Transfer pricing interno

08 Giugno 2021

Le transazioni tra società infragruppo residenti nel territorio nazionale, effettuate ad un prezzo diverso dal valore normale, non sono indice, di per sé, di una condotta elusiva, e non è comunque loro applicabile in via analogica la disciplina del "transfer pricing" internazionale.
Massima

Le transazioni tra società infragruppo residenti nel territorio nazionale, effettuate ad un prezzo diverso dal valore normale, non sono indice, di per sé, di una condotta elusiva, e non è comunque loro applicabile in via analogica la disciplina del "transfer pricing" internazionale. Una eventuale alterazione rispetto al prezzo di mercato non può, di per sé, fondare una valutazione di elusività dell'operazione. Lo scostamento dal valore normale del prezzo di transazione può assumere rilievo, anche per operazioni infragruppo interne, solo quale elemento indiziario ai fini della valutazione di antieconomicità.

Il caso

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 8176 del 24 marzo 2021, ha chiarito la disciplina applicabile in tema di transfer pricing interno.

Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva parzialmente accolto l'appello proposto da una s.a.s e relativi soci, nell'ambito di un giudizio contro avvisi di accertamento emessi con il metodo analitico-induttivo, essendo emerso che nei primi tre mesi del 2003 la s.a.s., esercente attività di vendita di prodotti ortofrutticoli all'ingrosso, aveva acquistato da altra S.r.l., composta dagli stessi soci, prodotti ad un prezzo superiore a quello di mercato, con successiva rivendita, ad un costo inferiore a quello di acquisto, senza alcun ricarico e con conseguente perdita “secca”.

L'Agenzia delle Entrate applicava allora una percentuale di ricarico media, tenendo conto della media dei ricarichi praticati negli anni 2002-2004 dalla stessa società contribuente e da altra società del medesimo gruppo imprenditoriale, accertando così ricavi non contabilizzati per Euro 1.245.917,00.

Il giudice di appello rilevava però che lo sbilancio tra costi e ricavi non integrava, da solo, una grave incongruenza, ex art. 62-sexies D.L. 331/1993, tale da legittimare l'utilizzo del metodo induttivo, in presenza di contabilità formalmente regolare.

Lo sbilancio era, del resto, di lieve entità (6,48 %) e si era verificato per un periodo limitato di tempo, dall'1 gennaio 2003 al 31 marzo 2003.

Inoltre, affermava la CTR, si trattava comunque di transfer price interno, in quanto la contribuente aveva acquistato la merce dalla Srl ad un prezzo superiore a quello di mercato, trasferendo in tal modo il reddito alla stessa società, alla quale intendeva trasferire ogni sua attività.

L'Amministrazione finanziaria proponeva quindi ricorso per cassazione e deduceva la violazione dell'art. 62-sexies del D.L. 331/1993, dell'art. 39, comma 1, lettera d., d.P.R. 600/1973 e dell'art. 54, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972, potendo l'accertamento analitico-induttivo fondarsi anche sull'entità del reddito dichiarato, ove in contrasto evidente con il comune buon senso e con le regole basilari della ragionevolezza, specie nel caso in cui la difformità della percentuale di ricarico raggiunga livelli di "abnormità" e "irragionevolezza".

Nella specie, del resto, rilevava l'Agenzia, l'abnormità era in re ipsa, essendo il ricarico addirittura negativo.

La società, peraltro, non aveva fornito alcuna giustificazione per tale comportamento antieconomico, ma aveva anzi esplicitamente dichiarato che l'unica ragione della anomalia dei conti aziendali si rinveniva in una "strategia infragruppo", laddove però, secondo la ricorrente Agenzia, la nozione di "gruppo" non poteva comunque elidere l'autonomia di ciascuna società.

La questione

La Cassazione rileva anzitutto come nella specie si verteva in una ipotesi di transfer price interno, a cui non è applicabile la disciplina della transfer price internazionale, di cui agli artt. 110, comma 7, d.P.R. 917/1986.

L'art. 110, comma 7,d.P.R. 917/1986 dispone infatti che "i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società, che controlla l'impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva un aumento del reddito; la stessa disposizione di applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito".

Il comma 2 dell'art. 110 cit. prevede poi che "per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi ... si applicano ... le disposizioni dell'art. 9", il quale dispone che "per valore normale ... si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti ... Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso".

Tanto premesso, la Corte evidenzia come i due ambiti, interno ed internazionale, siano del tutto impermeabili tra loro.

E dunque il criterio del "valore normale", di cui all'art. 9, comma 3, del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (nel testo anteriore alla riforma del 2004), non era utilizzabile per determinare i ricavi derivanti da cessioni di beni avvenute tra società del medesimo gruppo aventi tutte sede in Italia.

E questo sia perché quel criterio era dettato dalla legge solo per le cessioni tra una società nazionale ed una estera, e sia perché il suddetto criterio, facendo riferimento ai listini del cedente ed agli "sconti d'uso", presupponeva che la cessione fosse avvenuta in regime di libera concorrenza, verso soggetti estranei al gruppo di appartenenza del cedente (Cass., sez. V, 20 dicembre 2012, n. 23551).

Successivamente però, rileva la Corte, si è ritenuto che le disposizioni di cui all'art. 110 cit. si applicassero anche al transfer price interno e dunque anche alla valutazione, a fini fiscali, delle manovre sul trasferimento dei prezzi tra società facenti parte di uno stesso gruppo ed aventi tutte sede in Italia; secondo tale tesi il principio stabilito dall'art. 9 cit. aveva dunque valore generale, non circoscritto ai soli rapporti internazionali di controllo.

Tale principio, rileva la Corte, avrebbe infatti integrato una clausola antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria, essendo precluso al contribuente conseguire vantaggi fiscali, come lo spostamento dell'imponibile presso le imprese associate, che, nel territorio, godano di esenzioni o minor tassazione, mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (cfr., Cass., sez. 5, 24 luglio 2013, n. 17955, in una fattispecie di ricarico minimo, al 4% invece che al 10,09%, non altrimenti giustificato, nelle cessioni dalla controllante alla controllata, che godeva di agevolazioni per il territorio del Mezzogiorno; e Cass., sez. 5, 13 giugno 2014, n. 13475, con indeducibilità di costi superiori a quelli di mercato per prezzi pagati ad una controllata, così trasferendo ad essa reddito imponibile).

L'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 147/2015 ha poi dettato una norma di interpretazione autentica, in base alla quale "la disposizione di cui all'articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato".

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, le transazioni tra società infragruppo residenti nel territorio nazionale, effettuate ad un prezzo diverso dal "valore normale" indicato dall'art. 9 del TUIR, non sono indice, di per sé, di una condotta elusiva, e non è comunque loro applicabile in via analogica la disciplina del transfer pricing internazionale, recata dall'art. 110, comma 7, del TUIR, ostandovi appunto il citato disposto - di interpretazione autentica - di cui all'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 147/2015.

La nozione di transfer pricing interno è dunque estranea all'ordinamento tributario nazionale (cfr., Cass., sez. V, 25 giugno 2019, n. 16948), dovendosi anche escludere (Cass., sez. V, 16948/2019) la natura antielusiva dell'art. 110, comma 7, TUIR (Cass., sez. V, 29 gennaio 2019, n. 2387; Cass., sez. V, 16 gennaio 2019, n. 898), avendo l'Amministrazione finanziaria (solo) l'onere di provare l'esistenza di transazioni economiche, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, ma non anche quello di dimostrare la maggiore fiscalità nazionale, o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, e spettando invece al contribuente provare che la transazione è avvenuta in conformità ai valori di mercato normali (Cass., sez. V, 16 gennaio 2019, n. 898; Cass., sez. V, 15 aprile 2016, n. 7493; Cass., sez. V, 30 giugno 2016, n. 13387; Cass., sez. V, 15 novembre 2017, n. 27018; Cass., sez. V, 14 novembre 2018, n. 29306; Cass., sez. V, 24 luglio 2015, n. 15642).

In tema di transfer pricing interno, rileva la Cassazione, va semmai valutata l'"antieconomicità" della condotta, in presenza della quale l'Amministrazione finanziaria può procedere ad accertamento analitico-induttivo ai sensi dell'art. 39, comma 1, lettera d, d.P.R. 600/1973, in base al principio per cui chiunque svolga un'attività economica dovrebbe, secondo l'id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti.

In tal caso, lo scostamento dal "valore normale" può assumere quindi rilievo quale parametro meramente indiziario, laddove l'operazione che si pone al di fuori dei prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, tale da poter giustificare, in assenza di elementi contrari, l'accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste.

La Cassazione ricorda del resto che (cfr., Cass., sez. V, 25 giugno 2019, n. 16948), in relazione alle operazioni imprenditoriali di maggiore complessità o inserite in una strategia più generale, è ben possibile che, proprio nella logica del gruppo, siano compiuti da parte delle società dello stesso atti non onerosi, a beneficio delle consorelle o della controllante.

Pertanto la contestazione dell'Agenzia delle Entrate non può tradursi in una mera "non condivisibilità della scelta", perché apparentemente lontana dai canoni di mercato, che equivarrebbe ad un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma deve consistere nella positiva affermazione che l'operazione, sulla base di elementi oggettivi, era inattendibile. Non è quindi del tutto privo di rilievo il contesto di gruppo in cui l'operazione si inserisce, e ciò anche al di là della possibilità di fruire del consolidato fiscale.

Nella specie, la Commissione Tributaria Regionale, con valutazione di fatto secondo la Cassazione condivisibile, aveva dunque ritenuto insussistenti gli elementi indiziari di cui all'art. 39, comma 1, lettera d, d.P.R. 600/1973. In particolare, da un lato, lo sbilancio tra costi e ricavi non integrava, di per sé, una grave incongruenza ai sensi dell'art. 62-sexies d.l. 331/1993, risultando di modesta entità; e, dall'altro, tale sbilancio, come detto, si era verificato per un periodo limitato di tempo.

Con altra valutazione, frutto anch'essa di congrui apprezzamenti di fatto, il giudice di appello aveva poi rilevato che, trattandosi di un medesimo gruppo nazionale, l'acquisto ad un prezzo superiore a quello di mercato "trasferiva" il reddito alla Srl (con dunque, come logica e giuridica conclusione, assenza di ogni danno per l'Erario).

Secondo la Corte, in conclusione entrambe le argomentazioni del giudice di appello erano condivisibili ed esaurienti, sia in relazione alla insussistenza della "grave incongruenza" che potesse consentire l'utilizzo del metodo induttivo, sia, in ordine alla sussistenza di un concreto interesse di gruppo.

I soci della due società, in sostanza, in un'ottica complessiva di interesse di gruppo, avevano inteso cessare la loro attività come società in accomandita semplice, per entrare nel mercato ortofrutticolo con la nuova Srl. Nei primi mesi di attività commerciale erano dunque rimaste in attività entrambe le società, in quanto la Srl non aveva ancora ottenuto le necessarie concessioni per utilizzare i posteggi del mercato.

Era quindi evidente la sussistenza dell'interesse di gruppo.

Osservazioni

Da tempo la giurisprudenza di legittimità ha escluso che la disciplina del transfer pricing internazionale abbia natura antielusiva in senso proprio, in quanto finalizzata, in realtà, alla repressione del fenomeno economico (spostamento d'imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato.

La ratio della normativa, infatti, va rinvenuta nel principio di libera concorrenza, sicché la valutazione in base al valore normale investe la sostanza economica dell'operazione, che va confrontata con analoghe operazioni realizzate in circostanze comparabili in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti (cfr., Cass. n. 7493 del 15/4/2016; Cass. n. 13387 del 30/6/2016; Cass. n. 27018 del 15/11/2017; Cass. n. 898 del 16/01/2019).

La discrepanza rispetto al valore normale, dunque, non può neppure fondare - a maggior ragione - una valutazione di elusività della transazione per le operazioni infragruppo tra società residenti.

La disposizione di cui all'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 147/2015, di interpretazione autentica, come visto, ha del resto ribadito che è preclusa la possibilità di estendere l'applicazione delle regole sul valore normale alle transazioni interne infragruppo e chiarito che il valore normale è una regola particolare, che deroga a quella generale del corrispettivo pattuito solo ove espressamente richiamata.

La questione, secondo i giudici di legittimità, investe invece l'incidenza del valore normale sulla valutazione di antieconomicità e si intreccia con le condizioni per l'accertamento da parte degli uffici finanziari, laddove costituisce principio consolidato che, a fronte di una valutazione di antieconomicità dell'operazione, l'Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere ad accertamento analitico induttivo.

In assenza di uno strumento normativo specificamente diretto a contrastare manovre sui prezzi di trasferimento interno, resta quindi comunque la possibilità di applicare l'art. 109 del TUIR in tema di inerenza, dando anche rilievo all'eventuale antieconomicità delle scelte compiute dalle imprese del gruppo (cfr.Cass., Ord. n. 26646 del 10 novembre 2017).

E, in ogni caso, permane comunque il problema di individuare gli strumenti idonei a contrastare fenomeni di arbitraggio fiscale, che possono essere attuati anche sfruttando la normativa nazionale, o comunque disposizioni fiscali agevolative interne.

E' evidente, del resto, che, nell'ambito interno, i timori dell'Erario di perdere “materia imponibile” sono meno fondati, in quanto, in linea di principio, a fronte di maggiori costi in capo ad una società del gruppo, vi saranno comunque maggiori ricavi in capo alla consociate che dovrebbero comunque scontare tassazione in Italia.

Potrebbe però accadere che i (presunti maggiori) ricavi siano allocati presso un soggetto che gode di un regime fiscale, in senso lato, di vantaggio (o società in perdita), a fronte di (presunti maggiori) costi che maturano in capo ad una società a fiscalità ordinaria.

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