Aborto terapeutico consentito se la madre ha patologie atte a provocare malformazioni del feto, a prescindere dal loro accertamento clinico

29 Marzo 2021

L'interruzione volontaria della gravidanza oltre i 90 giorni (c.d. aborto terapeutico) motivata dal grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna è consentita anche laddove, durante la gravidanza, siano in corso nella madre processi patologici in grado di provocare con alta probabilità rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, non rilevando il fatto che l'anomalia o la malformazione si sia già prodotta, o risulti strumentalmente o clinicamente accertata.
Massima

“L'accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, consente il ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. b) della L. 22 maggio 1978 n. 194, laddove determini nella gestante, che sia stata compiutamente informata dei rischi, un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in concreto e caso per caso, e ciò a prescindere dalla circostanza che l'anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata.

Il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave pregiudizio per la sua salute fisica o psichica”.

Il caso

Nel caso di specie, una donna, durante la gravidanza, contraeva un'infezione da citomegalovirus di cui tuttavia si accorgeva solamente alla ventiduesima settimana di gestazione. Si era, dunque, rivolta al proprio ginecologo, chiedendo se fosse necessario, o opportuno, interrompere la gravidanza in relazione alla possibilità di partorire un bambino affetto da gravi malformazioni.

Il professionista l'aveva tuttavia rassicurata, escludendo categoricamente l'esistenza di rischi, e comunque, affermando l'impossibilità di ricorrere all'aborto terapeutico, essendo decorsi i termini di cui all'art. 6 lett. b), legge n. 194/1978, norma che consente di praticare l'interruzione della gravidanza anche dopo i primi 90 giorni in presenza di determinate condizioni (quali il serio pericolo di vita della donna, o la diagnosi dell'impossibilità di vita autonoma del feto o di una patologia che possa comportare un grave danno alla salute della madre).

Il bambino, a seguito di parto cesareo, veniva alla luce vivo, ma con gravissime lesioni cerebrali conseguenti a calcificazioni nervose, che comportavano una invalidità del 100%.

La donna, assieme al marito, citava, quindi, in giudizio il ginecologo che l'aveva seguita, nonché la ASL presso la quale lavorava, per sentirli condannare al risarcimento dei danni derivanti dal fatto che il sanitario non avesse adeguatamente informato la gestante dei rischi per il feto correlati all'infezione contratta, così da poterle consentire di interrompere la gravidanza.

Sia il giudice di primo grado che la Corte d'appello rigettavano le istanze della donna, rilevando che è onere della parte che lamenti il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza, allegare e dimostrare l'esistenza delle condizioni legittimanti tale interruzione ai sensi dell'art. 6, lett. b), L. n. 194/1978, ovvero che la conoscibilità dell'esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la salute fisica o psichica della donna.

La Corte d'Appello escludeva, altresì, la ricorrenza di condotte colpose nella gestione del parto, osservando che i consulenti tecnici d'ufficio avevano accertato la conformità alla normativa vigente dell'operato dei sanitari e dell'organizzazione della Struttura, escludendo ogni rapporto con le invalidità del nascituro, peraltro già presenti circa due mesi prima della nascita quali esiti di malattia congenita da CMV.

Di parere opposto, invece, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso presentato dai genitori del bambino.

La questione

Nella sentenza in esame, la Suprema Corte estende la possibilità di praticare l'interruzione volontaria della gravidanza al caso in cui la gestante sia consapevole, durante la gravidanza medesima, di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie o malformazioni del feto.

La Corte, pertanto, con tale pronuncia, intende dare soluzione al seguente quesito: premesso che, tra i "processi patologici" che possono determinare il grave pericolo per la salute della donna, l'art. 6, l. 194/1978 considera anche "quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro", ci si chiede se, al fine di praticare l'interruzione volontaria della gravidanza dopo i novanta giorni, siano rilevanti solamente i processi patologici già esitati in accertate anomalie o malformazioni del feto, oppure anche i processi patologici che possano determinare (con alta probabilità) tali anomalie o malformazioni; ciò, a prescindere dal fatto che le medesime siano state accertate, ove comunque emerga l'idoneità del processo patologico potenzialmente nocivo per il nascituro a provocare un grave pregiudizio per la salute della donna.

Le soluzioni giuridiche

Accogliendo il ricorso dei genitori del bambino, i giudici della Terza Sezione hanno stabilito che, per praticare l'aborto terapeutico “non vi è necessità che l'anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata”, essendo al contrario sufficiente che la gestante “sappia di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie o malformazioni del feto”. Questo perché una simile condizione - della quale il medico è tenuto informare la gestante a pena di risarcimento del danno – è, di per sé, in grado di produrre quel “grave pericolo per la sua salute fisica o psichica“, da accertarsi in concreto, che consente l'interruzione oltre i termini massimi di legge (90 giorni).

A tale assunto la Corte giunge attraverso l'interpretazione letterale dell'art. 6, lett. b) della legge n. 194/1978.

La norma - spiega la sentenza - prevede infatti che l'interruzione volontaria della gravidanza possa essere praticata “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.

Ebbene, l'inciso compreso tra le due virgole (“tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto“), spiega la Corte, vale a specificare come, tra i processi patologici che possono determinare il grave pericolo per la salute della donna siano da comprendersi anche quelli attinenti a rilevanti anomalie o malformazioni del feto che, sebbene non concretizzatisi in modo da essere strumentalmente o clinicamente accertabili, siano, comunque, idonei a sviluppare una relazione causale con una menomazione fetale.

Il legislatore – continua la Corte – ha, dunque, posto l'accento sull'esistenza di un “processo patologico” che possa cagionare un grave pericolo per la salute della donna, a prescindere dalla circostanza che l'anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata.

A ciò deve aggiungersi la considerazione che l'aggettivo “relativi” (riferito a “processi patologici,” e collegato a "rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”) esprime di per sè un generico rapporto di inerenza fra la patologia e la malformazione, che non postula necessariamente l'attualità della seconda, e che consente di riconoscere rilevanza anche alla sola probabilità che il processo patologico determini il danno fetale. Deve pertanto ritenersi che, laddove si riferisce a processi patologici "relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto", la L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), non richiede che l'anomalia o la menomazione si sia già concretizzata, ma dà rilievo alla circostanza che il processo patologico possa sviluppare una relazione causale con una menomazione fetale.

Lo stesso sintagma "processo patologico" – spiega la Corte - individua una situazione biologica in divenire, che può assumere rilevanza per il solo fatto della sua esistenza e della sua attitudine a determinare ulteriori esiti patologici, a prescindere dal fatto che tale potenzialità si sia già concretamente tradotta in atto; così che deve ritenersi, in relazione al caso in esame, che anche la sola circostanza dell'esistenza di un'infezione materna da citomegalovirus possa rilevare al fine di apprezzare l'idoneità di tale processo patologico a determinare nella gestante - compiutamente edotta dei possibili sviluppi - il pericolo di un grave pregiudizio psichico, in considerazione dei potenziali esiti menomanti. Nello stesso senso orienta la ratio della norma che, ponendo l'accento sul processo patologico e sul grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, impone di riconoscere rilevanza alle situazioni in cui la patologia, ancorchè non ancora esitata in menomazione fetale accertata, risulti comunque tale da poter determinare nella donna - che sia stata informata dei rischi per il feto - un grave pericolo per la sua salute psichica.

Deve, pertanto, ritenersi che un tale pericolo - da accertarsi, in ogni caso, in concreto - possa determinarsi non solo nella gestante che abbia contezza dell'esistenza di gravi malformazioni fetali, ma anche in quella che sappia di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie o malformazioni del feto.

Ciò comporta, sotto il profilo dell'obbligo informativo, che il medico al quale la gestante si sia rivolta per conoscere i rischi correlati ad un processo patologico, debba informare la stessa della natura della malattia e delle sue eventuali potenzialità lesive del feto, onde prospettarle un quadro completo della situazione attuale e dei suoi possibili sviluppi.

Dal che consegue che, l'omissione di un'informazione corretta e completa sulla pericolosità del processo patologico non consente alla gestante di acquisire elementi che - se conosciuti - potrebbero determinare nella stessa la situazione di pericolo per la salute psichica che potrebbe giustificarne la scelta abortiva. Sotto il profilo risarcitorio, dunque, la Corte stabilisce che il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta, è responsabile per i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza cui la donna dimostri che sarebbe ricorsa. Per poter essere risarcita, la donna deve cioè provare in giudizio che, se avesse conosciuto i rischi di malformazioni fetali, avrebbe fatto ricorso all'interruzione della gravidanza a fronte di un pregiudizio grave per la sua salute psichica o fisica.

Dunque, alla madre va riconosciuto il diritto ad essere risarcita, poiché, a causa dell'omessa informazione da parte del medico, non è stata posta in condizioni di effettuare la scelta abortiva consentita dalla legge.

In conclusione, va disattesa, in quanto non conforme alla lettera e alla ratio della norma, una lettura della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), che, inibendo l'interruzione della gravidanza fino al momento in cui non si manifesti la malformazione fetale, finisce per ignorare il pericolo di grave pregiudizio psichico che potrebbe determinarsi nella donna a fronte della conoscenza di processi patologici suscettibili di porsi in relazione causale (“relativi”) con rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro; pervenendo così a privare la donna che versi in concreto in grave pericolo di pregiudizio alla salute psichica, della possibilità di determinarsi all'interruzione della gravidanza (privazione che può risultare definitiva laddove, come nel caso in esame, la menomazione si manifesti o venga accertata quando il feto abbia ormai acquisito possibilità di vita autonoma, giacchè, in tale ipotesi, l'art. 7, comma 3 della legge n. 194 consente l'interruzione della gravidanza solo in caso di pericolo per la vita della donna).

In conclusione, la Corte di rinvio dovrà verificare se sia effettivamente mancata, da parte del ginecologo, una corretta e completa informazione sui rischi correlati all'infezione da citomegalovirus contratta dalla gestante (accertamento che non è stato compiuto, perchè la Corte territoriale ha ritenuto che l'aborto non sarebbe stato comunque praticabile); nel caso in cui detta informazione risulti mancata o carente, accertare in concreto, con giudizio controfattuale e anche mediante ricorso a presunzioni, se la conoscenza della probabilità che l'infezione da citomegalovirus provocasse danni fetali avrebbe determinato nella gestante un grave pericolo per la salute fisica o psichica (costituente, come detto, un necessario presupposto legittimante il ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza); infine, nel caso in cui risultino integrate tutte le condizioni per praticare l'interruzione della gravidanza, accertare, alla stregua dei precedenti in materia (cfr., per tutte, Cass., S.U. n. 25767/2015), se la donna vi avrebbe fatto ricorso.

Osservazioni

La sentenza in esame, pronunciandosi sul delicatissimo tema dell'aborto terapeutico (ossia quello praticato dopo il 90° giorno), è di grande rilievo, perché consente per la prima volta di chiarire meglio la portata dell'art. 6 lett. b) della l. 194, di cui la Cassazione dà una interpretazione estensiva.

La Suprema Corte, partendo dalla premessa che tra i “processi patologici” che possono determinare il grave pericolo per la salute della donna ex art. 6, l. 194/1978, vi sono anche "quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro", si è trovata a scegliere tra due soluzioni alternative: da un lato se, al fine di praticare l'interruzione volontaria della gravidanza dopo i novanta giorni, siano rilevanti solamente i processi patologici già esitati in accertate anomalie o malformazioni del feto; oppure se, dall'altro, siano rilevanti anche quei processi patologici che possano determinare (con alta probabilità) anomalie o malformazioni del feto, a prescindere dal fatto che queste ultime siano state già accertate, e si siano quindi già manifestate.

Scegliendo la prima soluzione è chiaro che, in presenza di una patologia materna idonea a determinare, con rilevante grado di probabilità, gravi malformazioni del feto, la donna che abbia superato i novanta giorni di gestazione non potrebbe effettuare la scelta abortiva anche a fronte di un grave pericolo per la sua salute psichica (quale potrebbe conseguire alla consapevolezza di portare in grembo un feto molto probabilmente menomato). L'adesione alla seconda soluzione, invece, consentirebbe, viceversa, di accertare caso per caso, se l'esistenza di una patologia potenzialmente produttiva di malformazioni fetali sia tale da determinare quel grave pericolo per la salute della donna idoneo a giustificare il ricorso all'interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno (e fino al momento in cui il feto non abbia acquistato possibilità di vita autonoma).

Ebbene, la Corte d'Appello adita dai genitori del bambino malformato, aveva dato rilievo al fatto che le anomalie o malformazioni - seppur prevedibili con un certo grado di probabilità statistica – fossero assenti fino alla 28° settimana di gestazione, quando cioè il neonato aveva già acquisito vita autonoma: pertanto, mancava la certezza di un danno rilevante ed attuale per il feto, manifestatosi solo quando non era più possibile praticare l'aborto, perché il feto godeva già di vita autonoma.

Il giudice d'appello aveva, dunque, fondato la sua decisione sulla mancanza di certezza di un danno rilevante ed attuale per il feto. Gli appellanti avrebbero invece anticipato il tempo di praticabilità dell'aborto al momento dell'infezione del feto, che rende altamente probabile l'insorgere di anomalie o malformazioni, a prescindere dalla loro esistenza; lettura, questa, a avviso del giudice d'appello, che non corrisponderebbe alla ratio che tende a contemperare le esigenze di autodeterminazione della madre ed il diritto alla via del feto. La Corte d'appello aveva quindi concluso che i presupposti per ricorrere all'aborto sono sempre mancati fin dall'inizio, in quanto il feto, nonostante l'infezione, era sano e tale è rimasto fino al settimo mese, mentre le malformazioni si sono manifestate troppo tardi, quando il feto aveva già vita autonoma.

Ebbene, la Suprema Corte, all'opposto, estende l'aborto terapeutico anche ai casi in cui la gestante sia consapevole di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie o malformazioni del feto, senza la necessità che queste si siano già prodotte e risultino strumentalmente e clinicamente accertate. Questo perché una simile condizione può causare alla partoriente un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica.

Dunque, non vi è necessità che "l'anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata, essendo al contrario sufficiente che la gestante "sappia di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie o malformazioni del feto". Ciò perché una simile condizione, della quale il medico è tenuto informare la gestante a pena di risarcimento del danno, è di per sé in grado di produrre quel "grave pericolo per la sua salute fisica o psichica", da accertarsi in concreto e caso per caso, che consente l'interruzione oltre i termini di legge.

Così, tornando al caso in esame, l'esistenza di un'infezione da citomegalovirus può rilevare al fine di apprezzare l'idoneità di tale processo patologico a determinare nella donna - compiutamente edotta dei possibili sviluppi - il pericolo di un grave pregiudizio psichico in considerazione dei potenziali esiti menomanti.

Va infine sottolineato come la Suprema Corte ribadisca l'obbligo da parte del ginecologo di informare correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate ad una patologia contratta: in caso contrario, va riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni subiti dalla mancata possibilità di ricorrere all'interruzione della gravidanza, dimostrando che, con una adeguata informazione, sarebbe ricorsa al trattamento predetto a fronte di un grave pregiudizio per la sua salute fisica o psichica.

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