La portata del giudicato di annullamento della delibera di assemblea condominiale
25 Maggio 2021
Massima
Al fine della sua regolare costituzione in giudizio, l'amministratore non necessita di alcuna autorizzazione da parte dell'assemblea dei condomini, in quanto il potere di rappresentanza di cui è titolare discende direttamente dall'art. 1131, commi 1 e 2, c.c.; ne consegue che una norma del regolamento di condominio, la quale preveda l'obbligo di sottoporre all'assemblea le decisioni relative ai giudizi in cui il condominio è parte, deve esser considerata ex lege invalida. Il giudicato di annullamento della delibera di assemblea condominiale ha portata meramente negativa, in quanto si limita a precludere l'approvazione di un atto affetto dai medesimi vizi; esso, quindi, per via del meccanismo previsto dall'art. 34 c.p.c., non si estende automaticamente anche alla validità della norma del regolamento di condominio la cui violazione ha generato l'atto viziato. Il caso
La società attrice impugnava la deliberazione di assemblea condominiale con la quale era stato deciso - nell'ambito di in un giudizio di risarcimento del danno in cui il condominio, quale parte convenuta, era stato soccombente in appello - di non accogliere la proposta transattiva formulata dai condomini danneggiati e di proporre, invece, ricorso per Cassazione. La domanda di annullamento della delibera veniva rigettata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere; in sede di gravame, la Corte d'appello di Napoli confermava la statuizione. L'impugnante soccombente proponeva avverso di essa ricorso per Cassazione. La questione
Nel primo punto del ricorso parte attrice deduceva la regolare costituzione dell'amministratore nel procedimento in esame e in quello di risarcimento del danno oggetto della delibera impugnata, stante la disposizione del regolamento condominiale che ne subordina la validità all'autorizzazione fornita dall'organo assembleare. Veniva tra l'altro poi reclamata la violazione degli artt. 2909 c.c. e 112, 115, 116 e 132 c.p.c., per aver la Corte d'Appello di Napoli omesso di prendere in considerazione alcuni precedenti giudicati esterni dedotti dall'attrice. In queste sentenze passate in giudicato, infatti, i giudici avevano disposto l'annullamento di altre delibere assembleari che autorizzavano l'amministratore a rappresentare il condominio in giudizio, in quanto adottate dai condomini di una sola scala e non dalla totalità di essi, presupponendo, quindi, che la norma del regolamento di condominio che prevede detto meccanismo autorizzativo fosse di per sé valida ed operativa. Infine, la ricorrente denunciava violazione degli artt. 2909 c.c. e 112, 115, 116 e 132 c.p.c., poiché la Corte d'Appello di Napoli non si era pronunciata in relazione ai verbali, prodotti dall'attrice, di alcune precedenti assemblee condominiali, dai quali emergeva la prassi di autorizzare l'amministratore prima di ogni esercizio del diritto d'azione o di difesa per conto del condominio. Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione ha innanzitutto rigettato, in quanto inammissibile ex art. 360-bis, n. 1) c.p.c., il primo motivo di ricorso: essa, infatti, ha affermato che spetta esclusivamente all'amministratore la legittimazione passiva a resistere nei giudizi di impugnativa di delibera assembleare. Egli, infatti, a mente dell'art. 1130, n. 1) c.c., è titolare del dovere di «eseguire le deliberazioni dell'assemblea», da cui discende, ex art. 1131, comma 2, c.c., il corrispondente potere di rappresentanza nei giudizi promossi per chiederne l'annullamento: una norma del regolamento di condominio, che subordini l'esercizio di questo potere ad autorizzazione assembleare, è quindi da considerarsi tout court inefficace, o quantomeno non in grado di incidere sulla regolarità del rapporto processuale. Parimenti, l'amministratore ha anche il dovere di «compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio» [art. 1130, n. 4) c.c.], dal quale deriva automaticamente il potere di costituirsi in giudizio per conto del condominio nelle cause di risarcimento del danno derivante dal difetto di manutenzione del bene condominiale. Anche i motivi con cui veniva dedotta la violazione degli artt. 2909 c.c. e 112, 115, 116 e 132 c.p.c., nn. 4, 5 e 6, sono stati dichiarati inammissibili, non avendo la ricorrente specificamente prodotto le sentenze che, passate in giudicato, avrebbero precluso il riesame di alcune questioni rilevanti per il presente giudizio. Oltretutto, tali doglianze sono state reputate infondate, in quanto il giudicato in ordine all'annullamento della delibera assembleare, al di fuori dei casi previsti dall'art. 34 c.p.c., non è in grado di estendersi alla questione pregiudiziale relativa alla conformità di una disposizione del regolamento condominiale alle norme di legge, ma si limita a precludere l'approvazione di un atto affetto dai medesimi vizi: tale sentenza, infatti, è dotata di un mero effetto «caducatorio». Parimenti infondati sono stati giudicati i motivi con i quali si denunciava l'indebito superamento di una consolidata prassi che, sulla base delle norme del regolamento di condominio, avrebbe vincolato l'amministratore a dotarsi di apposita autorizzazione per rappresentare il condominio in giudizio; anche in questo caso, infatti, è stata riproposta l'argomentazione secondo la quale è priva di efficacia quella disposizione regolamentare che limita i poteri attribuiti dalla legge all'amministratore di condominio. Osservazioni
La questione relativa alla rappresentanza in giudizio dell'amministratore di condominio sprovvisto di autorizzazione assembleare è centrale nella sentenza in esame e, più in generale, riveste un ruolo fondamentale nella definizione dei rapporti sostanziali intercorrenti tra l'amministratore ed il condominio. Innanzitutto, va precisato che questo provvedimento si colloca in posizione di aperto dissenso rispetto al principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite nelle sentenze gemelle nn. 18331 e 18332 del 2010, nelle quali si legge che l'art. 1131, comma 2., c.c. è norma volta esclusivamente a garantire maggior certezza al terzo che, qualora volesse intraprendere un giudizio nei confronti del condominio, non avrebbe bisogno di citare tutti i condomini ma il solo amministratore pro tempore; quest'ultimo, quindi, secondo tale ricostruzione, dovrebbe sempre dotarsi di autorizzazione assembleare a stare in giudizio (sia come attore che come convenuto) per nome e per conto del condominio. Un'eccezione a tale principio potrebbe configurarsi solo quando, per ragioni di urgenza collegate, ad esempio, al maturarsi di prescrizioni o decadenze, l'amministratore non potesse attendere una delibera autorizzativa; in questi casi, però, sarebbe comunque necessaria una successiva ratifica assembleare delle attività processuali già svolte e, qualora tale ratifica non intervenisse spontaneamente, al giudice spetterebbe il dovere di assegnare all'amministratore un termine perentorio ex art. 182 c.p.c. per dotarsene. Nel corpus della sentenza in commento, invece, non solo si legge che nessuna autorizzazione è necessaria all'amministratore per agire e resistere in giudizio ma che, per di più, una norma del regolamento di condominio che preveda tale condizione è totalmente priva di efficacia, potendo al limite rilevare «ove la non rituale presenza del convenuto (l'amministratore non autorizzato, n.d.r.) […] avesse recato pregiudizio all'attrice […] (eventualmente per la condanna alle spese che quest'ultima non avrebbe subito se l'appellato - ma il discorso può estendersi ad ogni stato e grado del giudizio, n.d.r. - non avesse partecipato al giudizio». Tale ricostruzione, a ben vedere, è rinvenibile già nella giurisprudenza maggioritaria antecedente al 2010 (cfr. ex pluris Cass. civ., nn. 12379/92, 7474/97, 14037/99, 3773/2001, 8286/2005) e, nonostante sia stata inizialmente accantonata a favore della tesi contraria proposta dalle Sezioni Unite (cfr. Cass. civ., n. 2179/2011), è ben presto tornata ad esser prevalente nella giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. già Cass. civ., n. 22886/2010, seguita, tra le altre, da Cass. civ., nn. 1451/2014; Cass. civ., 7095/2017; Cass. civ., n. 6735/2020). L'argomentazione da ultimo esposta si fonda su un'interpretazione più fedele al dato letterale dell'art. 1131, commi 1 e 2, c.c., in virtù del quale l'amministratore, essendo titolare del potere di rappresentare il condominio nelle liti, ha piena autonomia di scelta in relazione alla costituzione in giudizio per conto di quest'ultimo. Viceversa, invece, la tesi delle Sezioni Unite del 2010 si giustifica con l'inquadramento dei rapporti tra condominio e amministratore nello schema del mandato con procura (artt. 1387 e ss. c.c.): il mandatario, infatti, non può resistere in giudizio per conto del mandante senza l'autorizzazione di quest'ultimo e, in ogni caso, è sempre alla parte in senso sostanziale che spetta il potere di decidere la realizzazione degli atti processuali. Dal punto di vista sostanziale, però, la tesi del mandato non appare convincente, in quanto essa presupporrebbe il riconoscimento di una personalità giuridica in capo al condominio, ma tale assunto non trova riscontro in alcuna norma positiva, discorrendosi nel codice civile di soli «proprietari» (art. 1117 c.c.), «condomini» (art. 1123 c.c.) o «partecipanti» (art. 1131 c.c.); quindi, pur apprezzandosi l'intento perseguito dalle Sezioni Unite - che in questo modo intendevano limitare gli eccessi di litigiosità degli amministratori, i quali spesso finivano per ledere gli interessi dei condomini stessi -, è da guardare con indubbio favore la rinnovata attenzione alla lettera dell'art. 1131, commi 1 e 2, c.c. espressa dalla giurisprudenza attualmente maggioritaria, nel cui solco si inserisce anche la sentenza in commento. Ed invero, alla luce degli attuali (e condivisibili) approdi interpretativi, è necessario riaffermare anche la portata «asimmetrica» dell'art. 1131 c.c.: al comma 1, infatti, è previsto che l'amministratore può agire in giudizio solo «nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'art. 1130 o dei maggiori poteri conferitogli dal regolamento di condominio o dall'assemblea», mentre il comma 2 disciplina la sua resistenza in giudizio «per qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio». Questa precisazione è quantomeno doverosa, perché proprio nella sentenza in esame tale distinzione viene fraintesa: per motivare la valida costituzione dell'amministratore sprovvisto di autorizzazione nei giudizi di impugnativa assembleare (oggetto del procedimento in commento) e di risarcimento del danno cagionato da insufficiente manutenzione delle parti comuni (la c.d. vertenza base), si fa riferimento alle attribuzioni di cui all'art. 1130, nn. 1) e 4) c.c. («eseguire le deliberazioni dell'assemblea» e «compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio»); tale richiamo appare forse improprio - ancorché privo di conseguenze nel caso di specie - , poiché per la rappresentanza dell'amministratore nelle liti passive è necessario solamente che esse riguardino, più in generale, le parti comuni dell'edificio. Meno problematico è invece l'inciso fatto dalla Suprema Corte - pur premettendone la non necessarietà nel caso di specie - in relazione al contenuto dell'avviso di convocazione dell'assemblea. Ed infatti, poiché la delibera assembleare impugnata è antecedente al 18 giugno 2013, data di entrata in vigore del nuovo art. 66, comma 3, disp. att. c.c., la disciplina applicabile, in forza del rinvio operato dall'art. 1139 c.c. (Cass. civ., n. 14560/2004), è quella ex art. 1105, comma 3. c.c.: l'obbligo di preventiva informazione sull'oggetto della deliberazione si considera pertanto pacificamente rispettato nel momento in cui la deliberazione ha per oggetto una prevedibile alternativa a quanto originariamente trattato (cfr. Cass. civ., nn. 13763/2004, 13047/2014, 27159/2018, secondo le quali, tra l'altro, la completezza dell'avviso di convocazione dell'assemblea è una questione di merito, giustamente sottratta dalla cognizione del giudice di legittimità; in senso analogo la sentenza in commento). Nella sentenza in esame, poi, la Corte di cassazione ha riproposto delle felici e consolidate elaborazioni anche in merito alla portata applicativa dell'art. 34 c.p.c.: tale norma, com'è noto, pur riferendosi in prima battuta allo spostamento della competenza per ragioni di connessione, contiene l'importante principio secondo il quale sulle questioni pregiudiziali non si forma giudicato, a meno che non sia stata proposta apposita domanda da una delle parti, ovvero ciò sia richiesto dalla legge. Nel caso in esame, la precisa definizione degli effetti dell'accertamento incidentale rileva perché, qualora, in differenti giudizi di impugnativa assembleare, si fosse formato giudicato implicito sulla legittimità di quelle norme del regolamento di condominio che limitano i poteri di rappresentanza dell'amministratore, la cognizione del giudice non avrebbe potuto di nuovo estendersi ai medesimi aspetti; più nello specifico, la Suprema Corte ha negato che l'accertamento positivo sulla validità di tali norme condominiali, preliminare all'annullamento di altre e diverse delibere, possa far stato tra le parti, poiché esso si dirige su una questione pregiudiziale «in senso tecnico». Come è noto, è da decenni invalsa in giurisprudenza la distinzione tra questioni pregiudiziali «in senso logico» e quelle «in senso tecnico»: l'accertamento sulle seconde non è mai in grado di formare automaticamente cosa giudicata, mentre in senso opposto si muove il discorso sulle prime, alle quali non si ritiene applicabile il principio desumibile dall'art. 34 c.p.c. Nella giurisprudenza è fortunatamente possibile, visti gli opposti effetti della cognizione che si estende alle due diverse categorie di questioni pregiudiziali, rinvenire una distinzione piuttosto specifica tra le stesse. In particolare, le questioni pregiudiziali in senso logico (o logico-giuridico, che dir si voglia) sono quelle che riguardano la sussistenza o il modo di essere di un rapporto giuridico, nei casi in cui oggetto principale della domanda è uno degli effetti che da esso discendono. Per comprendere al meglio cosa si intende per rapporto giuridico fondamentale, si parla opportunamente di una sorta di «contenitore vuoto», il quale è di volta in volta rilevante per l'ordinamento in relazione agli effetti con cui esso «si riempie»; rimanendo sul piano metaforico, si potrebbe dire che gli effetti sono i fiori che compongono il mazzo, e il rapporto giuridico fondamentale il nastro che li tiene insieme: per fare un esempio, il rapporto di lavoro subordinato esiste solo per raccogliere, in maniera unitaria, tutta una serie di diritti ed obblighi giuridici (il diritto del lavoratore di ricevere lo stipendio o la tredicesima, il suo obbligo di svolgere la prestazione, etc.), ma il discorso è estendibile anche ad altre fattispecie, come il rapporto contrattuale di garanzia assicurativa (Cass. civ., n. 11754/2018) o la responsabilità aquiliana che, se sussistente in capo ad uno dei corresponsabili, non deve essere riaccertata nel corso dell'azione di regresso pro quota mossa nei confronti degli altri responsabili (Cass. civ., n. 5748/88). Con tali premesse, è facile comprendere perché l'efficacia del giudicato si estenda non soltanto all'oggetto della pronuncia finale (l'effetto dedotto in giudizio), ma anche al rapporto giuridico fondamentale che ne sta alla base, visto l'indissolubile legame che esiste tra i due, senza che a ciò sia necessaria una domanda di parte o un'espressa volontà di legge (Cass. civ., n. 7405/2012 e, con identica motivazione, Cass. civ., n. 26557/2017). Le questioni pregiudiziali in senso tecnico, invece, sono quelle dotate di un maggior grado di indipendenza: esse, seppur investendo situazioni giuridiche il cui accertamento è altrettanto necessario per l'analisi della domanda principale, non possono esser automaticamente decise con efficacia di giudicato (Cass. civ., n. 7405/2012 e, con identica motivazione, Cass. civ., n. 26557/2017). Questo perché, a differenza di un rapporto giuridico fondamentale, le questioni caratterizzate da pregiudizialità tecnica hanno una propria individualità, dettata dal fatto che esse si fondano su diversi presupposti - di fatto e di diritto - rispetto alla questione esplicitamente decisa (ex pluris Cass. civ., nn. 13452/2004, 8515/2004, 11412/2003); le situazioni giuridiche oggetto di pregiudizialità in senso tecnico, inoltre, assumono autonomo rilievo poiché in grado, di per sé, di riverberare i propri effetti non solo sul rapporto controverso, ma anche su una sequela di ulteriori rapporti al di fuori della causa: su di esse il giudicato può legittimamente formarsi solo se lo prevede la legge o se è stata promossa domanda in tal senso, poiché solo così si potrebbe esprimere un interesse che va oltre alla semplice soluzione della lite in cui la situazione giuridica pregiudiziale è stata risolta (ex pluris Cass. civ., nn. 16995/2007, 14578/2005, 11083/2005). Tanto premesso, si giustifica pienamente quanto affermato dalla Corte di cassazione in relazione al fatto che il giudicato di annullamento di delibera assembleare non si estende implicitamente anche alla validità della norma del regolamento di condominio che impone detta delibera per la regolare costituzione in giudizio dell'amministratore: è evidente, infatti, che tale norma non costituisce presupposto per la creazione di un rapporto giuridico (inteso nel senso sopra esposto) e, inoltre, la sua conformità alle disposizioni di legge può essere oggetto di un successivo giudizio tra le medesime parti. Dopo aver chiarito - in senso negativo - i contorni del giudicato che si forma dall'accoglimento della domanda proposta ex art. 1137 c.c., la Suprema Corte si è occupata altresì di definirli positivamente, specificando che essi comprendono esclusivamente il limite che l'annullamento pone all'esercizio dell'attività di gestione dell'assemblea, alla quale viene preclusa la riapprovazione di una delibera affetta dagli stessi vizi: qualora ciò accadesse, l'atto deliberato sarebbe automaticamente ed a sua volta invalido, poiché l'effetto dei predetti vizi sulla delibera è stato già accertato con efficacia di giudicato. Tale ricostruzione è indubbiamente corretta per quanto riguarda l'effetto preclusivo sopra descritto (definito «caducatorio» dalla Corte), ma è interessante notare quanto ulteriormente detto in sentenza in relazione ai pretesi effetti costitutivi del giudicato di annullamento: la Suprema Corte, infatti, ritiene che costitutiva è solamente la sentenza di annullamento di una delibera avente contenuto negativo, poiché essa implica l'ulteriore obbligo per l'assemblea di adottare l'atto inizialmente rigettato. Sennonché, stando all'art. 1137, comma 1, c.c., «le deliberazioni prese dall'assemblea […] sono obbligatorie per tutti i condomini»; pertanto, da una delibera assembleare - a prescindere dal suo carattere positivo o negativo - discende sempre il vincolo, per i condomini, di rispettare le determinazioni assunte in quella sede: per questa ragione, sembra a chi scrive incompleta l'affermazione secondo la quale l'annullamento di delibera a contenuto positivo avrebbe un effetto solamente «caducatorio», poiché detto annullamento fa venir meno anche l'obbligo per i condomini di conformarsi alle decisioni inizialmente assunte dall'assemblea. In questo senso, le due situazioni analizzate dalla Corte sono distinte solo in quanto speculari, poiché dalla delibera avente contenuto negativo, invece, discende il dovere, per i condomini ma anche per l'amministratore, di non eseguire l'atto proposto all'assemblea e da quest'ultima rigettato: la sentenza pronunciata ex art. 1137 c.c. interviene, poi, per instaurare un obbligo di segno opposto, imponendo ai condomini di assumere la decisione illegittimamente non adotta. In altre parole, il giudice, nell'annullare una delibera avente contenuto positivo, estingue delle situazioni giuridiche preesistenti, mentre, quando annulla una delibera negativa, costituisce gli obblighi che i condomini, in sede assembleare, non avevano voluto fossero assunti: e, poiché a norma dell'art. 2908 c.c. una sentenza è costitutiva sia che si estinguano sia che si costituiscano situazioni giuridiche, quanto detto dalla Corte di cassazione sul giudicato di annullamento di una delibera positiva non appare almeno prima facie condivisibile. Riferimenti
*fonte:www.ilprocessocivile.it |