corte d'appello giunge a conclusioni diametralmente opposte muovendo da una analitica descrizione della buca. Si legge nella sentenza in commento che la buca “è rappresentata da uno squarcio ad andamento curvilineo di modesto spessore (un paio di centimetri ad occhio), contenente brecciolino di colore più chiaro rispetto al marciapiede asfaltato, che si diparte dal cordolo verso la strada (a sinistra) per tre quarti della larghezza del marciapiede. Nel restante quarto, poco oltre il margine della buca e sino al muro di cinta sulla destra, corre alla base di quest'ultimo per lungo tratto (da ben prima dell'altezza della buca e proseguente anche dopo di essa) altro squarcio a fascia sempre di spessore modesto composto da brecciolino. Il tratto precedente la buca è caratterizzato, oltre che per la fascia di brecciolino sulla sinistra, anche da irregolarità a graffiatura dell'intera sede residua del marciapiede. Lo stato di incuria è generalizzato, anche nel tratto dopo la buca. La buca si presenta variabile in lunghezza (ossia nella direzione di marcia), ma apprezzabile ad occhio tra un massimo di circa 25 centimetri ed un minimo di circa 15”. Dalla istruttoria era anche emerso che la giornata era “luminosa” e che nessuna difficoltà di deambulazione era stata allegata dall'attrice. Tale ultima circostanza, dunque, era stata valorizzata in maniera del tutto ultronea dal Giudice di prime cure, mentre era evidente un generalizzato stato di incuria del marciapiede rispetto al quale un cartello di segnalazione “non avrebbe sortito nulla in più per richiamare l'attenzione del pedone di quanto già evidenziato dallo stato dei luoghi”, tanto più che la buca, per le caratteristiche di ampiezza in larghezza e per la difformità di composizione e colore della superficie, era ben visibile a distanza. Se a ciò si aggiunga che la danneggiata avrebbe potuto agevolmente aggirare l'ostacolo e comunque – avuta percezione dell'anomalia – avrebbe potuto reggersi alla figlia, in compagnia della quale era, l'evento sarebbe stato evitabile. Da queste premesse in fatto, la Corte ha concluso che “il pedone deve alla sua completa disattenzione/negligenza la ragione della caduta, perché l'ostacolo non rappresentava insidia perché in zona libera e tale da colpire immediatamente l'attenzione, né presentava alcuna difficoltà di evitamento”; in ogni caso, ha aggiunto il giudice d'appello, “anche il minimo accorgimento di reggersi al braccio della figlia, anche senza aggirare l'ostacolo, avrebbe ragionevolmente evitato l'accaduto”. Quindi, richiamando quell'orientamento della Suprema Corte che stigmatizza, quando la condotta del danneggiato interagisce con la cosa, il dovere di ragionevole cautela richiesto a tutti i consociati in nome del principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost., tanto più quando la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata, la Corte territoriale ha rigettato la domanda risarcitoria perché l'evento è stato causato dal caso fortuito, consistente nella fatto della stessa danneggiata. Osservazioni
Quanto sia problematica l'interpretazione e l'applicazione dell'art. 2051 c.c. è testimoniato dalla quantità di decisioni che si possono leggere scorrendo il massimario di giurisprudenza. E non agevola il compito dell'interprete la difficoltà di sistematizzare i principi che i giudici di merito e la stessa Cassazione hanno nel tempo elaborato nel tentativo di inquadrare la responsabilità da cosa in custodia. Già la natura della responsabilità, oggettiva secondo l'orientamento prevalente, non è così certa se ci si sofferma sulla definizione di caso fortuito, inteso come evento eccezionale, imprevedibile ed inevitabile, la quale implica – nel momento in cui il custode debba dare la prova del fatto esterno che ha eliso il nesso di causalità – una indagine sul piano soggettivo perché “il parametro rispetto al quale misurare la prevedibilità ed evitabilità dell'evento sarebbe costituito dalla diligenza nella custodia, ossia da un giudizio sulla condotta del custode che, però, dovrebbe essere del tutto irrilevante quando è dedotta la responsabilità da cose in custodia” (Sileci G., L'agilità del gatto e la dubbia natura oggettiva della responsabilità da cose in custodia”, in Ridare 14 maggio 2020). Circa la natura della responsabilità ex art. 2051 c.c., merita di essere richiamato un recente arresto della Suprema Corte che sembra mettere in discussione l'opinione prevalente perché la definisce “un'ipotesi di responsabilità c.d aggravata, in quanto caratterizzata da un criterio di inversione dell'onere della prova, imponendo al custode, presunto responsabile, di dare eventualmente la prova liberatoria del fortuito” (Cass. civ., Sez. III, 10 giugno 2020 n. 11096). Ed è abbastanza esplicativo del senso che la Corte abbia voluto dare all'aggettivo “presunto” (che sembra confliggere con la accezione oggettiva della responsabilità) quando essa si sofferma sul caso fortuito e su cosa debba consistere l'onere probatorio che incombe sul custode: “il custode è cioè tenuto, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce cui fanno riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza (in base ai quali è tenuto ad adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto) nonché in ossequio al principio di c.d. vicinanza alla prova, a dimostrare che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso” (Cass. civ., Sez. III, 10 giugno 2020 n. 11096). Ma per la Cassazione la responsabilità ex art. 2051 c.c. è presunta, con un'accezione che sembra allontanarla da quella oggettiva, perché non discenderebbe dalla mera relazione di fatto che esiste tra il custode e la cosa, bensì dalla presunzione della inosservanza degli obblighi di vigilanza che può essere superata dalla prova contraria; quest'ultima consisterà non soltanto nella dimostrazione che l'evento di danno è stato provocato da un fatto (naturale o umano) del tutto estraneo al potere di controllo, ma anche che questo fatto era inevitabile ed imprevedibile, e cioè che l'evento si sarebbe comunque avverato nonostante la prova da parte del custode “di avere espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, vigilanza e manutenzione su di esso gravanti in base a specifiche disposizioni normative e già del principio generale del neminem laedere” (Cass. civ., Sez. III, 10 giugno 2020 n. 11096). Ragioni di completezza impongono di dare conto delle implicazioni che discendono dalla adesione alla tesi della responsabilità c.d. aggravata. La Corte di Cassazione, dopo avere chiarito in cosa debba consistere l'onere probatorio a carico del custode, ha aggiunto che questi può anche provare il concorso di colpa del danneggiato, ai sensi dell'art. 1227 comma 1 c.c., precisando – però – che occorre distinguere tra le situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada e quelle provocate da una repentina ed imprevedibile alterazione dello stato della cosa e che solo in quest'ultimo caso si può configurare il caso fortuito. Tuttavia, appena qualche mese prima dell'arresto sopra richiamato la Suprema Corte, nello sforzo di mettere ordine ai principi da essa affermati in materia di responsabilità da cose in custodia, li aveva così sintetizzati: a) "l'art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l'evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima"; b) "la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell'art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l'evento dannoso"; c) "il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall'accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere"; d) "il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall'esclusiva efficienza causale nella produzione dell'evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione - anche ufficiosa - dell'art. 1227 c.c., comma 1; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost.. Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale" (Cass. civ., Sez. III, 17 gennaio 2020 n. 858). Dunque sia il fatto naturale che quello del terzo e dello stesso danneggiato possono costituire caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso di causalità se possiedono i requisiti della imprevedibilità ed inevitabilità secondo il criterio probabilistico della regolarità causale. La teoria della regolarità causale, applicabile anche alle ipotesi di responsabilità senza colpa di natura extracontrattuale, predica che “ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito” ed il giudizio di adeguatezza richiede una valutazione della prevedibilità obiettiva da compiersi ex ante ed in astratto alla luce non delle conoscenze dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento: ciò che rileverebbe, quindi, sarebbe la prevedibilità dell'evento non da parte dell'agente, “ma (per così dire) da parte delle regole statistiche o scientifiche, dalla quale prevedibilità discenda da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento” (Cass. civ., SS. UU., 11 gennaio 2008 n. 576). Sempre le Sezioni Unite hanno chiarito quali siano i criteri di imputazione nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, nelle quali i criteri soggettivi di imputazione sono sostituiti con altri di natura oggettiva nel senso che “il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura” (Cass. civ., SS. UU., 11 gennaio 2008 n. 576). Ed anche in questi casi la regola da applicare per stabilire il nesso di causalità sarà quello della regolarità causale, con la particolarità che il detto nesso “andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l'elemento individuato dal criterio (ndr normativo) di imputazione e l'evento dannoso” (Cass. civ., SS. UU., 11 gennaio 2008 n. 576). Ferme le perplessità circa il rischio che l'indagine sulla natura fortuita di un fatto idoneo ad interrompere il nesso di causalità – a dispetto della predicata obiettività ed astrattezza – possa implicare valutazioni che attengono alla condotta del soggetto cui saranno imputate le conseguenze dannose (delle quali – peraltro – danno rapidamente conto le stesse Sezioni Unite citando quella dottrina che ha sottolineato come il giudizio di causalità adeguata, ove compiuto con valutazioni ex ante, coinciderebbe con un giudizio di accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo), a me pare che da questi principi si discostino quelli affermati dalla Cassazione quando ha definito la responsabilità da cose in custodia come “responsabilità c.d. aggravata” ed ha addossato sul custode l'onere di provare – per vincere la presunzione di cui all'art. 2051 c.c. – di avere esercitato con adeguata diligenza il potere di controllo e di vigilanza sulla cosa imposti da specifiche disposizioni normative e dal generale principio del neminem laedere e di non essere stato in grado, nonostante tutto, di evitare l'evento a cagione della sua inevitabilità ed imprevedibilità. Peraltro, la scelta dell'una impostazione piuttosto che dell'altra non è priva di conseguenze e la fattispecie decisa dalla Corte di appello di Firenze offre l'occasione per dimostrarlo. Invero, se innanzitutto il custode deve provare di avere esercitato con la diligenza richiesta il potere di controllo e di vigilanza sulla cosa (e dunque – se si tratta di una strada pubblica – di avere provveduto alla costante e regolare manutenzione e di avere vigilato al fine di rimuovere le eventuali situazioni di pericolo che possano manifestarsi), la inosservanza di questo dovere sarebbe di per sé ostativo al superamento della sua presunzione di colpa, nel senso che non si potrebbe neppure indagare l'ulteriore presupposto che elide il nesso causale tra evento e danno, e cioè che questo si sia “verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso”. Applicando questo principio, la Corte d'appello di Firenze avrebbe dovuto confermare la sentenza impugnata perché il Comune non aveva neppure allegato di avere effettuato la manutenzione del marciapiede ed era anzi emerso lo stato di assoluta incuria in cui questo versava. E poiché lo stato di conservazione del marciapiede era pessimo, la Corte territoriale – aderendo alla tesi della responsabilità c.d. aggravata – non avrebbe dovuto neppure verificare se la eventuale colpevole disattenzione del danneggiato rilevasse alla stregua del caso fortuito perché lo stato dei luoghi escludeva che la buca fosse stata determinata da una repentina ed imprevedibile alterazione dello stato della cosa. Dunque, il fatto del medesimo danneggiato sarebbe stato del tutto ininfluente perché a monte neutralizzato dalla presunzione (non superata) di responsabilità del Comune. La Corte territoriale, invece, è pervenuta ad una diversa conclusione proprio perché, aderendo alla tesi della responsabilità oggettiva, ha del tutto trascurato l'aspetto soggettivo della condotta del custode ed ha unicamente verificato se il caso fortuito fosse integrato esclusivamente dal comportamento del medesimo danneggiato, affermandone la sussistenza e la sua attitudine ad elidere il nesso causale. Ed in tal senso ha “implicitamente” ritenuto – secondo le regole della causalità adeguata – che la disattenzione del pedone, pur essendo astrattamente prevedibile, fosse “da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale” (per usare le stesse parole di Cass. civ., Sez. III, 17 gennaio 2020 n. 858) che dovrebbe identificarsi con “il generale dovere di ragionevole cautela” richiesto a tutti i consociati. In altri termini, pur essendo prevedibile che lo stato dissestato del marciapiede potesse provocare la caduta di un pedone, tanto non sarebbe sufficiente per imputare al custode il danno perché si è inserito nel nesso causale – elidendolo – il fatto del medesimo danneggiato sul cui livello medio di attenzione era lecito confidare. In conclusione, a me pare che la sentenza in esame abbia correttamente applicato l'art. 2051 c.c., interpretandolo alla luce dei principi enunciati dalla prevalente giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità da cose in custodia, ma è prevedibile – più in generale – che la tesi della responsabilità c.d. aggravata, recentemente affermata dalla Cassazione, possa introdurre nuovi elementi di incertezza circa la esatta individuazione dei criteri di imputazione della responsabilità quando viene in evidenza la fattispecie contemplata dalla norma suddetta. |