Prova dell’amministrazione di fatto e regime sanzionatorio per gli illeciti tributari commessi
23 Luglio 2021
Massima
È “amministratore di fatto” colui che esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione, sebbene significatività e continuità non comportino necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedano l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale.
Ai fini della prova dell'esercizio dell'amministrazione di fatto, l'utilizzabilità dei contenuti delle conversazioni effettuate tramite il servizio di messaggistica “WhatsApp” è condizionata alla avvenuta acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione, onde poter verificare l'affidabilità, la provenienza e l'attendibilità del contenuto di dette conversazioni.
Il principio introdotto dall'art. 7 d.l. 269/2003, conv. in l. n. 326/2003, secondo cui le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica, presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell'interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata anche di fatto; diversamente, qualora risulti che il rappresentante o l'amministratore, anche di fatto, della società abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l'ente quale schermo per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio, viene meno la ratio che giustifica l'applicazione dell'art. 7 d.l. 269/2003 e deve essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell'illecito.
Il caso
A seguito di declaratoria di fallimento, l'Amministrazione Finanziaria provvedeva al recupero dell'imposta sul valore aggiunto ritenuta evasa dalla società fallita, notificando il relativo avviso di accertamento sia alla Curatela, sia, per quanto concerne le irrogate sanzioni, al soggetto ritenuto amministratore di fatto della predetta compagine sociale.
A seguito di impugnazione proposta da tale soggetto, il Giudice Tributario annullava l'avviso di accertamento, affermando, da un lato, l'inutilizzabilità delle risultanze istruttorie comprovanti – secondo la prospettazione offerta dal Pubblico Ufficio – il concreto esercizio dell'amministrazione di fatto e, dall'altro lato, che, quand'anche ritenute utilizzabili, dette risultanze altro non proverebbero se non un “un rapporto di procacciatore di affari tra il Ricorrente e la Società, non certo un'influenza completa e dominante nella sua gestione” [così, letteralmente, è dato leggersi nella pronuncia qui in commento].
Non solo. Ma nell'annullare l'impugnato atto di imposta, il Giudice Tributario ha avuto modo di precisare che, anche laddove fosse stata data prova della amministrazione di fatto, a detta dimostrazione non avrebbe potuto conseguire, in capo al ritenuto amministratore di fatto, alcuna responsabilità per le sanzioni irrogate alla società, stante il disposto dell'art. 7 d.l. 269/2003. Le questioni
Sono molteplici le tematiche affrontate dal pronunciamento in rassegna, il quale, muovendo dalla definizione della c.d. “amministrazione di fatto”, ne ha approfondito due peculiari profili. Il primo attinente la prova, in giudizio, dell'essere la compagine sociale amministrata e gestita da soggetto diverso da quello formalmente investito di tali poteri. Il secondo concernente la peculiare disciplina introdotta dall'art. dell'art. 7 d.l. 269/2003. Le soluzioni giuridiche
Nel definire il c.d. “amministratore di fatto” utili indicazioni possono essere tratte dall'art. 2639 c.c., norma che – equiparando, al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile, il soggetto che esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione – è da intendersi, pur se inserita nell'ambito dei c.d. “reati societari”, come codificazione di un principio generale dell'ordinamento e come tale certamente applicabile anche alla materia tributaria [ed a quella penal-tributaria: in tal senso, si vedano, tra le tante, Cass. Pen., Sez.III, 15.07.2019, n. 42147 e Cass. Pen., Sez. III, 27.11.2013, n. 47110, la quale, in motivazione, ha specificato che «in base al d.P.R. n. 322/1998, art. 1,, comma 4 la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta a pena di nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l'amministrazione anche di fatto, o da un rappresentante negoziale»] ed anche, avendo natura interpretativa, rispetto a fatti pregressi alla sua positivizzazione [in tal senso, Cass. Pen., Sez. III, 28.04.2011, n. 24811 e Cass. Pen., Sez.V, 11.01.2008, n.7203].
Secondo la giurisprudenza di legittimità, richiamata, invero, anche nella pronuncia qui in commento, ai fini della attribuzione ad un soggetto della qualifica di “amministratore di fatto”, è necessaria la «sussistenza di un effettivo potere di gestione della società» [Cass. Pen., Sez. III, 19.12.2014, n. 22108, RV 264009; in senso conforme, Cass. Pen., Sez. III, 19.12.2014, n. 22108, la quale, in motivazione, ha chiarito che «la titolarità della maggioranza, anche se pressoché totalitaria, del capitale sociale non può di per sé essere equiparata all'amministrazione di fatto»], il quale«deve estrinsecarsi nell'esercizio concreto e con un minimo di continuità delle funzioni proprie degli amministratori o una di esse, coordinata con le altre» [Cass. Pen., Sez. III, 09.10.2019, n.50009; in senso conforme, Cass. Pen., Sez. III, 19.12.2014, n. 22108, RV 264009].
Pertanto, il c.d. “amministratore di fatto” non è colui che si ingerisce «comunque, genericamente o “una tantum”, nell'attività sociale» [Cass. Pen., Sez. III, 19.12.2014, n. 22108, RV 264009], bensì colui che esercita «in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione» [Cass. Pen., Sez. III, 20.01.2017, n.31906], fermo restando che «significatività e continuità non comportano necessariamente l'esercizio di "tutti" i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale» [Cass. Pen., Sez. III, 19.12.2014, n. 22108, RV 264009; in senso conforme, tra le tante, Cass. Pen., Sez. III, 15.07.2019, n. 42147].
Se, quindi, la qualifica di “amministratore di fatto” non postula la completezza della gestione societaria, deve per conseguenza ritenersi che, allorquando anche il rappresentante legale svolga talune funzioni gestionali [o comunque non ne sia provata la sua estraneità], la c.d. “amministrazione di fatto” è configurabile solo con riguardo a quelle singole e specifiche attività estranee alla gestione legale e dal medesimo “amministratore di fatto” concretamente poste in essere, «non potendosi addebitargli di non aver compiuto atti spettanti all'amministratore di diritto nei quali non aveva alcun obbligo di ingerirsi» [G. Soana, I reati tributari, 2018, pag. 47, secondo il quale, in tali casi, può configurarsi, secondo i principi generali, il concorso dell'extraneus nel reato proprio laddove si giunga a provare l'apporto causale fornito alla condotta illecita dell'amministratore legale].
Laddove poi l'amministrazione di fatto abbia ad oggetto una società “schermo”, ovverosia una società priva di una reale autonomia e costituita per essere utilizzata in un meccanismo fraudolento, la prova della posizione di “amministratore di fatto” si traduce in quella del ruolo di dominus ed ideatore del suddetto sistema fraudolento, «atteso che non è ipotizzabile l'accertamento di elementi sintomatici di un inserimento organico (quali quelli attinenti ai rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale) all'interno di un ente esistente solo da un punto di vista giuridico» [Cass. Pen., Sez.V, 16.03.2018, n. 32398, RV. 273821]: pur se formulato in tema di reati fallimentari, l'assunto è certamente valido anche in relazione ai reati tributari, giacché «non solo per i reati tributari non sono previste regole specifiche, ostative a tale soluzione, ma il fenomeno dell'ente “schermo” si presenta in termini omogenei sia per i delitti di cui al d.lgs. n. 74/2000, sia per quelli di bancarotta: in entrambe le ipotesi, la società “schermo” o fittizia viene in rilievo come mero strumento giuridico, privo di reale consistenza e struttura, e, quindi, in genere, come ente sprovvisto di personale e di apprezzabili strutture materiali» [Cass. Pen., Sez. III, 15.07.2019, n. 42147, la quale ha altresì precisato come «la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce in un accertamento costituente oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione»; in senso conforme, tra le tante, Cass. Pen., Sez.V, 28.11.2016, n. 8479, RV 269101; Cass. Pen., Sez. V, 03.04.2013, n. 35249].
(Segue). La prova dell'amministratore di fatto
Definita nei termini anzidetti la c.d. “amministrazione di fatto”, l'accertamento dell'esercizio continuativo e significativo dei poteri inerenti la funzione di gestione della società è giudizio che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, «si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti, ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare» [Cass. Pen., Sez. V,24.04.2020, n. 12912]. Muovendo da tali premesse, sono stati ritenuti elementi indizianti l'amministrazione di fatto: il conferimento di deleghe, in favore del soggetto ritenuto amministratore di fatto, in fondamentali settori dell'attività di impresa [in tal senso, Cass. Pen., Sez. V, 25.11.2020, n.33114]; la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria [Cass. Pen., Sez. V, 12.11.2020, n. 31802]; la costante assenza dell'amministratore di diritto e la sua mancata da parte dei dipendenti [Cass. Pen., Sez. V, 17.06.2016, n. 41793]; il conferimento di una procura generale ad negotia, vieppiù se attributiva di autonomi e ampi poteri contrattuali [Cass. Pen., Sez. V 08.05.2018, n. 27163; in senso conforme Cassazione Penale, Sez. V, 17.06.2016, n. 41793, RV 26827].
Ci si è interrogati, in tempi recenti, se i predetti elementi sintomatici possano essere desunti dal contenuto di conversazioni effettuate tramite il servizio di messaggistica “WhatsApp” e, con motivazione ineccepibile, il Giudice Penale di Legittimità ha precisato che, per quanto la registrazione di tali conversazioni, operata da uno degli interlocutori, costituisca una forma di memorizzazione di un fatto storico [della quale può certamente disporsi ai fini probatori, trattandosi di una prova documentale (per vero, l'art. 234 comma 1 c.p.p. prevede espressamente la possibilità di acquisire documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo)], la sua utilizzabilità è tuttavia condizionata all'acquisizione del supporto – telematico o figurativo – contenente la menzionata registrazione: se, infatti, la trascrizione della conversazione effettuata via messaggio svolge una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale, rispetto ad essa sussiste l'imprescindibile necessità di controllarne l'affidabilità, mediante l'esame diretto del supporto, onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni sia l'attendibilità di quanto da esse documentato [in tal senso, Cass. Pen. Sez. V, 25. 10.2017, n. 49016]. E proprio dando seguito a detti arresti, il Giudice Tributario, con la sentenza qui in commento, ha ritenuto inutilizzabili, “in carenza di una loro verificata e dimostrata genuinità” [così, letteralmente, è dato leggersi nella pronuncia qui in commento], i messaggi [del tipo “i message”] prodotti dall'Amministrazione Finanziaria a dimostrazione delle funzioni gestorie di fatto svolte dal ricorrente ed ha quindi disposto l'annullamento dell'impugnato atto di imposta, precisando peraltro che, quand'anche ritenuti utilizzabili, gli anzidetti messaggi avrebbero, al più, dimostrato “un rapporto di procacciatore di affari tra il Ricorrente e la Società, non certo un'influenza completa e dominante nella sua gestione” [così, letteralmente, è dato leggersi nella pronuncia qui in commento].
(Segue). La disciplina dettata dall'art. 7 d.l. 269/2003 Ribadita l'inutilizzabilità delle conversazioni effettuate tramite il servizio di messaggistica “wathsapp”, il Giudice Tributario ha avuto modo di precisare che all'accertamento della c.d. “amministrazione di fatto”, quand'anche debitamente provata, non avrebbe potuto comunque conseguire, in capo al ritenuto “amministratore di fatto”, alcuna responsabilità solidale per le sanzioni irrogate alla società, ostandovi il disposto dell'art. 7 d.l. 269/2003. Anche detta conclusione risulta conforme all'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, a detta della quale:
Osservazioni
Come detto, conformandosi alla illustrata esegesi, il Giudice Tributario, nella sentenza qui in commento, ha ritenuto che quand'anche fosse stata data legittima prova della amministrazione di fatto, cionondimeno alcuna sanzione avrebbe potuto essere irrogata nei confronti dell'amministratore di fatto, ostandovi il disposto dell''art. 7 d.l. 269/2003 ed esulando quindi dai fatti di causa l'ipotesi della c.d. “società schermo”, artificiosamente costituita. |