Le società di comodo e la prova del c.d. test di operatività
18 Febbraio 2021
Massima
Il fallimento dei c.d. test di operatività da parte di una società istituisce una presunzione iuris tantum di inoperatività, che è onere della stessa vincere mediante una prova contraria che sia esplicativa dell'anomalia reddituale. Il caso
Il caso sottoposto alla Commissione Tributaria provinciale di Udine riguardava il ricorso presentato da una società immobiliare contro l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate - Direzione Provinciale di Udine in relazione alle annualità 2013, 2014 e 2015. Secondo l'Ufficio competente, la società - che svolge attività di valorizzazione e promozione immobiliare - non avrebbe rispettato la normativa inerente le c.d. società di comodo; difatti, a seguito della sottoposizione ai test di operatività, era emersa una discrasia tra il reddito minimo e quanto effettivamente dichiarato dalla società.
In particolare l'Agenzia delle Entrate rilevava che la società non aveva sostenuto spese pubblicitarie o attività di compravendita e locazione, che al contrario sussistevano le spese relative alle utenze e che infine - elemento più incisivo - il superamento dei test era dovuto al fatto che il socio unico aveva rinunciato al finanziamento soci fin dal 2006 che, come noto, è contabilmente considerato come un apporto di patrimonio. La società nel ricorso affermava che la mancata locazione degli immobili era da imputare alla crisi di mercato e che uno degli immobili era stato oggetto di un provvedimento di ingiunzione rimozione di opere abusive (poi annullato dal Consiglio di Stato), subendo quindi un limite per quanto attiene la possibilità di conclusione di un contratto di compravendita o di comodato.
Infine la rinuncia al finanziamento del socio non doveva essere inquadrata come voce straordinario del conto economico per la costanza temporale in cui si è manifestata. In sede di controdeduzioni l'Agenzia delle Entrate rilevava che non vi era stato alcun impedimento di fatto tale da impedire alla società di locare l'appartamento, né che la crisi del settore e il provvedimento amministrativo emesso avessero pregiudicato tale operazioni. Inoltre non poteva essere ritenuta meritevole di accoglimento la tesi per la quale la rinuncia del socio al finanziamento accordato fosse un'operazione ordinaria e non un provento straordinario. Tale rinuncia, dilazionata negli anni e per importi di poco superiori a quelli minimi richiesti, altro non sarebbero che artifizi volti a mascherare l'inattività della società. La questione
Nel caso de quo la questione oggetto della pronuncia in analisi, riassunta in precedenza per sommi capi, concerne il corretto svolgimento dell'attività economica di una società in base allo scopo prefissato, alle operazioni compiute nonché agli utili percepiti, ed i parametri attraverso i quali valutare l'operatività o meno della stessa. Sul punto, con particolare riferimento alle società immobiliari, la casistica e le pronunce delle varie Commissioni tributarie sono particolarmente significative. Come noto, nel nostro ordinamento sussistono alcune disposizioni volte a contrastare fenomeni societari finalizzati a consentire un mero godimento diretto o indiretto di beni e servizi da parte della compagine sociale. Si tratta appunto delle c.d. società di comodo. Per un immediato inquadramento della tematica, si considerano di comodo tutte quelle società commerciali (di persone e di capitali) che non superano il test previsto dall'art. 30 della L. 23 dicembre 1994, n. 724. Tale test, il c.d. test di operatività, si considera favorevolmente concluso se i componenti positivi effettivi (ricavi e incrementi di rimanenze) sono superiori ai ricavi presunti che sono dati dalla somma degli importi che risultano applicando dei coefficienti di valori di alcune attività patrimoniali del bilancio oppure, per i soggetti non tenuti alla sua redazione, delle scritture contabili (F. Perli, Società di comodo, in IlTributario, 16.11.2015). Come specificato, l'ambito soggettivo di applicazione della disciplina relativa a questi ultimi soggetti è quello delle società commerciali, siano esse di capitali o di persone, a prescindere dalla modalità di determinazione del reddito e dalla tenuta della contabilità, nonché dall'applicazione o meno dei principi contabili nazionali o internazionali IAS/IFRS. Su tali soggetti grava il compito di dichiarare, ex art. 30 L.724/94 sia un reddito presunto, sia un valore della produzione presunto ai fini dell'IRAP qualora, i ricavi e altri proventi effettivamente conseguiti, su base triennale, non superino quelli presuntivamente determinati in funzione dell'applicazione di determinate percentuali alle immobilizzazioni detenute dalla società, sempre su base triennale (G. Ferranti, Società immobiliari: quando si (dis)applica la disciplina delle società di comodo, Il fisco, 16/19). Tali presunzioni tuttavia non operano in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito minimo. In tal caso graverà sulla società dimostrare che tali situazioni eccezionali ed indipendenti. Attraverso tale strumento la società può rappresentare le oggettive situazioni che hanno comportato l'insorgere della condizione di non operatività. È data poi alla stessa società, qualora risulti non operativa, la possibilità di interpellare, ai sensi del c. 4-bis dell'art. 30, L. n. 724/94, l'Agenzia delle Entrate ai sensi dell'art. 11, c. 1, lett. b), della L. 27 luglio 2000, n. 212, per ottenere una pronuncia sulla disapplicazione della normativa in esame. Se il contribuente decide di dichiararsi operativo o non si adegua al reddito minimo, senza aver presentato l'istanza di interpello ovvero dopo aver ricevuto una risposta negativa alla stessa, l'Ufficio delle Entrate può rettificare il reddito dichiarato, notificando un avviso di accertamento. L'istanza di disapplicazione può essere presentata, come specificato, in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi e degli incrementi. Ed in tal senso anche la posizione della giurisprudenza di legittimità si è dimostrata particolarmente rigorosa nel valutare, nel singolo caso concreto, la sussistenza degli elementi giustificativi. In particolare la Corte di Cassazione ha affermato che: “La normativa si limita quindi a stabilire una semplice presunzione superabile con la prova contraria, spettando al contribuente dimostrare l'esistenza di situazioni oggettive e specifiche, indipendenti dalla sua volontà, che hanno reso impossibile il raggiungimento della soglia di operatività e del reddito minimo presunto. Il fallimento del cd. "test di operatività" istituisce, quindi, una presunzione iuris tantum di inoperatività, che è onere della parte contribuente vincere mediante prova contraria esplicativa dell'anomalia reddituale” (Cass.civ., sez. trib., 24 febbraio 2020, n. 4850).
La soluzione giuridica
Basandosi di fatto sull'analisi del testo normativo - dall'art. 30 L. 724/94 -, emerge come il contribuente debba non solo limitarsi a segnalare le situazioni oggettive che hanno di fatto impedito il conseguimento del reddito minimo previsto, ma deve provare la concreta sussistenza di tali situazioni, sulla base di fatti ovvero situazioni realmente occorsi. Sul punto la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. trib., 10 marzo 2017, n. 6195) si è espressa affermando che il contribuente deve dimostrare che le circostanze esterne sono conseguenza di fattori terzi non dipendono da eventi riconducibili alla sua condotta. Appare subito evidente che l'onere probatorio risulta di non facile superamento, dovendo il soggetto dimostrare la non rilevanza della sua condotta dal punto di vista del nesso causale e che le circostanze per le quali non è stato conseguito il guadagno derivano dal caso fortuito o dalla forza maggiore. Inoltre, i giudici di legittimità, affermano che il fallimento dei test di operatività fornisce una presunzione iuris tantum circa l'inoperatività della società e la cui prova contraria grava sulla medesima compagine societaria. Tale presunzione di fatto si fonda sul id quod plerumque accidit in quanto è intrinseco a qualsiasi attività d'impresa (esclusi appunti casi eccezionali ut supra) una continuità nei ricavi che, in base ai beni patrimoniali correlati, devono essere aderenti ai parametri individuati dall'art. 30 L. 724/94; ed in effetti la mancata adesione a tali indici rileva come elemento sintomatico della non operatività della società. Proprio per tale assioma, nella motivazione della sentenza, il giudicante ha preliminarmente vagliato la possibile sussistenza di elementi giustificativi concreti ed indipendenti dalla volontà del contribuente tali da poter giustificare la non congruità e coerenza con i parametri di reddito minimo, per le annualità oggetto di contestazione. Elementi che, come in precedenza esposto, non devono essere genericamente elencati, ma devono essere provati e illustrati dal ricorrente.
Con particolare riferimento a tale punto i motivi enunciati dalla società, quali la crisi del settore, sono di fatto formulati in termini generici e non dotati di quella forza probatoria necessaria per vincere la presunzione di inoperatività. Rilevanza invece potrebbe assumere il motivo inerente all'impossibilità di locare gli immobili a causa della pendenza del contenzioso amministrativo; difatti nonostante questo riguardasse solamente uno degli appartamenti, per la struttura funzionale delle unità abitative, non era di fatto possibile separarne le posizioni. In sostanza i due appartamenti dovevano essere locati o venduti insieme. La Commissione Tributaria, sulla base della sentenza del Consiglio di Stato e sulle controdeduzioni fornite dall'Agenzia delle Entrate, ha ritenuto che - almeno in via di possibilità - l'immobile sito al secondo piano avrebbe potuto comunque essere oggetto di un contratto di locazione o compravendita, anche in ragione della coincidenza del proprietario dei due immobili.
Infine per quanto attiene alla rinuncia del socio unico al finanziamento, anche tale motivo di gravame non è stato ritenuto idoneo. Come menzionato tale decisione, frazionata nel corso degli anni, ha consentito alla società di superare i test di operatività. Tuttavia va evidenziato che tali importi non possono essere conteggiati come ricavi, data la loro natura finanziaria e non economica. Difatti ai fini del positivo esito dei test il mero incremento patrimoniale non rileva in quanto la presunzione di inoperatività concerne il reddito nei termini della comparazione tra i ricavi effettivi del conto economico e i ricavi figurativi. Da ciò si evince quindi che la mera rinuncia al finanziamento, per altro dilazionata negli anni e per importi di poco superiori al minimo individuato dai parametri, non può essere ritenuto valido ed efficace per individuare il reddito di una società e conseguentemente stabilire se la stessa operi realmente sul mercato, oppure abbia una mera funzione di comodo. Neppure i diversi motivi proposti dal ricorrete, a parere del giudice a quo, sono idonei a dimostrare l'operatività della società e a compiere quella ardua, ma non impossibile, inversione dell'onere della prova per dimostrare la sussistenza di elementi oggettivi e indipendenti dalla volontà del contribuente che hanno di fatto impedito il raggiungimento della soglia minima di reddito, così come stabilito dai parametri.
La Commissione Tributaria di Udine ha quindi respinto il ricorso e condannato il ricorrente a rifondere le spese processuali.
Osservazioni
La sentenza oggetto del presente commento mutua dei principi cardine, già trattati dalla giurisprudenza di legittimità. Con particolare riferimento alle presunzioni di operatività, la Corte di Cassazione ha già da diversi anni ritenuto che: “In tema di I.V.A., nel caso in cui sussistano le condizioni soggettive e oggettive di applicabilità della disciplina relativa alle società di comodo di cui alla L. n. 724/1994 in ragione del mancato superamento del c.d. test di operatività, il contribuente è tenuto a fornire la prova contraria, dimostrando, ai sensi dell'art. 30, c. 4-bis, della L. n.724 del 1994 citata, la presenza di quelle oggettive condizioni che hanno impedito il conseguimento dell'ammontare minimo di ricavi, dell'incremento di rimanenze, di proventi e di reddito o non hanno consentito di effettuare operazioni rilevanti ai fini I.V.A., così da consentire la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive” (Cass. civ., sez. trib., 30.12.2019, n. 34642). Più precisamente nel caso in cui invece sussistano le condizioni (soggettive e oggettive) di applicabilità di questa, il contribuente ha l'onere di fornire la prova contraria, in particolare - per quanto qui rileva - di provare che sussistono: a) per quanto riguarda i periodi d'imposta precedenti quello in corso al 4 luglio 2006, "oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi, di incrementi di rimanenze e di proventi nella misura richiesta dalle disposizioni del presente comma" (L. 724/94, art. 30, c. 1, secondo periodo, nel testo anteriore alla sostituzione di tale comma a opera del D.L. 04 luglio 2006 n. 223, art. 35, c. 15, lett. a); b) per quanto riguarda il periodo d'imposta in corso al 4 luglio 2006, "oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonchè del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4" (L. n. 724/1994, art. 30, c. 4-bis, nel testo di tale comma inserito dal D.L. n. 223/2006, art. 35, c. 15, lett. d).
Sebbene a proposito di tale prova contraria, la Cassazione abbia precisato che l'impossibilità cui fanno riferimento le disposizioni citate va intesa non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, con riguardo alle effettive condizioni del mercato (Cass. civ., sez. trib., 28.02.2017, n. 5080, Cass. civ., sez. trib, 20.06.2018, n. 16204, Cass. civ., sez. trib., 12.02.2019, n. 4019, Cass. civ.,sez. trib., 04.12.2019, n. 31626 e Cass. civ., sez. trib., 28.05.2020, n. 10158), si evince che l'onere posto al contribuente sia particolarmente gravoso in ragione della necessità di dimostrare l'esistenza di oggettive situazioni indipendenti dalla propria condotta, derivanti da forza maggiore, che hanno di fatto impedito il raggiungimento della soglia minima di reddito. Appare subito chiaro che per il cittadino contribuente, non avvezzo alle pratiche societarie e tributarie, non sempre risulterà di particolare facilità fornire all'Agenzia delle Entrate la prova della presenza di condizioni che hanno ostacolato o comunque limitato il raggiungimento della soglia reddituale minima, così come individuata dai parametri.
A maggior ragione che, come esposto in precedenza, il contribuente non deve solo allegare il mero fatto o la situazione ostativa, ma deve fornire prova concreta e tangibile che quella determinata condizione ha precluso il conseguimento del reddito minimo necessario per non figurare come società di comodo. Inoltre, tale situazione, non deve essere in alcun modo conseguenza della condotta del soggetto, ma deve derivare da elementi sopravvenuti estranei e fortuiti. Concludendo viene posto, dal legislatore e dalla giurisprudenza di legittimità, un'attività probatoria in capo al contribuente estremamente ardua che lo stesso non sempre potrebbe, non per volontà ma per una mera assenza di nozioni giuridiche, o per mancanza degli idonei mezzi ovvero incolpevolmente, riuscire a dimostrare.
In difetto di tali elementi probatorio la società si considererà una mera impresa di comodo non operativa e quindi in contrasto con l'ordinamento. A maggior ragione poi che tale inversione dell'onere della prova aggrava la situazione di un soggetto che, così come stabilito e delineato dall'art. 30 L. 724/94, non ha raggiunto il reddito minimo presunto (di fatto quindi operando in perdita o comunque con un nocumento economico) e che ha subito, in ragione del richiamo a situazioni oggettive straordinarie e non derivanti dalla sua condotta, quantomeno un evento dannoso o incommodus. |