Indebita compensazione: la Cassazione interviene sul valore probatorio delle risultanze del c.d. cassetto fiscale
28 Dicembre 2020
Massima
Il reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 si consuma nel momento della presentazione dell'ultimo modello F24 relativo all'anno interessato, in cui si perfeziona la condotta decettiva del contribuente e si realizza il mancato versamento, per effetto della compensazione dei debiti verso l'Erario con crediti inesistenti o non spettanti; con la conseguenza che l'eventuale mancato computo della compensazione da parte dello Stato, ed il conseguente non aggiornamento del c.d. cassetto fiscale non rilevano, in quanto tali operazioni sono successive alla presentazione del modello, unico fatto direttamente incidente sulla consistenza del rapporto obbligatorio tra Amministrazione e contribuente, e sono relative soltanto alla sua ricognizione, senza alcun effetto costitutivo o modificativo. Il caso
La vicenda oggetto della presente trattazione trae origine dalla ordinanza emessa in data 21.11.2019 dal Tribunale del riesame di Caltanissetta che confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP di Gela in data 10 ottobre 2019, nei confronti della società MA.DE. Costruzioni s.r.l, in persona del legale rappresentante M., in relazione al reato di indebita compensazione ex art. 10-quater, d.lgs. n. 74/2000. Segnatamente, la contestazione provvisoria mossa all'indagato- ricorrente in concorso con altri soggetti era, secondo la pubblica accusa, quella di aver portato indebitamente in compensazione nei modelli F24, un falso credito di imposta, per un importo pari a 349.000 euro, generato e riferito ad investimenti in aree svantaggiate e in particolare, al tributo con codice 6742, così consentendo il pagamento di debiti erariali, previdenziali ed assistenziali. Il pubblico ministero, pertanto, ritenendo tale compensazione priva di fondamento, non risultando mai effettuato alcun investimento da parte della società de qua in alcuna area svantaggiata, ha proceduto al sequestro “per equivalente” dei beni della società beneficiaria della compensazione, in vista della futura confisca. Avverso il provvedimento cautelare proponeva, dunque, ricorso per cassazione il difensore di M. deducendo, tra i diversi motivi, uno di particolare rilevanza giuridica: nel cassetto fiscale della società, che avrebbe beneficiato dei suddetti crediti fiscali, non risultava essere registrata l'incriminata compensazione e il saldo complessivo indicava un debito fiscale – in capo alla predetta – di euro 306.278,74. Circostanza, questa, che secondo la tesi difensiva farebbe cadere l'accusa non solo nei confronti della società, ma anche del ricorrente, non essendovi stato profitto o vantaggio economico per nessuno, tantomeno sotto l'ipotizzata sussistenza del risparmio di imposta. In tal modo, dunque, verrebbe a mancare la prova dell'elemento costitutivo del reato contestato nonché presupposto per l'esecuzione del sequestro per equivalente finalizzato alla confisca. La questione
Con la sentenza in oggetto la Corte di Cassazione affronta, per la prima volta, il rilievo penale, rectius il valore probatorio, delle risultanze del c.d. cassetto fiscale e individua il momento in cui il reato di indebita compensazione possa ritenersi consumato. Le soluzioni giuridiche
Al riguardo occorre premettere che il “cassetto fiscale” è un servizio telematico, messo a disposizione di tutti i contribuenti cittadini italiani, residenti e non, che possono essere considerati a tutti gli effetti contribuenti dello Stato. La richiesta per poter aprire, accedere e gestire il cassetto fiscale deve essere presentata, dal diretto interessato (o da un suo intermediario e in tal caso parleremo di cassetto fiscale con modello di delega) all'Agenzia delle Entrate la quale rilascia un codice pin strettamente personale. Esso costituisce una sorta di archivio digitale, messo a disposizione dall'Agenzia delle Entrate, avente lo scopo di permettere al contribuente la consultazione online di tutte le proprie informazioni fiscali e dati anagrafici (le dichiarazioni fiscali, i rimborsi, i versamenti effettuati tramite il modello F23 e F24, gli atti di registro, i dati e informazioni relativi agli studi di settore e agli indicatori sintetici di affidabilità e le informazioni sul proprio stato di iscrizione al Vies). La funzione è, pertanto, abbastanza chiara poiché offre ai contribuenti un valido strumento di controllo dei propri dati anagrafici e fiscali e svolge, anche, una funzione di verifica in caso di contestazione della posizione fiscale da parte dell'Amministrazione. Ciò significa, che in caso di accertamento finanziario il contribuente può trovare nel suo cassetto fiscale tutto quanto gli possa essere utile per giustificare la sua posizione ed, eventualmente, sanarla. Il cassetto fiscale, dunque, prodotto e formato dall'Agenzia delle Entrate è soltanto da quest'ultima modificabile in quanto il contribuente può solamente consultarlo. Muovendo da tale rilievo, secondo la tesi difensiva, il reato non sarebbe stato commesso poiché la compensazione non risultava all'amministrazione e dal cassetto fiscale emergeva solo l'esistenza di un debito fiscale. Tuttavia, la Corte non ha avvalorato l'assunto difensivo alla luce di alcune argomentazioni da un lato di carattere processuale, dall'altro lato di carattere probatorio. Per quanto concerne il profilo processuale i Supremi Giudici hanno osservato come la questione del valore giuridico del cassetto fiscale e dell'inesistenza della contestata compensazione costituiscono un “novum” in quanto dedotti, per la prima volta, innanzi al giudice di legittimità. Richiamando il principio di diritto sancito da Cass. pen., Sez. VI, n. 44146/2014 la Corte ha affermato che “in tema di misure cautelari, la possibilità di prospettare in sede di legittimità motivi di censura non sollevati innanzi al tribunale del riesame è preclusa ove essi non siano rilevabili d'ufficio”. Per quanto concerne, invece, gli aspetti probatori il Collegio ha avvalorato il ragionamento del Tribunale del riesame, il quale ha ritenuto sussistente il fumus delicti previsto dall'art. 10-quater,d.lgs. n. 74/2000, non sussistendo, da un lato, dubbio alcuno sull'inesistenza del credito portato in compensazione e, d'altro lato, non essendo ravvisabili - allo stato - elementi idonei a far ritenere ictu oculi mancante il dolo del soggetto agente, anche nella forma di dolo eventuale. Nello specifico, l'attività di indagine svolta aveva consentito di accertare che la MA.DE. Costruzioni Generali s.r.l. aveva compensato i debiti erariali, previdenziali ed assistenziali, mediante presentazione di deleghe di pagamento mod.F24, con inesistenti crediti di imposta per investimenti in aree svantaggiate, pari ad euro 349.110,65.
A ciò, poi, si aggiungevano ulteriori elementi di riscontro, quali: a) il fatto che la società non avesse effettuato la preventiva comunicazione al centro operativo di Pescara; b) il fatto che nella relativa dichiarazione dei redditi, riquadro RU, non risultasse riportato l'importo del credito disponibile da portare in compensazione; c) il fatto che la società non risultava in possesso di alcun atto registrato attestante l'acquisto di crediti derivanti da investimenti in aree nazionali svantaggiate; d) l'acquisizione di una e-mail avente una particolare valenza probatoria sotto il profilo accusatorio.
A fronte di tali elementi probatori, la Sezione III, richiamandosi ad altre pronunce di legittimità, ha confermato la sussistenza del reato affermando che il l'ipotesi delittuosa contemplata dall'art. 10-quater del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 si consuma con la presentazione dell'ultimo modello F24 relativo all'anno interessato, in quanto con l'utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per l'effetto dell'indebita compensazione di crediti in realtà non esistenti o non spettanti in base alla normativa fiscale (Cass. pen., Sez. III, 11 ottobre 2018, n.4958). La Corte aggiunge, inoltre, che, in presenza, della prova di tale circostanza, le risultanze del cassetto fiscale non possono, di per sé, costituire un'evidenza opposta, così come già ritenuto dalla giurisprudenza tributaria in sede civile (Cass. civ., Sez. Trib., 5 ottobre 2018, n. 24435). Pertanto, l'eventuale mancato computo della compensazione da parte dello Stato e il conseguente non aggiornamento del c.d. cassetto fiscale, che ha una mera funzione ricognitiva (privo di effetti costitutivi o modificativi), non rilevano, in quanto tali operazioni sono successive alla commissione del reato, rectius alla presentazione del modello F24 che costituisce l'unico fatto direttamente incidente sul dante causa del rapporto obbligatorio tra Amministrazione e contribuente. Osservazioni
Nel dichiarare l'inammissibilità del ricorso, il Collegio fornisce, con la sentenza in commento, un principio di diritto, senza dubbio, innovativo ed importante inerente al valore probatorio delle risultanze del cassetto fiscale che, di sicuro, ha e (avrà) un significativo impatto sulle modalità di accertamento dei reati tributari in generale e in particolare del delitto di indebita compensazione ex art. 10-quater del D.lgs. 74/2000.
Preme ricordare che la norma de qua è stata introdotta, all'interno del D.Lgs. n. 74/2000, dal comma 7, dell'art. 35 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani), convertito con modificazioni dalla l. 4 agosto 2006 n. 248, attraverso la tecnica del rinvio al precedente art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000. La disposizione è stata oggetto di un'incisiva modifica legislativa ad opera del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 il quale ha modificato la sanzione prevista per il reato in base alla tipologia dei crediti “indebitamente” portati in compensazione. Se, infatti, precedentemente alla riforma del 2015 la norma in esame prevedeva una soglia di punibilità pari a 50.000 euro ed un sistema sanzionatorio analogo (reclusione dai sei mesi ai due anni) sia se l'indebita compensazione riguardava crediti non spettanti, sia se riguardava crediti inesistenti, con la novella del 2015 il reato di indebita compensazione mantiene invariata la soglia di punibilità (pari ad euro 50.000) mentre, viene diversificato il trattamento sanzionatorio a seconda che la compensazione indebita riguardi crediti non spettanti (nel qual caso la pena è rimasta quella della reclusione da sei mesi ai due anni) oppure crediti inesistenti (nel qual caso la pena è quella della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni). Ne discende che la novella legislativa del 2015, se, da un lato, ha reso la formulazione della fattispecie di reato contestata del tutto autonoma rispetto alla diversa fattispecie di reato di cui all'art. 10-bis, d.lgs. n. 74/2000, dall'altro lato, ha consentito, in conformità da quanto preteso dai Giudici delle leggi di adeguare la stessa al principio costituzionale che impone di graduare la reazione punitiva dello Stato parametrandola al grado di offensività della condotta e alle caratteristiche decettive possedute dalla medesima (Corte Cost., 8 aprile 2014, n. 80). Dalla riforma dell'art. 10-quater richiamato è, dunque, scaturita la configurazione di due reati autonomi contenenti elementi strutturali tra loro incompatibili, da cui ne consegue un diversificato trattamento sanzionatorio a riprova della diversa portata lesiva del bene giuridico tutelato a seconda che la condotta posta in essere consista nel portare indebitamente in compensazione crediti non spettanti o crediti inesistenti. Occorre ricordare che ai fini della distinzione tra crediti “non spettanti” e crediti “non esistenti” rileva, con riferimento ai crediti “non esistenti” la definizione fornita dall'art. 13, comma 5 del d.lgs. 471/1997, come modificato dal d.lgs. n. 158/2015, in base al quale si intende “inesistente” il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e all'art.54-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
Mentre, con riferimento ai crediti “non spettanti”, rileva la definizione fornita in maniera costante dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui sono “non spettanti” quei crediti, che pur certi nella loro esistenza ed ammontare siano, per qualsiasi ragione normativa, “non legittimamente compensabili” ossia non ancora utilizzabili (ovvero non più utilizzabili) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l'erario (Cass. pen., Sez. III, 7 luglio 2015, n. 36393; Cass. pen., Sez. III,6 giugno 2014, n.3367).
Il reato di cui all'art. 10-quater del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 può dirsi, dunque, integrato dalla condotta fraudolenta attiva di porre in compensazione, ex art. 17 d.lgs. 9 luglio 1997 n. 241, partite debitorie in favore del Fisco con crediti non spettanti o inesistenti. Non è dunque sufficiente a integrare il reato un mancato versamento, ma occorre che lo stesso risulti, a monte, formalmente "giustificato" da una operata compensazione (di un importo superiore a 50.000 euro) tra le somme dovute all'Erario e crediti verso il contribuente, in realtà non spettanti o inesistenti. Infatti, è proprio la condotta, necessaria, della compensazione a esprimere la componente decettiva o di frode insita nella fattispecie, che rappresenta il quid pluris che differenzia il reato de quo rispetto alla fattispecie di semplice omesso versamento (Cass. pen., Sez. III, 15 gennaio 2015, n. 15236). In conclusione, la posizione assunta dai giudici di legittimità appare condivisibile. Invero, la statuizione dà continuità ad un orientamento già espresso in precedenti pronunce (Cass. pen., Sez. III, 5 novembre 2019, n. 44737; Cass. pen., Sez. III, 11 ottobre 2018, n.4958) e appare del tutto conforme con la natura “istantanea” del delitto de quo. In altri termini, nella vicenda in esame - seppur la tesi difensiva prospettata appare persuasiva- correttamente la Corte non riconosce valore probatorio alle operazioni inerenti il mancato computo delle compensazioni da parte dello Stato e il non aggiornamento del c.d. cassetto fiscale poiché, le stesse, costituiscono fatti successivi alla commissione del reato, rectius alla presentazione del modello F24, inteso l'unico documento posto a fondamento del mancato versamento del tributo quale mero riflesso negativo del precedente comportamento commissivo del contribuente. D'altra parte, come è noto, il modello F24 costituisce quel documento che il nostro legislatore ha previsto per poter effettuare il pagamento dei tributi ed eseguire le eventuali compensazioni tra debiti e crediti tributari, con la conseguenza che le stesse possono essere, di fatto, realizzate attraverso la presentazione di tale “modello debitamente compilato”, in difetto del quale la compensazione non può dirsi effettuata.
Fonte: IlPenalista |