Enti ecclesiastici tra TUIR e Codice del Terzo Settore. Requisiti di non commercialità e obbligo di contabilità separata

24 Giugno 2021

In tema di obbligo di contabilità separata per l'ente no profit i giudici della Corte di Cassazione stabiliscono il principio per cui «il bilancio dell'ente non commerciale può essere redatto con qualsiasi metodo e conformandosi a qualsiasi schema, purchè conforme ai principi della tecnica contabile. Non sussiste, infatti, alcun obbligo di adeguarsi alle disposizioni concernenti la tipologia di bilancio prevista per le società di capitali».
Massima

In tema di obbligo di contabilità separata per l'ente no profit i giudici della Corte di Cassazione stabiliscono il principio per cui «il bilancio dell'ente non commerciale può essere redatto con qualsiasi metodo e conformandosi a qualsiasi schema, purchè conforme ai principi della tecnica contabile. Non sussiste, infatti, alcun obbligo di adeguarsi alle disposizioni concernenti la tipologia di bilancio prevista per le società di capitali».

Il caso

In riferimento alla fattispecie concreta, ripercorrendo in breve l'iter giudiziario della vicenda, la CTR rigettava l'appello proposto da un Istituto ecclesiastico avverso la sentenza della CTP che accoglieva solo parzialmente il ricorso dell'Istituto contribuente contro l'avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle entrate nei suoi confronti (per l'anno 2004) ai fini Ires e Irap, senza però svolgere nessun accertamento per gli anni precedenti.

In aggiunta, il giudice di prime cure riteneva che l'Istituto ricorrente avesse violato le disposizioni in materia di obbligo di contabilità separata per l'attività commerciale svolta da un ente no profit (v., d.P.R. n. 917/1986, art. 144, comma 2).

Il giudice di appello condivideva la sentenza di prime cure, anche in relazione alla concreta omissione del metodo di “partita doppia”; di conseguenza, avverso la sentenza della CTR, l'Istituto ecclesiastico proponeva ricorso per Cassazione.

La questione

I giudici di legittimità, in primis, affrontano la questione relativa alla natura giuridica dell'ente ecclesiastico il quale, costituito e disciplinato dalle norme di Diritto canonico, può ottenere “riconoscimento civile” da parte dello Stato, qualora possieda specifici requisiti quali la «sede in Italia, l'approvazione secondo le norme del diritto canonico, la finalità di religione o di culto» (l'art. 7.2 del Concordato del 1984).

Inoltre, ai sensi dell'art. 7, comma 3 della L. 121/85 «agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fini di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fini di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime».

Di conseguenza, la Corte conferma che l'Istituto ricorrente possieda senza alcun dubbio la personalità giuridica di ente ecclesiastico, in quanto “riconosciuto” prima della modifica del Concordato e, poiché svolge anche attività di natura commerciale, ha l'onere di rispettare la normativa in materia di tenuta delle scritture contabili separate (D.P.R. 13 febbraio 1987, n. 33, art. 8).

La soluzione giuridica

La perdita della natura di ente non commerciale. La deroga per gli enti ecclesiastici

In tema di perdita della qualifica di ente non commerciale, oggetto di uno specifico motivo di ricorso, i giudici richiamano il disposto per cui tale qualifica può essere persa qualora il soggetto giuridico in questione eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d'imposta, indipendentemente dalle previsioni statutarie (v. d.P.R. n. 917 del 1986, art. 149, comma 1).

In aggiunta, occorre ricorrere ad ulteriori parametri, stabiliti ex lege, che rappresentano indici di commercialità dell'attività svolta; mi riferisco alla prevalenza delle immobilizzazioni relative all'attività commerciale, rispetto alle restanti operazioni commerciali; alla prevalenza dei ricavi commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni relative alle attività istituzionali; alla prevalenza dei redditi derivanti da entrate commerciali rispetto alle entrate istituzionali; infine, la prevalenza delle componenti negative relative all'attività commerciale rispetto alle restanti spese.

La norma non contempla, tuttavia, presunzioni assolute di commercialità, ma delinea un percorso logico, anche se non vincolante quanto alle conclusioni, per la qualificazione di ente non commerciale, individuando parametri dei quali deve tenersi conto unitamente ad altri elementi di giudizio. Non è, pertanto, sufficiente il verificarsi di una o più delle condizioni stabilite dal citato art. 149 del TUIR per poter ritenere avvenuto il mutamento di qualifica, ma sarà necessario, in ogni caso, un giudizio complesso, che tenga conto anche di ulteriori elementi, ivi comprese le caratteristiche complessive dell'ente, completamente trascurate dall'organo accertatore (cfr., Circ. Min. n. 124 del 12 maggio 1998; v., anche G. Rivetti, Enti senza scopo di lucro, Giuffrè, 2017, 92 ss.).

Per altro verso, il mutamento di qualifica opera a partire dal periodo d'imposta in cui vengono meno le condizioni che legittimano le agevolazioni e comporta l'obbligo di comprendere tutti i beni facenti parte del patrimonio dell'ente nell'inventario.

Per espressa previsione di legge, le citate disposizioni non si applicano tuttavia, agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti (art. 149, comma 4, norma cit.).

Sul piano sistematico, la citata norma ha inevitabilmente generato due contrapposte tesi in materia: il primo orientamento ritiene che gli enti ecclesiastici non possano mai perdere la qualifica di “enti non profit”, neppure quando svolgono attività commerciale prevalente. D'altro canto si può richiamare anche il fatto per cui il riconoscimento civile come ente ecclesiastico presupponga sempre che il medesimo soggetto giuridico abbia ad oggetto esclusivo o principale un'attività di religione o di culto, che non può mai essere commerciale; sul punto, il legislatore avrebbe dunque, giudicato superfluo aggiungere un controllo fiscale sull'effettiva natura non commerciale di tali enti.

Di contro, la tesi contrapposta – maggiormente condivisibile secondo i giudici di legittimità – sostiene che il citato comma 4 dell'art. 149 Tuir stabilisce una precisa regola per cui non appare sufficiente svolgere attività prevalente per un solo esercizio per perdere la qualifica di “ente non commerciale”, ma è necessario che nel corso dei vari anni di attività l'ente ecclesiastico abbia in realtà svolto in prevalenza attività commerciale.

I giudici, conformandosi al secondo orientamento esprimono dunque il principio per cui «l'art. 149, comma 4, attiene solo al “singolo esercizio” di attività ed impedisce che l'ente ecclesiastico perda la qualifica di “ente non commerciale” se lo “sforamento” dai parametri avvenga in un “singolo esercizio”, ma se tale “sforamento” avviene in più esercizi, allora, la natura di “ente non commerciale” può venire meno».

In merito, si richiama anche la nota Decisione della Commissione Europea del 19 dicembre 2012, in materia di “aiuti di Stato” per cui «gli enti ecclesiastici possono beneficiare del trattamento fiscale riservato agli enti non commerciali soltanto se non hanno per oggetto principale l'esercizio di attività commerciali» e, in ogni caso, «devono conservare la prevalenza dell'attività istituzionale di ispirazione eminentemente idealistica» (parag. 152). Inoltre, «tanto gli enti ecclesiastici quanto le associazioni sportive dilettantistiche possono perdere la qualifica di ente non commerciale» e il correlato trattamento fiscale di favore, se svolgono attività prevalentemente economiche. Pertanto, non risulta sussistere quel sistema di qualifica permanente di ente non commerciale (parag. 158).

In base alle considerazioni esposte, i giudici di legittimità riscontrano una violazione di legge, da parte dei Giudici di merito, per «avere ritenuto esistente, per una sola annualità(2004), una attività commerciale prevalente, tale da poterdeterminare, in capo all'Istituto religioso la perdita della qualifica di “ente non commerciale».

L'obbligo di redazione della contabilità separata

Ulteriore questione affrontata nella sentenza in commento, riguarda l'obbligo di tenuta della contabilità separata richiesto per gli enti no profit che esercitano anche attività commerciale non prevalente (art. 144, comma 2 TUIR).

Al riguardo, tale obbligo risulta funzionale per evitare ogni commistione con l'attività istituzionale e per garantire trasparenza nel bilancio (Cass., sez. 5, 3 luglio 2015, n. 13751). Il legislatore, tuttavia, non impone la concreta predisposizione di due bilanci completi di conto economico e stato patrimoniale, ma «solo la distinzione tra due diverse tipologie di “fatti amministrativi”, ossia quelli collegati all'attività istituzionale e quelli relativi alla porzione di attività commerciale».

Del resto, la stessa Agenzia delle entrate, con risoluzione n. 86/E del 13 marzo 2002, ha affermato che «la tenuta di un unico impianto contabile e di un unico piano dei conti, strutturato in modo da poter individuare in ogni momento le voci destinate all'attività commerciale, non è di ostacolo all'eventuale attività di controllo esercitata dagli organi competenti».

La tenuta di una contabilità separata non prevede, infatti, l'istituzione di un libro contabile separato per ogni attività, essendo sufficiente un piano dei conti non troppo dettagliato nelle singole voci, che permetta di distinguere le diverse movimentazioni relative ad ogni attività.

Questo non esonera, ad esempio, gli enti ecclesiastici di maggiori dimensioni dal ricorrere anche allo schema della “partita doppia”, normalmente utilizzata nella contabilità ordinaria degli enti commerciali. In tal caso, al termine dell'esercizio, dovrà essere redatto il relativo bilancio, formato dal conto economico e dallo stato patrimoniale.

Il Giudice di secondo grado sarebbe quindi incorso in un'ulteriore violazione di legge nell'interpretazione del disposto che prescrive l'«obbligo di doppia contabilità», concependolo come dovere di elaborare due distinti bilanci, per ogni genere di attività svolta. Al contrario, da consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità risulta sufficiente una chiara distinzione tra i fatti amministrativi (monetario-finanziari ed economici) relativi all'attività istituzionale e quelli riguardanti l'attività commerciale (v., ex multis, Cass. civ., Sez. trib., 03 luglio 2015, n. 13751).

La Suprema Corte enuncia, dunque, su questo specifico motivo di ricorso, il seguente principio di diritto: «l'attività istituzionale diretta al fine di religione di culto dell'ente ecclesiastico non ha alcuna rilevanza tributaria e le operazioni non riferibili all'attività commerciale non vanno obbligatoriamente contabilizzate fini fiscali. Si è prospettata la ripartizione delle attività con riferimento alla redazione del bilancio, così che, da un lato, vi sarà un bilancio istituzionale, che riguarda unicamente la vita interna dell'ente e l'esercizio delle attività sue proprie di religione di culto, e dall'altro un bilancio fiscale-commerciale, relativo alle attività di tale natura eventualmente svolte».

Osservazioni

La Suprema Corte conclude poi l'analisi della fattispecie, con un rilevante parallelismo in materia di Terzo settore (nello specifico, D.lgs. 117/2017 – Codice del Terzo Settore/CTS).

In effetti, con l'entrata in vigore del CTS la qualifica di commercialità o meno dell'ente risulta differente rispetto a quella tradizionalmente desumibile dal combinato disposto degli artt. 73 e 149 del Tuir.

L'ETS assume la qualifica di ente commerciale o non commerciale esclusivamente in base al criterio della prevalenza (o meno) delle entrate di natura commerciale, non rilevando dunque il criterio formale, fondato sulla formulazione delle disposizioni statutarie.

D'altro canto, proprio la lettera della norma (art. 79, comma 5, CTS) stabilisce come indipendentemente dalle previsioni statutarie, gli enti di Terzo settore assumano fiscalmente la qualifica di enti commerciali qualora i proventi delle attività di interesse generale (art. 5, norma cit.) svolte in forma d'impresa, nonché le attività diverse (art. 6, norma cit.) superino, nel medesimo periodo d'imposta, le entrate derivanti da attività non commerciali. Ciò comporta che alle tre categorie fiscali individuate dall'art. 73 Tuir, comma 1, (società, enti commerciali diversi dalle società ed enti non commerciali) se ne aggiungono altre due, ossia gli ETS non commerciali ed ETS commerciali.

Sempre in tema di riforma del Terzo settore, in riferimento agli adempimenti connessi alle scritture contabili e al bilancio, il Codice espressamente prevede che gli enti di Terzo settore redigano «il bilancio di esercizio formato dallo stato patrimoniale, dal rendiconto gestionale, con l'indicazione dei proventi e degli oneri dell'ente, e dalla relazione di missione che illustra le poste di bilancio, l'andamento economico e gestionale dell'ente e le modalità di perseguimento delle finalità statutarie. Tuttavia, il bilancio degli enti del Terzo settore con ricavi, rendite, proventi o entrate comunque denominate inferiori a 220.000,00 euro può essere redatto nella forma del rendicontoper cassa» (art. 13, comma 1 e 2). Sul punto, per gli “enti religiosi civilmente riconosciuti” che decidono di costituire un “ramo ETS”, trovano specifica applicazione le norme del CTS limitatamente allo svolgimento delle attività di interesse generale, a condizione che adottino specifico regolamento e costituiscano un patrimonio destinato. Inoltre, in analogia alle richiamate disposizioni del TUIR coerentemente con una prospettiva di trasparenza gestionale, si stabilisce l'obbligo di predisporre scritture contabili separate.

In conclusione, si può rilevare come gli obblighi contabili si ricolleghino ad una disciplina sistematica degli adempimenti, intesa come strumento di trasparenza ed efficienza dell'intera attività gestionale. Del resto, la tenuta delle scritture contabili assume senza dubbio un valore decisivo per la configurazione giuridica dell'ente, in quanto dovrà evidenziare le vicende economiche (prevalenza delle attività istituzionali), unitamente a collegamenti di tipo strumentale tra le attività commerciali e quelle istituzionali. In dettaglio le risultanze contabili dovranno evidenziare l'utilizzazione delle risorse economiche esclusivamente per il perseguimento di finalità di solidarietà sociale (G. Rivetti, op. ult. cit., p. 260; per un approfondimento sul regime fiscale degli enti no profit, alla luce della recente riforma del Terzo settore, v. G. Sepio e F. M. Silvetti, La (non) commercialità degli enti nel nuovo Codice del Terzo Settore, in Il fisco, 38, 2017; A. Mazzullo, Il nuovo Codice del Terzo Settore. Profili civilistici e tributari, Giappichelli Editore, Torino, 2017; V. Ficari, Prime osservazioni sulla ‘fiscalità' degli enti del terzo settore e delle imprese sociali, in Riv. trim. dir. trib., 1, 2018, pagg. 57 e ss.; A. Fici, E. Rossi, G. Sepio, P. Venturi, Dalla parte del Terzo settore. La riforma letta dai suoi protagonisti, Editori Laterza, Bari-Roma, 2019; G.M. Colombo, ETS: enti commerciali o enti non commerciali?, in Enti non profit, 1, 2020, pagg. 23-27; M. Pozzoli, Il bilancio degli enti del Terzo settore, Fondazione Nazionale deiCommercialisti, 2020).

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