L’accettazione della laparotomia non implica consenso all’emotrasfusione
02 Marzo 2021
Abstract
Il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l'emotrasfusione, pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento (laparotomia esplorativa) che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purchè dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita. Il caso
D.G.M.G. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Milano un clinica e il medico chiedendo il risarcimento del danno e la restituzione di quanto corrisposto per l'opera professionale, in relazione alle trasfusioni di sangue eseguite nonostante la contrarietà manifestata dall'attrice, Testimone di Geova, a seguito di emorragia conseguente a parto con taglio cesareo.
Osservò ancora la Corte territoriale che mancava la prova che al momento di esprimere il rifiuto preventivo alla trasfusione l'appellante intendesse già rifiutare di sottoporsi a trasfusione anche nell'ipotesi di pericolo di vita, posto che dalla CTU era emerso che la trasfusione si era resa solo successivamente indispensabile per la sopravvivenza della paziente. L'accettazione dell'intervento di laparotomia esplorativa implicava l'accettazione di tutte le sue fasi, non essendo contestabile che, acconsentendo all'intervento la paziente avesse implicitamente, ma chiaramente, manifestato il desiderio di essere curata e non di morire per evitare di essere trasfusa. Ha proposto ricorso per cassazione D.G.M.G. La questione
Con la sentenza in rassegna la Suprema Corte torna ad occuparsi del tema – già noto alla giurisprudenza – del rifiuto delle cure mediche, anche quando da esse può derivarne la morte, con particolare riguardo al rifiuto delle emotrasfusioni da parte dei Testimoni di Geova. La questione è strumentale rispetto a quella che costituisce l'oggetto della controversia, relativa alla legittimità dell'operato dei medici in relazione alle trasfusioni eseguite nonostante la contrarietà manifestata dalla paziente. Le soluzioni giuridiche
La soluzione offerta dai Giudici di legittimità si sviluppa attraverso i seguenti passaggi: 1) il richiamo dei precedenti giurisprudenziali in materia di dissenso alle cure da parte del testimone di Geova; 2) il quadro normativo di riferimento; 3) la giurisdizione per principi costituzionali; 4) la formulazione del principio di diritto.
1) Per quanto concerne i precedenti giurisprudenziali, viene citata, anzitutto, Cass. Civ., Sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676, che ha dettato le condizioni per l'efficacia del dissenso alle cure, anche se da esso possa derivare la morte: non è sufficiente una generica manifestazione di dissenso formulata ex ante ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure. La Cass. Civ., Sez. III, 23 febbraio 2007, n. 4211 ha, invece, stabilito che, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza del dissenso alle cure precedentemente espresso, il medico può ritenere certo od altamente probabile che tale rifiuto non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia non assentita, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente.
2) Alla fattispecie sub iudice, verificatasi nel 2005, non si applica ratione temporis la l. n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), entrata in vigore il 31 gennaio 2018. Il riferimento è all'art. 33, l. 23 dicembre 1978, n. 833, comma 1 (“Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari”), che è un'esplicitazione dell'art. 32 Cost., comma 2, i cui principi sono immediatamente applicabili nel caso concreto. 3) La giurisdizione per principi costituzionali viene in rilievo ogniqualvolta la fattispecie non sia disciplinata dalla legge. Il procedimento attraverso cui si esercita la giurisdizione per principi si può suddividere in quattro fasi: a) la ricognizione del caso concreto; b) i principi costituzionali rilevanti; c) l'eventuale bilanciamento tra principi concorrenti; d) la fattispecie giuridica.
La Suprema Corte risolve il caso in esame mediante il ricorso alla giurisdizione per principi costituzionali, le cui fasi – dianzi elencate – assumono, nella specie, la seguente configurazione: a) il fatto è quello della sottoposizione del Testimone di Geova a trasfusione di sangue; b) i principi costituzionali che entrano in gioco sono quelli dell'autodeterminazione sanitaria e della libertà religiosa; c) questi principi non incontrano principi costituzionali di segno opposto, che impongano una forma di bilanciamento; d) la regola di giudizio è che il Testimone di Geova ha il diritto di rifiutare l'emotrasfusione.
La giurisdizione per principi costituzionali nella fattispecie in esame porta a contestare la ratio decidendi della sentenza impugnata, secondo cui l'accettazione dell'intervento di laparatomia esplorativa implicherebbe l'accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita. Sviluppando la regula iuris sopra enucleata, la Suprema Corte perviene agevolmente alla formulazione del principio di diritto, in base al quale il Testimone di Geova ha il diritto di rifiutare l'emotrasfusione, pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento, che abbia successivamente richiesto la trasfusione. Osservazioni
La sentenza in rassegna si pone in linea di continuità con l'orientamento giurisprudenziale, da tempo consolidato, che valorizza il principio di autodeterminazione nel campo dei trattamenti sanitari (cfr., tra le più recenti, Cass. civ. Sez. III, 10 giugno 2020, n. 11112; Cass., Sez. III., 11 novembre 2019, n., 28985). La pronuncia si segnala perché mette in evidenza le interrelazioni esistenti, nel caso del rifiuto di emotrasfusioni da parte del Testimone di Geova, tra il diritto di autodeterminazione terapeutica e la libertà religiosa (interrelazioni, peraltro, già colte dalla giurisprudenza richiamata: cfr. Cass. Civ., Sez. I, 7 giugno 2017, n. 14158; Cass. Civ., Sez. I, 15 maggio 2019, n. 12998). Queste interrelazioni connotano, nel caso di specie, il rifiuto alle cure che, dunque, si distingue dalle altre ipotesi di dissenso terapeutico, perché a venire in gioco non è soltanto l'autodeterminazione ma anche la libertà religiosa.
La particolare natura del rifiuto del Testimone di Geova come atto di esercizio al contempo di autodeterminazione terapeutica e di libertà religiosa spiega perché – contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici di merito – il consenso al trattamento non implica il consenso all'emotrasfusione: l'uno, infatti, opera esclusivamente sul piano dell'autodeterminazione terapeutica; l'altro, invece, postula una presa di posizione del paziente rispetto alla sua professione di fede.
La parte conclusiva della sentenza contiene alcune interessanti affermazioni che eccedono le necessità logico - giuridiche della decisione e che costituiscono, pertanto, espressione di un obiter dictum. Si richiama il dettato dell'art. 1, comma 6 della citata l. n. 219/2017, della quale si è, peraltro, esclusa l'applicabilità alla fattispecie in esame ratione temporis. Il richiamo viene svolto per sottolineare le “garanzie” di cui gode il medico a fronte del rifiuto alle cure (generalmente intese) da parte del paziente (e dunque anche al di fuori dei casi di emotrasfusioni a Testimone di Geova).
L'art. 1, comma 6 testé citato contempla due distinte fattispecie. La prima riguarda la posizione del medico in caso di volontà “espressa” di rifiuto/rinuncia al trattamento da parte del paziente. In tale caso si producono due effetti giuridici nei confronti del medico. In primo luogo, egli “è tenuto a rispettare” la volontà del paziente; si può, quindi, configurare un'obbligazione, di fonte legale, di “non facere”. Si tratta, a ben vedere, della stessa “obbligazione negativa” che la Suprema Corte – nella sentenza in rassegna – ha individuato in capo al medico, una volta che il Testimone di Geova abbia esercitato il diritto di rifiutare l'emotrasfusione. La violazione di tale obbligo genera responsabilità civile (art. 1218 c.c.) e penale (art. 610 c.p.) a carico del medico. In secondo luogo, il medico che esegue la volontà del paziente e, dunque, adempie l'obbligo di “non facere”, è “esente da responsabilità”. La formula normativa introduce una fattispecie di esonero da responsabilità, sicché al medico non potrà essere mosso alcun rimprovero da parte dell'ordinamento.
La seconda fattispecie riguarda la richiesta da parte del paziente di trattamenti contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali. Una siffatta richiesta non è ammessa dall'ordinamento e, conseguentemente, non fa sorgere “obblighi professionali”.
La Suprema Corte ritiene che rientri nel novero delle richieste “vietate” il consenso manifestato dal paziente ad un intervento chirurgico, accompagnato dalla manifestazione di dissenso all'emotrasfusione. Si tratta, secondo la Cassazione, della richiesta di un trattamento contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale. In definitiva, al di là di questa ipotesi particolare, la disciplina della fattispecie concernente il rifiuto di emotrasfusioni da parte del Testimone di Geova non muta anche ove si volesse applicare la l. n. 219/2017. In tale fattispecie è sempre configurabile in capo al medico un'obbligazione di non facere, il cui inadempimento è fonte di responsabilità. Riferimenti
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