L'IVA nelle prestazioni sociali di assistenza legale fornite da avvocati quali “organismi a carattere sociale”

13 Luglio 2021

Con la sentenza del 15 aprile 2021 resa nella causa C-846/19, la Corte di Giustizia UE, chiamata a pronunciarsi sull'interpretazione degli articoli 9, par. 1 e 132, par. 1 lett. g), della Direttiva IVA 2006/112, in relazione alle prestazioni di servizi, di carattere sociale, aventi ad oggetto diversi regimi di protezione, tra cui la curatela e la tutela, rese da avvocati nei riguardi di persone maggiorenni legalmente incapaci ed affette da alterazioni delle facoltà mentali a seguito di malattia, disabilità o senescenza invalidante, ha affermato che le medesime prestazioni costituiscono attività economiche se connesse con l'assistenza e la sicurezza sociale, il cui espletamento è affidato da un'autorità giudiziaria e la cui remunerazione, da cui il prestatore trae redditi a carattere permanente, è stabilita dalla stessa autorità o in modo forfettario o sulla base della situazione finanziaria della persona incapace e può altresì essere sostenuta dal medesimo Stato in caso di indigenza dell'assistito.
Massima

Con la sentenza del 15 aprile 2021 resa nella causa C-846/19, la Corte di Giustizia UE, chiamata a pronunciarsi sull'interpretazione degli articoli 9, par. 1 e 132, par. 1 lett. g), della Direttiva IVA 2006/112, in relazione alle prestazioni di servizi, di carattere sociale, aventi ad oggetto diversi regimi di protezione, tra cui la curatela e la tutela, rese da avvocati nei riguardi di persone maggiorenni legalmente incapaci ed affette da alterazioni delle facoltà mentali a seguito di malattia, disabilità o senescenza invalidante, ha affermato che le medesime prestazioni costituiscono attività economiche se connesse con l'assistenza e la sicurezza sociale, il cui espletamento è affidato da un'autorità giudiziaria e la cui remunerazione, da cui il prestatore trae redditi a carattere permanente, è stabilita dalla stessa autorità o in modo forfettario o sulla base della situazione finanziaria della persona incapace e può altresì essere sostenuta dal medesimo Stato in caso di indigenza dell'assistito.

La Corte, inoltre, ha affermato che, in ossequio al principio di neutralità fiscale, non può escludersi a priori, in capo all'avvocato, il riconoscimento quale organismo avente carattere sociale per la sola appartenenza ad una determinata categoria professionale senza aver indagato circa la stabilità e prevalenza dell'impegno sociale profuso ed a prescindere dalla “forma” dell'attività resa.

Il caso

Il caso nasce da una contestazione del Fisco lussemburghese nei confronti di un avvocato che svolgeva attività di rappresentanza legale di maggiorenni quale mandatario, curatore ed amministratore tutelare, al quale il Fisco richiedeva l'IVA ritenendo che le prestazioni di servizi fossero imponibili sia in quanto attività economiche che generavano per il professionista redditi stabili sia perché rese da un soggetto persona fisica che non rivestiva la qualità di organismo a carattere sociale di cui all'art. 132 lett. g) della Direttiva IVA.

Per la legge lussemburghese le attività di tutela possono essere soddisfatte mediante diversi regimi di protezione, tra cui la curatela e la tutela, che consentono di consigliare, controllare o rappresentare tali persone negli atti della vita civile e che attribuiscono poteri di gestione e di rappresentanza a terzi, nominati da parte del giudice tutelare, tra i quali possono rientrare anche gli avvocati.

A ciò si aggiunge, riferisce il giudice del rinvio, che la remunerazione dell'avvocato viene stabilita dal tribunale competente o in maniera forfettaria o sulla base di una valutazione della situazione finanziaria della persona incapace/beneficiario, oltre a poter essere presa in carico dallo Stato in caso di indigenza di quest'ultimo, non è determinata in anticipo e non garantisce necessariamente in tutte le circostanze la copertura dei costi sostenuti da tale prestatore.

La Corte UE, correttamente, al fine di poter esentare le prestazioni sociali dell'avvocato come riferite dal giudice del rinvio, verifica innanzitutto se l'attività possa rientrare nel novero delle operazioni a titolo oneroso, in quanto presupposto per poter eventualmente beneficiare del regime derogatorio esentativo posto, tra l'altro, ad unico vantaggio del fruitore finale.

La Corte, quindi, indaga sulla possibilità di “collocare” le prestazioni di servizi in oggetto nella nozione di «attività economiche», ai sensi dell'articolo 9, par. 1, comma 2, della Direttiva IVA, interrogandosi circa la sussistenza di quel nesso diretto, ai fini dell'imponibilità IVA, tra le prestazioni di servizi, fornite nell'ambito di un rapporto triangolare in cui il prestatore riceve l'incarico da parte di un ente che non coincide con il beneficiario, e le remunerazioni ottenute.

Così la Corte premette (punto 36) che la possibilità di qualificare una prestazione di servizi come operazione a titolo oneroso presuppone unicamente l'esistenza di un nesso diretto tra tale prestazione e un corrispettivo effettivamente percepito dal soggetto passivo, la cui esistenza viene in rilievo qualora tra il prestatore ed il destinatario intercorra un rapporto giuridico nell'ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni e il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio prestato al destinatario (richiama C‑410/14, punto 32).

Per individuare le operazioni attratte nel campo IVA, non essendo presente nella Direttiva IVA un'espressa definizione del concetto di onerosità, è necessario riferirsi ed indagare in merito al concetto di corrispettività di cui all'art. 73 della Direttiva, come interpretato nel tempo dalla giurisprudenza della CGUE.

Si riferisce, brevemente, che i concetti di onerosità e di corrispettività non sono sinonimi, dal momento che i primi qualificano per esclusione i negozi giuridici non a titolo gratuito, mentre i secondi evidenziano la presenza di un nesso sinallagmatico tra le prestazioni rese e ricevute, ben potendosi osservare l'esistenza di operazioni “onerose” che mancano di corrispettivo, e di prestazioni sinallagmatiche prive di onerosità.

Un esempio lo si rintraccia nel precedente della CGUE Goldsmiths (causa C-330/95), in cui alla società “ricorrente”, destinataria di una prestazione di servizi pubblicitari “pagati” alla sua controparte non in danaro ma a mezzo di diamanti, ed a seguito della prestazione parziale resa dalla società pubblicitaria nel frattempo messa in liquidazione, veniva disconosciuto il diritto di operare la rettifica della propria dichiarazione IVA con conseguente istanza di rimborso per la natura “liquida” del pagamento. La Corte, in applicazione dell'art. 11 della Sesta Direttiva, correttamente deduceva nel senso di sostenere le “ragioni” della Goldsmiths circa l'equivalenza del pagamento in natura a quello in danaro a causa dell'assenza di una differenziazione, nella norma UE, tra corrispettivo in denaro ed in natura oltreché sull'identità, dal punto di vista economico e commerciale, tra le due fattispecie.

La Corte Ue nel tempo (v. tra i tanti C-154/80, C-230/87, C-126/88, C-333/91, C-16/93, C-38/93, C-33/93, C-288/94, C-306/94, C-80/95, C-330/95, C-49/97, C-260/98, C-498/99, C-174/00, C-442/01, C-305/01, C-434/05, C-37/08, C-246/08, C-267/08, C-53/09, C-55/09, C-93/10 C-549/11, C-283/12, C-151/13, C-174/14, C-463/14, C-520/14, C-11/15, C-263/15, C-37/16, C-295/17) ha evidenziato, per poter configurare una prestazione di servizi rilevante ai fini IVA, la necessaria esistenza di un rapporto giuridico obbligatorio minimo, una corrispettività, intesa quale interdipendenza giuridica tra le prestazioni, un nesso di causalità che lega reciprocamente le due controprestazioni, in assenza del quale non viene in evidenza quel concetto di “scambio”, sempre ricercato dalla Corte UE, bensì una semplice coesistenza di prestazioni tra loro slegate, che di fatto privano l'operazione di quei caratteri richiesti dalla CGUE ai fini dell'imponibilità IVA.

In merito alla ricerca della natura dello “scambio”, attenta dottrina (P. Filippi, I profili oggettivi del presupposto dell'Iva, in Dir. e prat. trib., 2009, 6, secondo la quale la presenza del sinallagma do aut facio ut des aut facias è fondamentale per ricondurre tra le operazioni imponibili le operazioni di servizi) ha evidenziato che “in relazione al rapporto tra il modello interno e quello eurounitario, si pone il problema di dover costruire un modello giuridico (e nazionale) di tributo – che tra diritto civile e categorie fiscali deve per forza mediare – derivandolo però da un modello (quello comunitario) che è pensato per soddisfare finalità economiche. … Se, come già osservato, nella qualificazione di cessioni non rileva l'atto, ma l'effetto giuridico traslativo, nella definizione delle prestazioni è essenziale il riferimento ai contratti ed allo schema negoziale dello scambio (cessione di credito, di contratto, verso corrispettivo)”.

Di tal modo la Corte UE, alla sfuggente contrapposizione tra “onerosità” e “gratuità”, predilige le meno ambivalenti nozioni di “scambio” e “vantaggio”, orientando la ricerca di quel rapporto sinallagmatico lungo le tre “direttrici” a) del nesso diretto ovvero del legame causale tra le due controprestazioni, b) della possibilità di poter esprimere in danaro la controprestazione ricevuta e c) della possibilità di attribuzione, alla prestazione ricevuta, di un valore soggettivo, in quanto l'imponibile rappresenta il corrispettivo realmente ricevuto, non già un valore stimato secondo criteri obiettivi.

Come più sopra accennato, la Corte UE ha indagato la presenza del sinallagma in numerosi casi, tra i quali si può ricordare, ad esempio, quello affrontato nel famoso precedente sul caso Tolsma (C-16/93) in cui la Corte fu chiamata a verificare circa l'imponibilità ad IVA dell'attività di un suonatore ambulante di strada, concludendo circa l'assenza di alcun nesso reciproco tra le due “prestazioni” (esibizione compositiva e libera offerta in danaro dei passanti), sia per l'assenza di un valore soggettivo dato all'offerta di danaro al suonatore da parte del passante (valore indecifrabile e casuale) sia per l'assenza di un nesso diretto di causalità (pago per cui ho diritto ad ascoltare un brano musicale ovvero suono perché mi stanno pagando per farlo).

Di rilievo, al riguardo, le conclusioni dell'Avvocato generale nella causa Tolsma, contenute al punto 14, ove si legge che “… Deve sussistere una connessione diretta tra il servizio prestato (nella specie, l'attività musicale) ed il controvalore ricevuto (nella specie, le oblazioni dei passanti). Tale connessione deve atteggiarsi in modo tale da potersi riscontrare un rapporto tra l'entità dei vantaggi arrecati ai destinatari del servizio prestato e l'entità del relativo corrispettivo”.

Nella sentenza in commento la Corte, interrogata altresì sull'esistenza del nesso di corrispettività qualora, in caso di indigenza dei beneficiari delle prestazioni di servizi, la remunerazione del prestatore sia presa in carico dallo Stato, ha ribadito (v. C‑151/13, punto 34 ed anche C-53/09, punto 56) che, perché una prestazione di servizi possa dirsi effettuata «a titolo oneroso» ai sensi della Direttiva IVA, non occorre, come emerge anche dall'articolo 73 della Direttiva, che il corrispettivo di tale prestazione sia versato direttamente dal destinatario di quest'ultima, potendo il corrispettivo essere altresì versato da un terzo, circostanza, questa, che non è sufficiente ad interrompere il nesso diretto esistente tra la prestazione di servizi effettuata ed il corrispettivo ricevuto.

Un ulteriore aspetto analizzato dalla Corte nel caso in commento, al fine di poter ricondurre le prestazioni di servizi dell'avvocato nell'alveo delle attività economiche di cui all'art. 9 della Direttiva IVA, attiene alle modalità di remunerazione delle prestazioni rese, fissate sulla base di una valutazione caso per caso, che tiene conto della situazione finanziaria della persona incapace, da parte dell'autorità giudiziaria competente su richiesta del prestatore, il quale deve rendere conto delle sue operazioni regolarmente a tale autorità e dalla quale riceve di fatto una somma mensile forfettaria più eventualmente un'altra a titolo di prestazioni supplementari.

La retribuzione così concessa non corrisponde necessariamente, quindi, al valore reale della prestazione fornita.

La Corte ritiene che le modalità di remunerazione siano irrilevanti rispetto alla qualificazione di operazione a titolo oneroso, non potendo quelle compromettere il nesso diretto esistente tra le prestazioni di servizi effettuate o da effettuare ed il corrispettivo ricevuto o da ricevere, il cui importo è stabilito in anticipo e secondo criteri chiaramente individuati, contraddicendo, probabilmente, quanto altrove sostenuto.

Al riguardo ci si riferisce al caso affrontato nella causa C-246/08 (per casi simili v. anche C-154/80, C-102/86, C‑174/00, C-463/14, C-11/15, C-263/15, C-295/17) in cui si discuteva dell'assoggettabilità ad IVA dei servizi di assistenza legale forniti dagli uffici pubblici di quello Stato nell'ambito di procedimenti giudiziari dietro pagamento di un compenso parziale, che non copriva l'intero importo degli onorari previsti per legge, parametrato non già alla “qualità” del servizio pubblico reso al cittadino (in termini di ore effettivamente lavorate e di complessità delle questioni), bensì alla capacità reddituale del richiedente, di modo da rendere il compenso sì forfettario ma ancorato a parametri non più soggettivi bensì esterni (esogeni appunto), con conseguente esenzione da imposta.

La Corte, nel caso in commento, ha concluso nel senso di qualificare come economica e quindi imponibile ad IVA l'attività dell'avvocato remunerata con le modalità sopra riferite, rilevando che lacircostanza che l'attività di cui trattasi consista nell'esercizio di funzioni conferite e regolamentate dalla legge, per uno scopo di interesse generale, è irrilevante per valutare se tale attività costituisca prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso.

La questione

Carattere sociale dell'attività svolta dall'avvocato e nozione di organismo a carattere sociale

Nel prosieguo della sentenza la Corte verifica se le prestazioni multiple di “assistenza sociale”, rese dal professionista, possano costituire prestazioni “strettamente connesse con l'assistenza e la previdenza sociale” e se, tale soggetto, possa beneficiare di un riconoscimento quale “organismo a carattere sociale”.

La Corte ribadisce (v. C‑141/00 punto 44) che in assenza, nella Direttiva IVA, di una definizione di “organismo a carattere sociale”, il perimetro dell'esenzione va individuato volta per volta ed, al riguardo, richiama le conclusioni dell'Avvocato generale (punti da 52 a 57) il quale prende in considerazione il contenuto concreto di tali attività che consistono in:

  1. visita agli assistiti al loro domicilio per assicurarsi del loro benessere e per conoscere i loro bisogni;
  2. contatti con la famiglia, gli assistenti sociali, il personale che somministra le cure;
  3. scelta del luogo in cui vivere;
  4. richieste di pensioni, aiuti sociali;
  5. attuazione di aiuti domiciliari;
  6. pagamento di fatture, ottenimento di rimborsi di spese mediche, dichiarazione dei redditi, consegna del denaro per le spese quotidiane.

A queste, riferisce l'Avvocato generale, possono aggiungersi anche altre prestazioni aventi carattere legale, senza tuttavia che queste siano riservate unicamente agli avvocati: negoziazione, firma o risoluzione di un contratto di locazione, vendita di beni mobili o immobili, assistenza o rappresentanza dell'adulto nella successione, oltre a servizi che rientrano nelle competenze esclusive degli avvocati, come la rappresentanza dell'incapace in controversie legali, che sono però numericamente inferiori. L'Avvocato generale conclude nel senso di escludere l'esenzione per le attività ordinarie legali riconoscendo però che la prevalenza significativa di attività assistenziali possa qualificare la natura stessa del soggetto che eroga le prestazioni, connotando la sua attività come stabilmente impegnata nel sociale e, dunque, meritevole del riconoscimento in tal senso, limitando l'esenzione IVA alle prestazioni diverse da quelle strettamente legali, non potendo l'esenzione essere esclusa per il solo fatto che si tratti di avvocati.

In merito alla veste giuridica dei soggetti che possono beneficiare della qualifica di organismo sociale, è chiarificatore il passaggio della Corte Ue (C-216/97 punti 17-21) nel quale si afferma che “i termini «istituto» e «organismo» sono in via di principio sufficientemente ampi da includere anche le persone fisiche. Del resto nessuna delle versioni linguistiche della sesta Direttiva reca l'espressione «persona giuridica», che sarebbe stata chiara e priva di ambiguità. Questa circostanza depone in favore del fatto che, utilizzando questi ultimi, il legislatore comunitario non aveva l'intenzione di limitare il beneficio delle esenzioni previste dalla detta norma alle sole operazioni effettuate da persone giuridiche, bensì ha inteso estendere l'ambito d'applicazione di tali esenzioni alle operazioni effettuate dai singoli”.

Quanto poi al “riconoscimento formale” dell'ente, la Corte UE (C-45/01 punto 74) chiarisce che la Direttiva non presuppone un procedimento formale di riconoscimento che non deve necessariamente risultare da disposizioni nazionali in materia fiscale, le quali, qualora contengano limitazioni che vanno oltre i limiti del potere discrezionale attribuito agli Stati membri dalla Direttiva (art. 132), consentono al giudice nazionale di decidere, tenuto conto del complesso degli elementi pertinenti, se un soggetto passivo debba comunque essere considerato alla stregua di altro istituto della stessa natura debitamente riconosciuto.

Ciò è altresì conforme, sostiene la Corte, al principio di neutralità fiscale, il quale sarebbe infranto ove la possibilità di invocare l'esenzione prevista per le operazioni effettuate dagli organismi dipendesse dalla forma giuridica mediante la quale il soggetto passivo svolge la propria attività.

Come osservato (F. Montanari, in Le operazioni esenti nel sistema dell'Iva, Torino, 2012, 186) mal si comprende come una interpretazione restrittiva possa giustificare la negazione di un'agevolazione tributaria nei confronti del fruitore del servizio laddove, al tempo stesso, l'ente erogatore non beneficia di alcun regime di favore, risultandone, al contrario, fortemente penalizzato, e ciò a causa dell'indetraibilità dell'IVA sui beni/servizi acquistati.

La Corte, pur riconoscendo (punti 63-65) il carattere assistenziale delle prestazioni sociali in oggetto, esclude che tali servizi possano godere dell'esenzione a causa della sola “natura” del prestatore (v. C-492/08 punto 46 secondo cui la categoria professionale degli avvocati in generale non può essere considerata nel senso che essa presenti un carattere sociale) e ciò anche in ossequio al principio di neutralità fiscale, che trova qui espressione specifica nell'articolo 134, lett. b), della Direttiva IVA, il quale osta a che prestazioni di servizi di uno stesso tipo, che si trovano in concorrenza tra loro, siano trattate in maniera diversa sotto il profilo dell'IVA (v. C‑699/15 punto 35). Tale principio sarebbe violato se i prestatori in questione fossero incaricati sia di funzioni “sociali” sia anche di quelle “legali”.

Circa l'esenzione IVA delle professioni legali, la Corte sia era già espressa, oltre che nel caso C-246/08 su riportato, anche nel precedente C-543/14, nel quale, interrogata circa la possibile violazione del principio di parità delle armi nel caso in cui un committente non soggetto passivo, che non beneficia del gratuito patrocinio e non ha la possibilità di detrarre l'IVA assolta sulle prestazioni rese dagli avvocati a differenza di colui che riveste la qualità di soggetto passivo, ha concluso nel senso di escludere l'obbligo di porre le prestazioni su un piano di parità, riguardo ai costi finanziari sopportati nell'ambito della procedura giudiziaria e, sebbene l'assoggettamento ad IVA ed il diritto a detrazione siano atti a conferire, a parità di importo dell'onorario, un vantaggio pecuniario all'individuo con qualità di soggetto passivo, tale vantaggio non è comunque in grado di pregiudicare l'equilibrio processuale delle parti.

Prosegue la Corte ribadendo (C‑335/14, punti 32 e 34) che spetta, in linea di principio, al diritto nazionale di ciascuno Stato membro sancire le norme in base alle quali concedere il riconoscimento del carattere sociale degli organismi diversi da quelli di diritto pubblico, posto a tal fine un potere discrezionale in capo agli stessi, la cui violazione determina il diritto del soggetto passivo di invocare l'esenzione prevista all'articolo 132, par. 1, lettera g), al fine di opporsi ad una normativa nazionale incompatibile con tale disposizione.

In tali casi spetta al giudice nazionale determinare, alla luce di tutti gli elementi pertinenti, se il soggetto passivo possa essere riconosciuto come organismo avente carattere sociale, ai sensi della citata disposizione (v. C‑174/11 punti 28 e 32, C-498/03, C-45/01, C-262/08).

La soluzione giuridica

Il fine di lucro e la compatibilità con l'attività assistenziale/legale

Dopo aver chiarito la possibile qualificazione di ente sociale anche in capo alle persone fisiche, la Corte ricorda (v. C‑216/97, punti 17 e 18; C‑492/08, punti 36 e 37; C‑174/11, punto 57) che il perseguimento di uno scopo di lucro, da parte del prestatore persona fisica, non è dirimente ai fini del suo riconoscimento come ente a carattere sociale, dal momento che tale nozione è in via di principio sufficientemente ampia per comprendere anche “organismi privati” che perseguono uno scopo di lucro, ivi comprese le persone fisiche che esercitano un'impresa, nei limiti in cui si tratta di enti individualizzati che compiono una determinata funzione (v. C-144/00 e C-498/03).

Se infatti la categoria professionale degli avvocati non ha funzione prettamente “sociale”, non può escludersi, a detta della Corte UE, che un avvocato fornisca prestazioni di servizi strettamente connesse con l'assistenza e la previdenza sociale dando prova di un impegno sociale stabile, dal momento che la semplice qualità di avvocato del prestatore sarebbe un elemento puramente formale non idoneo a rimettere in discussione il carattere sociale della sua impresa.

Il nucleo della questione risiede, quindi, nel riuscire a delimitare l'effettività dell'attività assistenziale, in quanto a stabilità e prevalenza rispetto a quella eventualmente economica, ed a prescindere dal perseguimento di un lucro oggettivo, dal momento che per la Corte Ue è necessario “tenere conto degli obiettivi perseguiti da detti soggetti considerati globalmente e della stabilità dell'impegno sociale di questi” (C-492/08 punto 45).

Così ad esempio, nella sentenza da ultimo citata, era stata disconosciuta la qualifica di organismo sociale, a causa della mancanza di “stabilità” dell'impegno sociale, ad un avvocato che forniva servizi di gratuito patrocinio nella sua attività professionale.

Al riguardo significativo appare il passaggio della Corte UE nel caso C-174/00 (punto 28) secondo cui “il fatto che un'organizzazione realizzi del pari profitti, anche se da essa perseguiti o prodotti sistematicamente, non può porre in discussione la qualificazione iniziale di tale organizzazione fintanto che tali profitti non siano distribuiti come utili ai soci dell'organizzazione stessa. La Direttiva non impedisce alle organizzazioni considerate da questa disposizione di chiudere il loro esercizio con un saldo attivo. Altrimenti organizzazioni del genere sarebbero impossibilitate a creare riserve destinate a pagare la manutenzione ed i futuri miglioramenti dei loro impianti”.

In relazione al lucro oggettivo è, quindi, la “destinazione finale” del reddito prodotto, prescindendo dall'aspetto formale dell'organismo assistenziale, ad orientare la concessione del regime derogatorio di esenzione da imposta.

Osservazioni

Come attentamente osservato (F. Montanari, in Le operazioni esenti nel sistema dell'Iva, Torino, 2012, 136), un organismo può certamente essere qualificato come a carattere sociale, al di là di un riconoscimento formale, nelle ipotesi in cui, pur essendo caratterizzato dal fine di lucro, cioè dalla ricerca del profitto, anche sistematica, i risultati dell'attività da esso svolta siano destinati, funzionalmente, al perseguimento della finalità sociale. Secondo l'autore, la nozione di organismo a carattere sociale implica una “totale dedizione” all'attività sociale, che deve essere preminente rispetto ad una carente di tale caratteristica (altra dottrina, a ragione, focalizza l'attenzione sulla finalità ultima perseguita dall'ente o società, intesa come destinazione filantropica e sociale della ricchezza prodotta o raccolta – v. A. Giovannini, Impresa commerciale e lucro nelle imposte dirette e nell'IVA, Riv. dir. trib., 2012, I, pag. 485).

La “finalità sociale del lucro” è, del resto, la chiave per disattivare l'applicazione dell'art. 134 della Direttiva IVA che obbliga gli Stati ad escludere il beneficio dell'esenzione IVA qualora le operazioni:

  • non sono indispensabili all'espletamento delle operazioni esentate e
  • sono essenzialmente destinate a procurare all'ente o all'organismo entrate supplementari mediante la realizzazione di operazioni effettuate in concorrenza diretta con quelle di imprese commerciali soggette all'IVA.

In tal modo anche le entrate supplementari devono, de plano, rispondere alle stesse condizioni di reimmissione nella gestione sociale senza essere distribuite ai soci.

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