D.p.c.m. illegittimi: il conduttore non può chiedere la rinegoziazione del contratto a causa delle limitazioni imposte dal governo
13 Gennaio 2021
Massima
In presenza di un'acclarata morosità, nonostante l'emergenza epidemiologica da Covid-19, deve essere ordinato il rilascio dell'immobile in locazione in mancanza di opposizione fondata su prova scritta. Difatti, il danno ricevuto dal conduttore non può qualificarsi come danno da emergenza sanitaria, ma danno da attività provvedimentale, che si reputa illegittima. Danno che, in tal senso, la parte non si è attivata in alcun modo per rimuovere al fine di eliminarne gli effetti dannosi, che dunque avrebbe potuto evitare. Il caso
La locatrice aveva chiesto al giudice adito di convalidare l'intimazione di sfratto per morosità e la contestuale emissione del decreto ingiuntivo per il pagamento di circa 256.000,00 euro. Costituendosi in giudizio, la conduttrice eccepiva che, a causa della grave crisi scaturita dalla pandemia, aveva subìto una contrazione delle vendite rispetto all'anno precedente ed era stata impossibilitata ad onorare l'elevato corrispettivo convenuto. In particolare, nel periodo di marzo-agosto 2020, la società intimata aveva subito una riduzione del fatturato del 72,72%. Per tali ragioni aveva chiesto al giudice la reductio ad equitatem del canone locatizio sul presupposto che in tema di eccessiva onerosità, soltanto la parte favorita dallo sbilanciamento può evitare la risoluzione del negozio, offrendo di modificare equamente le condizioni di esso (art. 1467, comma 3, c.c.), mediante proporzionale reductio ad equitatem del canone palesemente squilibrato rispetto al valore della controprestazione. Inoltre, richiamava anche il principio di buona fede a sostegno della propria pretesa invocando l'art. 2 Cost. e l'art. 1175 c.c.
La questione
La questione in esame è la seguente: il conduttore può chiedere la rinegoziazione del contratto e, di conseguenza, opporsi validamente allo sfratto per morosità, avanzando di non aver potuto pagare a causa delle limitazioni imposte durante il lockdown? Le soluzioni giuridiche
In tal vicenda, parte conduttrice invocava la revisione delle condizioni contrattuali a causa della situazione di emergenza sanitaria riconducibile alla c.d. pandemia da Covid-19, la quale ad avviso dell'istante, avrebbe comportato una alterazione del rapporto contrattuale e la impossibilità di eseguirlo o, comunque, di beneficiare pienamente del godimento del bene. Ebbene, in prima battura, il giudice ha ritenuto questa premessa del tutto inesatta per le ragioni di seguito esposte.
Secondo il giudicante, la limitazione ai diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti che si è verificata nel periodo di emergenza sanitaria è dovuta non alla intrinseca diffusione pandemica di un virus ex se, ma alla adozione “esterna” dei provvedimenti di varia natura (normativi ed amministrativi) i quali, sul presupposto della esistenza di una emergenza sanitaria, hanno compresso o addirittura eliminato alcune tra le libertà fondamentali dell'uomo, così come riconosciute sia dalla Carta Costituzionale che dalle Convenzioni Internazionali. Il ragionamento su cui verte il giudice si basa sul fatto che l'esistenza di una emergenza sanitaria non è di per sé condizione intrinsecamente impediente in termini assoluti, diversamente dal caso di scuola, ad esempio, del crollo dell'immobile a seguito di terremoto o del crollo dell'unica via di accesso all'immobile a seguito di calamità naturale. In altre parole, in via astratta, ogni attività umana avrebbe potuto continuare a svolgersi regolarmente anche in periodo di emergenza sanitaria, con la sola differenza che il soggetto interessato avrebbe corso il rischio di contrarre il virus. Da ciò, secondo il provvedimento in commento, deriva che le dedotte conseguenze per l'istante non erano affatto riconducibili alla emergenza sanitaria in sé intesa, ma al complesso normativo provvedimentale che, su tale presupposto, è intervenuto sui diritti e sulle libertà dei cittadini, ivi compresi quelli dell'interessato istante.
Secondo il magistrato romano, le libertà fondamentali degli individui sono state compresse attraverso un d.P.C.M., un atto di natura amministrativa e non normativa. Dunque, richiamando quando già detto da altro giudice (Giud. Pace Frosinone 29 luglio 2020, n. 516) un d.P.C.M. non può porre limitazioni a libertà costituzionalmente garantite, non avendo valore e forza di legge. A sostegno di ciò, il Tribunale adito evidenzia che, con deliberazione del 31 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri aveva dichiarato lo stato di emergenza nazionale in conseguenza del rischio sanitario derivante da agenti virali trasmissibili. A tal proposito, viene analizzata la citazione normativa utilizzata dal Governo: art. 7, comma 1, lett. c), e art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 1/2018. Ebbene, si legge in sentenza che, “se si esamina la fattispecie richiamata dalla deliberazione sopra citata si potrà notare che non si rinviene alcun riferimento a situazioni di rischio sanitario da, addirittura, agenti virali. Infatti, l'art. 7, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 1/2018 stabilisce che gli eventi emergenziali di protezione civile si distinguono: ... c) emergenze di rilievo nazionale connessi con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo”. Ed ancora “non vi è nella Costituzione italiana alcun riferimento ad ipotesi di dichiarazione dello stato di emergenza per rischio sanitario e come visto neppure nel d.lgs. n. 1/ 2018. In conseguenza, la dichiarazione adottata dal Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020 è illegittima, perché emanata in assenza dei presupposti legislativi, in quanto nessuna fonte costituzionale o avente forza di legge ordinaria attribuisce il potere al Consiglio dei Ministri di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario”. Dunque, secondo il ragionamento esposto, sono illegittimi i d.P.C.M. che hanno imposto la compressione dei diritti fondamentali che oggi viene addotta quale causa eziologica dell'alterato equilibrio del sinallagma contrattuale. Di conseguenza, secondo il giudice romano, da ciò discenderebbe l'importante corollario che l'istante si duole di situazione non invincibile ex se, ma delle conseguenze derivanti da un impianto normativo provvedimentale che è in contrasto con la Carta Costituzionale, e quindi certamente caducabile (con conseguente eliminazione degli effetti negativi posti a base della pretesa stessa).
Secondo una diversa ricostruzione, anche voler aderire alla tesi (opposta) della piena costituzionalità delle limitazioni imposte con d.P.C.M., secondo il giudicante, non potrebbe tuttavia egualmente pervenirsi alla valutazione favorevole in merito alla legittimità dei d.P.C.M. che hanno imposto vincoli ai diritti fondamentali. Per meglio dire, secondo questa valutazione, le concrete limitazioni derivate dalla esecuzione di un provvedimento amministrativo, quale è il d.P.C.M., avrebbero comunque potuto essere facilmente rimosse, trattandosi di provvedimenti amministrativi “ex se illegittimi”; in particolare, sofferenti di un difetto di motivazione. Difatti, nel corpo dei provvedimenti relativi alla emergenza epidemiologica, la motivazione è stata redatta in massima parte con la tecnica della motivazione per relationem, cioè con rinvio ad altri atti amministrativi e, in particolare ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico. A questo proposito, però, i verbali del CTS risultavano classificati come riservati; successivamente, invece, tali verbali del CTS sono stati periodicamente pubblicati sul sito della Protezione Civile, ma con un ritardo tale da non consentire l'attivazione di una tutela giurisdizionale (accesso agli atti), in quanto troppo prossimi alla scadenza della efficacia. In concreto, sostiene il giudicante del foro romano che era necessario spiegare l'iter logico-motivatorio sotteso alla scelta: motivare, ad esempio, perché l'apertura dei bar e dei ristoranti possa avvenire nel rispetto della distanza di almeno un metro (e quella degli altri esercizi commerciali garantendo genericamente l'evitamento di assembramenti, con ciò ritenendo le misure idonee a contenere la diffusione), mentre invece le scuole di ogni ordine e grado debbano restare chiuse per garantire il medesimo risultato. In definitiva, secondo questa costruzione, tale iter motivazionale era del tutto generico e, quindi, insufficiente a rispettare i parametri richiesti per ogni provvedimento amministrativo ai sensi dell'art. 3 della l. n. 241/1990, con conseguente illegittimità del provvedimento stesso.
Stante la (citata) illegittimità del provvedimento che di fatto ha creato le dette limitazioni e compressioni dei diritti fondamentali (conseguenza dell'impianto normativo provvedimentale), e che sono poste alla base della pretesa, secondo il giudicante la parte avrebbe dovuto impugnare tale atto, con ciò eliminando in radice le conseguenze che ne sono derivate. A tal proposito, secondo il giudice,la pretesa invocata con la domanda, dunque, era basata su un presupposto di partenza già di per sé errato, tale da rendere infondata la richiesta: non si trattava di un danno “da emergenza sanitaria”, ma di un danno da attività provvedimentale illegittima, e che la parte non si era attivata in alcun modo per rimuovere e, di conseguenza, eliminarne gli effetti dannosi, che dunque ben avrebbe potuto evitare. In sintesi, secondo il ragionamento in commento, l'assenza di impugnazione ha reso il conduttore causa delle conseguenze negative sulla piena fruibilità del bene immobile, in base alle quali ha vantato una propria pretesa.
Alla luce delle contestazioni di illegittimità dei provvedimenti amministrativi, nonostante la pretesa del conduttore era basata su un presupposto di partenza errato, tale da rendere infondata la richiesta, il giudicante si è, comunque, soffermato su altre questioni. Ad avviso del Tribunale, era del tutto errato anche invocare concetti quali la buona fede nella esecuzione del contratto da parte del locatore (così come formulato dai primi commentatori a seguito della relazione tematica proveniente dal Massimario della Cassazione dell'8 luglio 2020). A tal proposito, il giudice romano ha ritenuto che la conclusione della suddetta relazione tematica in materia di rilevanza della buona fede sia ben diversa da come talvolta è stata intesa anche da parte di altri giudici di merito (Trib. Roma 27 agosto 2020). Per meglio dire: - secondo il ragionamento di quest'ultimo giudice, “la buonafede, infatti, può essere utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l'alea normale del contratto”; - diversamente, secondo l'interpretazione del giudice della pronuncia in commento, la relazione tematica della Cassazione riduce la portata del principio fatto proprio dal suddetto Tribunale capitolino. Difatti, spiega il giudice, “il magistrato non può correggere la volontà delle parti quand'anche le scelte di queste gli appaiano incongrue, limitandosi negli eccezionali casi in cui la legge l'ammetta, a colmare le lacune riscontrate, inserendo regole ulteriori e coerenti con il programma concordato dalle parti. Un intervento sostitutivo del giudice sembrerebbe ammissibile al più ogni volta che dal regolamento negoziale dovessero emergere i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto, fornendo al giudice (anche in chiave ermeneutica) i criteri atti a ristabilire l'equilibrio negoziale… Al di fuori di questo angusto contorno, la determinazione del contenuto del contratto appartiene alla sfera decisionale riservata ai contraenti”.
Secondo l'analisi realizzata dal giudicante, nella fattispecie non sussiste neanche l'ipotesi: - della impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) in quanto l'immobile era stato occupato anche durante l'epidemia, e il pagamento del canone non poteva venir meno se non con l'ipotesi del ritiro dei mezzi pagamento (moneta, moneta elettronica) utilizzabili. In sostanza entrambe le prestazioni hanno continuato ad essere possibili; - della impossibilità parziale sopravvenuta (art. 1464 c.c.) in quanto non si può considerare la vicenda della emergenza sanitaria come una prestazione (locatore) divenuta solo parzialmente impossibile e non può ritenersi violato l'obbligo del locatore di consegnare e mantenere il bene in condizione da essere utilizzato secondo l'uso contrattualmente stabilito ai sensi dell'art. 1575 c.c., non essendo riconducibile alcuna condotta di tale tipo al locatore, ma ad attività provvedimentale. Superata l'emergenza, infatti, l'immobile sarà nuovamente e totalmente utilizzabile e comunque, anche durante l'emergenza, lo stesso è stato occupato per la sua interezza da cose e beni del conduttore e dunque la limitazione non ha in realtà riguardato l'uso dell'immobile in sé; - della impossibilità temporanea (art. 1256 c.c.) in quanto il divieto di esercitare temporaneamente l'attività non determina l'impossibilità per il conduttore di utilizzare l'immobile, che è la prestazione dovuta dalla contro parte (locatore). Inoltre, la mancanza degli incassi dovuta alla chiusura forzata dell'esercizio commerciale non determina l'impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (canone), atteso anche che il periodo interessato non è tale da esulare dal c.d. rischio di impresa; - della eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.) in quanto l'immobile ha conservato il proprio valore locativo nel periodo interessato e, comunque, la onerosità deve attenere ad aspetti obiettivi e non alle condizioni soggettive (perdita di reddito del conduttore).
Sostiene il giudice, che, anche ove si ritenesse che l'equilibrio sinallagmatico fosse stato alterato in modo rilevante a causa della situazione di emergenza epidemiologica da Covid-19, deve comunque osservarsi che lo stesso legislatore ha già adottato meccanismi compensatori idonei a ripristinare un equilibrio sinallagmatico, od a ridurne lo squilibrio, con ciò rendendo ancor più difficile la possibilità di ricorso agli strumenti sopra esaminati. In particolare, tra le misure legislative, il decreto-legge c.d. Cura Italia, ha previsto all'art. 65, del d.l. n. 18/ 2020, in favore del conduttore un credito di imposta pari al 60% dell'ammontare del canone di locazione. Quanto poi all'art. 91, comma 6-bis, d.l. n. 18/2020, tale norma, ad avviso di questo giudicante, non consente una applicazione al caso di specie, se non nei limiti ristretti di un ritardo nei pagamenti. In conclusione, il giudice dispone il mutamento del rito e l'assegnazione dei termini (memorie e procedimento di mediazione). Infine, fissa il rilascio dell'immobile a far data dal 16 marzo 2021. Osservazioni
La querelle in tema locatiziomai finora si era spinta a dubitare della legittimità dei d.P.C.M. e, in questo solco, la pronuncia del Tribunale di Roma in commento appare sicuramente pioniera e rivoluzionaria. Tuttavia, sono necessarie alcune osservazioni sulla questione. Il Tribunale di Roma non ha dichiarato con il provvedimento in commento i d.P.C.M illegittimi, bensì ha ritenuto di non applicarli in quanto ritenuti contrari ai principi costituzionali (quindi non legittimi ai fini della disamina affrontata in materia di mancato pagamento dei canoni). Quello che, invece, risulta dal provvedimento in esame è che le dedotte conseguenze per l'istante (fortissima contrazione degli incassi) non erano affatto riconducibili alla emergenza sanitaria in sé intesa, ma al complesso normativo provvedimentale che, su tale presupposto, è intervenuto sui diritti e sulle libertà dei cittadini, ivi compresi quelli dell'interessato istante. E, quindi, a parere del giudice, non poteva essere accolta la domanda di reductio ad equitatem del canone locatizio e l'intervento del giudice in merito alla buona fede nel contratto. A questo punto, dopo questa doverosa premessa, lo scrivente intende analizzare gli aspetti civilistici della questione: il ragionamento del giudice in merito alla non applicazione degli strumenti codicistici invocati dal locatario. A. La reductio ad equitatem Orbene, in tema di adeguamento del contratto all'equilibrio sostanziale delle parti, giova ricordare che ai sensi dell'art. 1467 c.c., nei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, ma è data alla controparte la facoltà di evitare la risoluzione offrendo di riportare a equità le condizioni del contratto. La regola prosegue nel successivo art. 1468 c.c. con la disposizione, per cui se si tratta di un contratto nel quale una sola delle parti ha assunto obbligazioni, questa può chiedere una riduzione della sua prestazione, ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ridurla ad equità. Le due norme esprimono la misura del giudizio legale riguardo all'interesse dei contraenti alla conservazione del rapporto contrattuale, fino ad imporre l'equo adeguamento dello stesso alle mutate condizioni economiche. Vale evidenziare che il ruolo rivestito da tale facoltà di rinegoziazione è quello di impedire la risoluzione del contratto, laddove questa venga richiesta dalla parte svantaggiata. Secondo quanto riportato nella relazione tematica del Massimario della Corte di Cassazione (n. 56 dell'8 luglio 2020), nell'esempio dell'esercizio commerciale messo in “quarantena” per due mesi, la riduzione del canone locativo sulla scorta dell'art. 1467 c.c. non rappresenterà una soluzione dogmaticamente “immediata”, sol che si consideri che l'alterazione dell'equilibrio complessivo dell'intero contratto, quand'anche stimato tale - non senza sforzi - da giustificare la risoluzione del negozio, non è concepito dall'ordinamento per conseguire riduzioni di canone, pur eque e giuste sul piano del sentire comune. Difatti, in giurisprudenza di legittimità, è stato osservato che nei contratti a prestazioni corrispettive la parte che subisce l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, c.c., purché non abbia già eseguito la propria prestazione, ma non ha diritto di ottenere l'equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l'azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l'eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l'altro contraente accetti l'adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite (Cass. civ., sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2047). Acclarato che l'art. 1467 c.c. è sicuramente un'espressione di inadeguatezza degli strumenti preordinati alla soluzione della problematica delle sopravvenienze, dal momento che riconosce la possibilità di richiedere la revisione del contratto divenuto iniquo solo alla parte che, in teoria, avrebbe meno interesse al riequilibrio, in quanto da esso avvantaggiata, tuttavia, secondo altra chiave di lettura, sempre la norma in parola è dimostrativa di come l'ordinamento privilegi la conservazione del contratto mediante revisione, rispetto alla caducazione del rapporto negoziale. Non è accidentale, infatti, che la richiesta di riconduzione ad equità del contratto abbia l'effetto di vanificare la domanda di risoluzione eventualmente proposta dalla parte onerata da sopravvenienze. Difatti, in virtù del principio esposto, partendo dall'assunto che l'emergenza non si tampona demolendo il contratto, i giudici del Massimario hanno evidenziato che, “più che la liberazione del debitore-imprenditore dall'obbligazione, cruciali appaiono l'attenuazione o il ridimensionamento del contenuto di questa, ove il suo adempimento sia ostacolato o reso sfibrante dalle misure di contenimento su approvvigionamenti, circolazione di merci, organizzazione aziendale, vieppiù ove si consideri che dette misure sono turbinosamente adottate a vari livelli (nazionale, regionale, comunale) nell'ottica di contrastare il dilagare del contagio”. Nonostante alcune criticità (dottrinali e giurisprudenziali) sullo strumento previsto dall'eccessiva onerosità sopravvenuta (per il periodo emergenziale), occorre anche evidenziare che la preferenza accordata alla revisione e, dunque, anche alla rinegoziazione quale rimedio ideale, in grado di realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico si rinviene (anche) in altri istituti: il caso dell'art. 1664, comma 1, c.c., in materia di appalto, che, in caso di variazione del corrispettivo di oltre un decimo a causa di circostanze imprevedibili, ammette la revisione del prezzo originariamente pattuito; è anche il caso dell'art. 1623 c.c. (norma speciale) che, in tema di affitto, riconosce la possibilità per le parti di rivedere il canone quando una disposizione di legge o un provvedimento dell'autorità abbia modificato notevolmente i termini del rapporto. A questo punto, dopo le citate considerazioni, andrà verificato se l'obbligo delle parti di ridiscutere l'esecuzione di un contratto perfetto e valido adeguandolo a un non previsto mutamento della situazione, anche al di fuori delle condizioni dell'art. 1467 c.c., costituisca un dovere imposto dal canone della buona fede e correttezza contrattuale. B. La buona fede come integrazione del contratto Ad avviso del giudicante, era del tutto errato anche invocare concetti quali la buona fede nella esecuzione del contratto da parte del locatore. Ebbene, giova ricordare che il richiamo alla legge contenuto nell'art. 1374 c.c. si estende anche alla buona fede attraverso la previsione di cui all'art. 1375 c.c. (e all'altra norma di cui all'art. 1175 c.c.), con la precisazione che l'interrelazione così stabilita tra le predette norme non implica, però, che l'integrazione del contratto alla stregua della buona fede sia assimilabile all'integrazione mediante puntuali previsioni normative, tenuto conto che la natura di clausola generale della buona fede e il ruolo svolto dal giudice implicano innegabilmentepeculiari modalità di attuazione del precetto, dando luogo ad “un'operazione integrativa giudiziale”, fondata sulla legge e comunque orientata da criteri desumibili dal contesto normativo al quale la clausola inerisce. Nel tempo, dopo divergenza dottrinali e giurisprudenziali, si è diffuso l'indirizzo che riconosce alla buona fede oggettiva il ruolo di fonte di integrazione del contratto che, raccordato direttamente con il principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost., costituisce una clausola generale volta a fissare le regole di condotta cui le parti del contratto devono attenersi. Trattasi, quindi, di clausola generale che, a differenza delle altre fonti di integrazione previste dall'art. 1374 c.c., e uno strumento di portata molto più ampia proprio nella misura in cui il carattere indeterminato del precetto consente al giudice notevoli margini di azione per adeguare le pattuizioni contrattuali in modo da individuare in concreto i comportamenti esigibili in base ai canoni di lealtà e salvaguardia. Quindi, come sostenuto da altri interpreti, l'obbligo di comportarsi secondo buona fede rappresenta la leva che consente al giudice di forzare il “recinto contrattuale”, integrando e financo correggendo le pattuizioni delle parti in contrasto con tale dovere. A questo punto, proprio in questo periodo storico, la forte affermazione che la buona fede, in senso oggettivo, concorre nel caso concreto a creare la regola iuris, e che l'ossequio alla stessa può arrivare financo ad imporre alle parti una rinegoziazione dei termini economici sanciti nel loro accordo, riviene da una storica pronuncia della Corte di legittimità (Cass. civ., sez. I, 20 aprile 1994, n. 3775). In pratica - secondo quanto riportato da altra relazione tematica n. 116 del 10 settembre 2010 del Massimario della Cassazione - la Suprema Corte, smentendo le critiche di parte della dottrina che avevano accusato la giurisprudenza di essere inidonea a sviluppare la figura della buona fede oggettiva e ad individuarne l'ambito di operatività e il sistema di funzionamento, compie il salto di qualità, riconoscendo alla buona fede funzione integrativa e correttiva del regolamento negoziale. Analizzando la questione sottoposta al suo esame, la Suprema Corte ha affermato che “il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l'interpretazione (art. 1366 c.c.) e l'esecuzione (art. 1375 c.c.), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio”. I giudici di legittimità hanno inoltre precisato che “questo è il ruolo della buona fede (in senso oggettivo)” e che essa “quindi, concorre a creare la regola iuris del caso concreto, in forza del valore cogente delle norme citate le assegnano”; trattasi di principio cardine dell'ordinamento, induttivamente estraibile dal sistema, che costituisce proprio regola di governo della discrezionalità e ne vieta, quindi, l'abuso. Da questa breve disamina, emergono chiari segnali sull'equilibrio contrattuale grazie alla buona fede integrativa e, in particolare, del potere del giudice: “l'intervento del giudice nel contratto non sarebbe un semplice potere, bensì un potere-dovere, attribuito al giudice per la realizzazione di un interesse positivo dell'ordinamento” (Cass. civ., sez. II, 24 settembre 1999, n. 10511, in materia riduzione d'ufficio della penale ex art. 1384 c.c. manifestamente eccessiva). Ma, quel che più rileva, ai nostri fini, è proprio il potere d'intervento sul contratto di cui, per il tramite della clausola in parola, sarebbero destinatari i giudici di merito. C. La buona fede e l'intervento dei giudici secondo la relazione tematica del Massimario della Corte di Cassazione (n. 56 dell'8 luglio 2020). Preliminarmente, si osserva che il Massimario pubblica contributi specifici rivolti non solo ai magistrati della Corte; difatti, lo scopo primario è quello di indicare anche ai giudici di merito, agli avvocati e ai giuristi le linee guida della sua funzione nomofilattica. Questo lavoro è, naturalmente, di particolare interesse sia per il notevole contenzioso che già sta insorgendo in seguito alla pandemia e a i suoi riflessi sul mondo dei rapporti giuridici, sia perché non si occupa solo delle novelle legislative ad hoc, ma entra prontamente nel merito delle questioni nuove che dovranno comunque essere dipanate attraverso una applicazione adeguata ai casi concreti in materia di patologia del rapporto contrattuale o della vicenda imprenditoriale. Quindi, sbaglia chi pensa ad una elaborazione essenzialmente compilativa della relazione in esame. Dopo questa breve premessa, con la relazione in esame, i giudici hanno sottolineato che “la risposta all'esigenza manutentiva del contratto e di rinegoziazione necessaria del suo contenuto va ritrovata nell'attuale diritto dei contratti riletto al lume del principio di solidarietà e rivitalizzato in un'ottica costituzionalmente orientata attraverso la clausola di buona fede, che di quel principio è il portato codicistico”. Quindi, “la clausola generale di buona fede diviene, in questa prospettiva, garanzia di un comportamento corretto nella fase di attuazione delle previsioni contrattuali”. Ed ancora, “la rinegoziazione a fronte di sopravvenienze che alterano il rapporto di scambio, diventa, pertanto, un passaggio obbligato, che serve a conservare il piano di costi e ricavi originariamente pattuito, con la conseguenza che chi si sottrae all'obbligo di ripristinarlo commette una grave violazione del regolamento contrattuale”. Attenzione, aggiunge la relazione: “qualora si ravvisi in capo alle parti l'obbligo di rinegoziare il rapporto squilibrato, si potrebbe ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il ristoro del danno, ma si esponga all'esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.”. Di conseguenza, “al giudice potrebbe essere ascritto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario”. Quindi, secondo il precetto in esame, la rinegoziazione implica l'obbligo di contrarre secondo le condizioni che risultano “giuste” avuto riguardo ai parametri risultanti dal testo originario del contratto, riconsiderati alla luce dei nuovi eventi imprevedibili e sopravvenuti. Qualora le due parti siano disponibili, s'incontrano e concludono; qualora una delle due si neghi, è il giudice a decidere. È evidente che la decisione del giudice deve essere calibrata su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale. È chiaro che l'intervento del giudice resta suppletivo e residuale, in quanto il magistrato non può correggere la volontà delle parti quand'anche le scelte di queste gli appaiano incongrue, limitandosi, negli eccezionali casi in cui la legge l'ammetta, a colmare le lacune riscontrate, inserendo regole ulteriori e coerenti con il programma concordato dalle parti. In particolare, il magistrato, più che intervenire dall'esterno, opererebbe all'interno del contratto e in forza di esso, servendosi di tutti gli strumenti di interpretazione forniti dal legislatore (artt. 1362-1371 c.c.), precipuamente quello disciplinato dall'art. 1366 c.c. sulla buona fede nell'interpretazione del contratto. Un intervento sostitutivo del giudice sembrerebbe ammissibile al più ogni volta che dal regolamento negoziale dovessero emergere i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto, fornendo al giudice (anche in chiave ermeneutica) i criteri atti a ristabilire l'equilibrio negoziale. In questo caso, il magistrato opererebbe servendosi di tutti gli strumenti di interpretazione forniti dal legislatore (artt. 1362-1371 c.c.), precipuamente quello disciplinato dall'art. 1366 c.c. sulla buona fede nell'interpretazione del contratto. D. L'interpretazione del contratto secondo la buona fede Il dovere di rinegoziare va ricondotto al dovere di eseguire il contratto secondo buona fede come impone l'art. 1375 c.c. La conclusione si conferma utilizzando un'altra norma, anch'essa declinazione del canone di correttezza contrattuale, la norma di cui all'art. 1366 c.c. “il contratto deve essere interpretato secondo buona fede”. La norma va anzitutto letta in pendant con l'art. 1362 c.c.: “nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti”. Cioè la lettura di un contratto di durata secondo le regole della correttezza non può che portare l'interprete a rinvenire nel regolamento la comune volontà delle parti di ridiscutere le originarie condizioni di esecuzione quando queste si allontanino dalla iniziale logica economica dell'operazione, per effetto di eventi rilevanti e non previsti né causati dalle parti. Viola pertanto il dovere di buona fede il contraente che pretenda l'adempimento di una clausola in base a una lettura vantaggiosa del testo contrattuale, che la controparte ha tuttavia diritto di intendere nel diverso significato giustificato dall'interpretazione di buona fede, vale a dire da una lettura che tenga conto della natura del contratto e di ogni circostanza comune valevole ad illuminare il significato dell'operazione economica complessiva. In conclusione, come osservato più volte, occorre una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 1175 c.c., che sulla base dell'art. 2 Cost. impone, in funzione dell'inderogabile dovere di solidarietà contrattuale, di non recare danno ad altri. Tale interpretazione consente di poter sostenere che la violazione del dovere necessiti dell'intervento integrativo del contratto da parte del giudice (Punto B). E. L'utilizzo dello strumento della buona fede nella giurisprudenza di merito nel periodo Covid-19 Secondo il provvedimento (criticato) e citato dall'annotazione del provvedimento in commento del 27 agosto 2020, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.). In particolare, secondo tale provvedimento, la buona fede può essere utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l'alea normale del contratto: la clausola generale di buona fede e correttezza, invero, ha la funzione di rendere flessibile l'ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore. Tuttavia, lo stesso giudicante, ritiene comunque difficileridisegnare il contratto per il tramite della buona fede; però, allo stesso tempo, il giudice trova rifugio utilizzando lo strumento previsto dall'art. 1464 c.c. (Trib. Roma 27 agosto 2020: il provvedimento in esame nasce da un procedimento ex art. 700 c.p.c; secondo il giudicante, ferma la circostanza che alcuna delle parti ha manifestato la volontà di sciogliersi dal vincolo contrattuale, le conseguenze non erano quelle della impossibilità totale temporanea né quelle dell'impossibilità parziale definitiva; trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull'obbligo di corrispondere il canone è stato quello di subire, ex art. 1464 c.c. una riduzione del canone). Secondo altro provvedimento del giudice di Milano (diverso ragionamento), a causa dell'emergenza sanitaria in corso, è da ritenersi necessaria, alla luce del principio di buona fede e correttezza nonché dei doveri di solidarietà costituzionalizzati (art. 2 Cost.), una rinegoziazione del canone di locazione al fine di riequilibrare il sinallagma, cosi come caldeggiato anche dalla Suprema Corte nella relazione tematica n. 56 dell'8 luglio 2020; una rinegoziazione dell'importo del canone - nel senso di una sua temporanea riduzione - e/o delle modalità di corresponsione del canone stesso, verrebbe dunque a riequilibrare lo scambio, richiedendo al locatore un sacrifico ampiamente inferiore a quello cui il conduttore sarebbe soggetto ove fosse tenuto a corrispondere l'intero canone, a fronte di un'utilità significativamente ridotta, seppur temporaneamente, esercitando parte conduttrice nell'immobile locato un'attività commerciale (somministrazione al pubblico di alimenti e bevande). Per i motivi esposti, il Tribunale di Milano ha invitato la locatrice a formulare alla conduttrice per iscritto una proposta di rinegoziazione del canone che comprenda il periodo marzo-dicembre 2020; nonché, termine per la conduttrice per prendere posizione su tale proposta, motivando le ragioni economiche sottese alla eventuale mancata accettazione o per formulare, a sua volta, una motivata controproposta alternativa. Solo nel caso di fallimento della rinegoziazione, si procederà al mutamento del rito (Trib. Milano 21 ottobre 2020, affermando, dunque, che diviene necessaria la rinegoziazione del canone; da notare, però, che nel caso di specie la questione non era stata prospettata dalla conduttrice, e che la questione è stata dunque sollevata, nel caso in esame, d'ufficio dal giudice). F. Considerazioni sull'istituto della impossibilità parziale sopravvenuta Merita un riferimento allo strumento fornito dall'art. 1464 c.c. (escluso dal provvedimento in commento in quanto, secondo il giudice, non è riconducibile alcuna condotta di tale tipo al locatore, ma ad attività provvedimentale. Superata l'emergenza, infatti, l'immobile sarà nuovamente e totalmente utilizzabile e comunque, anche durante l'emergenza, lo stesso è stato occupato per la sua interezza da cose e beni del conduttore e dunque la limitazione non ha in realtà riguardato l'uso dell'immobile in sé). In tema, i giudici del Massimario hanno evidenziato che con maggiore difficoltà entro l'alveo applicativo dell'art. 1464 c.c. possono ricondursi i contratti di locazione, anche di beni produttivi, incisi dallo scotto della pandemia, dal momento che la prestazione di concessione in godimento rimane possibile e continua a essere eseguita quand'anche per factum principis le facoltà di godimento del bene risultino momentaneamente affievolite. Tuttavia, in tale relazione viene, altresì, precisato che, “nel contratto di durata, la prestazione del locatore continua ad essere resa benché l'utilità che il conduttore ne ricava sia allo stato depressa. Fare perno sulle disposizioni in materia di impossibilità sopravvenuta per smarcare in tutto o in parte il locatario dal pagamento del canone vuol dire correggere l'alterazione dell'equilibrio contrattuale, dislocando una porzione delle conseguenze finanziarie del Covid da una parte all'altra del contratto, ma sulla base di una considerazione che appare ispirata al buon senso, più che al rigore giuridico”. Ed ancora, altra corrente di pensiero ritiene che il conduttore, in ogni caso, anche durante il lockdown, ha usufruito della res locata quanto meno ai fini del deposito degli impianti, delle attrezzature e delle scorte di magazzino. Oltre a ciò, le norme fiscali hanno riconosciuto al conduttore una “forma di indennità”: credito d'imposta pari al 60% del canone “pagato” nel periodo del lockdown. Proprio su tale ultimo aspetto, il giudicante della pronuncia in commento ha concluso che “pur prendendo atto che il legislatore stesso ha riconosciuto la eccezionalità della situazione e le gravi ripercussioni che ha comportato, non può che riconoscersi che non ha voluto prevedere una forma di intervento normativo idonea ad incider in modo generalizzato sui rapporti locatizi di natura privata (intervenendo invece sui canoni degli impianti sportivi), ma anzi, al contrario, prevedendo forma d" sgravi fiscali, da un lato ha declinato forme di intervento diretto nei rapporti tra privati, dall'altro ha indirettamente confermato la perdurante validità ed efficacia dei vincoli, rimettendo alla eventuale volontà delle parti … ogni eventuale possibilità di modifica”. Nonostante le citate considerazioni, però, attualmente, esiste un orientamento favorevole all'istituto previsto dall'art. 1464 c.c. Per meglio odire, su tale aspetto, come sostenuto da più autori, il codice civile, nella parte riservata alla disciplina generale del contratto, da una parte, consacra, all'art. 1372, comma 1, c.c., la regola pacta sunt servanda, sancendo, in linea di principio, l'irrilevanza di eventuali sopravvenienze rispetto al dovere di rispettare gli impegni assunti; dall'altra, prevede in modo esplicito, rispettivamente agli artt. 1463, 1464 e 1467 c.c., alcuni rimedi per l'impossibilità sopravvenuta (totale e parziale) e per l'eccessiva onerosità sopravvenuta, individuando così in modo chiaro le sopravvenienze "rilevanti" e tali da determinare, in via privilegiata, lo scioglimento del vincolo contrattuale. Proprio in merito all'art. 1464 c.c., molti giudici hanno trovato rifugio ai fine della rideterminazione del canone di locazione (Trib. Venezia 30 settembre 2020; Trib. Roma 27 agosto 2020; Trib. Venezia 28 luglio 2020; Trib. Roma 29 maggio 2020: riduzione del canone limitatamente al solo periodo di impossibilità parziale). G. Conclusioni Attualmente, lo scenario è fonte di constasti, opinioni divergenti e, soprattutto, privo di idonea tutela per entrambe le parti. Anzi, addossare il rischio del factum principis ad una sola delle parti è fortemente iniquo sotto ogni punto di vista. A parere di chi scrive, in situazioni eccezionali come quella di specie, il rischio andrebbe pertanto equamente ripartito tra le parti ricorrendo ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione e nell'interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c., in funzione integrativa del contenuto del contratto, per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti. L'assenza di un equo accordo tra le parti dovrebbe legittimare l'intervento del giudice. A questo proposito, secondo la giurisprudenza, i principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione e nell'interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c., rilevano sia sul piano dell'individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto (Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106). Ed ancora, secondo altro orientamento, il giudice ha un potere di controllo sulle pattuizioni delle parti mediante la clausola generale della buona fede integrativa, che si concreta in una duplice direzione, prevedendo l'obbligo per entrambi i contraenti di salvaguardare l'utilità della controparte nel limite dell'apprezzabile sacrificio. Il rapporto obbligatorio è caratterizzato quindi da una struttura complessa, in quanto il principio di correttezza si pone come fonte di doveri ulteriori che vincolano le parti, nonostante questi non risultino specificamente dal titolo. In particolare, il creditore ha il divieto di abusare del proprio diritto e, allo stesso tempo, l'obbligo di attivarsi per evitare o contenere gli imprevisti aggravi della prestazione o le conseguenze dell'inadempimento (Trib. Treviso 8 ottobre 2018 n. 1956). In questo momento storico, i principi di equità e buona fede restano utili strumenti per la risoluzione in via giudiziale dell'attuale delicata problematica. Riferimenti
Zemignani, La buona fede integrativa e l'obbligo di rinegoziazione: una rimeditazione al tempo del Covid-19, in Giustiziacivile.com, 16 dicembre 2020; Scalettaris, Necessaria la rinegoziazione del canone nel caso di morosità in tempi di emergenza?, In Condominioelocazione.it, 24 novembre 2020; Tarantino, La riduzione del canone di locazione commerciale: soluzioni e contrasti giurisprudenziali in materia di Covid-19, in Condominioelocazione.it, 2 novembre 2020; Marini, Contratti squilibrati dalla crisi: rinegoziarli, se possibile, non risolverli, in Altalex.com, 28 settembre 2020; Tarantino, Covid-19: diritto alla riduzione del canone di affitto d'azienda per la chiusura delle attività commerciali?, in Condominioelocazione.it, 16 settembre 2020; Massa, Oltre la crisi: lockdown e locazioni commerciali, in Giustiziacivile.com, 16 giugno 2020. |