Modifica nella frequentazione dei corsi universitari e risoluzione della locazione per sopravvenuta pandemia
26 Agosto 2021
Massima
Il rimedio della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione può essere attivato, ai sensi degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c., da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico - e, quindi, non soltanto dal debitore - ma anche dal creditore, quando sia divenuta impossibile l'utilizzazione della prestazione, il cui interesse a riceverla sia venuto meno. In tal caso, si verifica la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto, con conseguente estinzione dell'obbligazione, semprechè la prestazione sia divenuta completamente irrealizzabile o non fruibile dal creditore per circostanze esterne sopravvenute. Non si verifica alcuno squilibrio del sinallagma contrattuale per eccessiva onerosità ai sensi dell'art. 1467 c.c., quando il locatore continua a garantire il godimento dell'immobile al conduttore nei termini pattuiti dal contratto, con diritto al pagamento del canone, ancorché con modalità diverse dovute alla pandemia da Covid. Il caso
Con ricorso ex art. 447-bis c.p.c., parte attrice esponeva di aver stipulato, in data 21 giugno 2019, in qualità di subconduttrice, un contratto di sublocazione parziale di un immobile sito in Milano, per la durata di quattro anni, con la precisazione che i relativi locali sarebbero stati occupati esclusivamente da sua figlia, “frequentante il corso di laurea magistrale presso l'Università”. Successivamente, con raccomandata inviata in data 11 gennaio 2020, la subconduttrice comunicava la disdetta (rectius, il recesso) dal contratto con decorrenza dal 31 luglio 2020, al termine della sessione estiva dell'Università, allegando che il contratto aveva avuto regolare esecuzione fino alla data del 20 febbraio 2020 quando, come usualmente avveniva, la studentessa lasciava l'appartamento e rientrava nella sua abitazione a Bergamo. Le vicende successive all'indicata data del 20 febbraio 2020, connesse alla pandemia da Covid 19, avevano poi impedito alla studentessa di fare il consueto rientro a Milano il 22 febbraio 2020, per l'avvenuta sospensione delle attività didattiche di ogni ordine e grado, per il lockdown imposto dal Governo: l'Università, conformemente alla normativa emergenziale emanata, aveva infatti disposto la chiusura totale dei locali e lo svolgimento on line di lezioni ed esami. Conseguentemente, in data 21 marzo 2020, parte attrice comunicava per iscritto alla sublocatrice l'assenza della figlia dall'immobile di Milano e l'impossibilità di farvi rientro “sia per il divieto di spostamento disposto dal Governo, sia per l'inutilità di tale eventuale accesso, posto che lezioni ed esami venivano seguiti e sostenuti on line”. In particolare, in data 24 marzo 2020 l'Università comunicava agli studenti che i locali dell'ateneo sarebbero rimasti chiusi e lo svolgimento delle attività sarebbe proseguito on line fino a luglio 2020. L'attrice deduceva l'impossibilità/inutilità di utilizzazione della camera locata non solo per impossibilità di raggiungerla, ma anche per l'inutilità di soggiornarvi, posta l'avvenuta chiusura dell'Università che, da provvisoria e temporanea, come pareva essere, era divenuta definitiva e duratura fino alla scadenza del contratto al 31 luglio 2020. Il contratto di sublocazione, dalla data del primo provvedimento governativo del 22 febbraio 2020 aveva dunque perso ogni ragione di esistere per impossibilità/inutilità di godimento del bene, che ne costituiva l'oggetto. Per tale ragione, aveva proposto alla sublocatrice di definire bonariamente i rapporti, ma costei aveva rifiutato. Frattanto, il 6 maggio 2020, allorché era stato possibile in relazione alle misure restrittive adottate dalle Autorità, parte attrice aveva liberato l'immobile dei beni della figlia ed invitato la sublocatrice per la riconsegna, ma senza riscontro, sicchè aveva consegnato le chiavi, in deposito fiduciario ad una collega, avvertendo a mezzo pec la sublocatrice (che aveva provveduto al ritiro delle chiavi in data 18 giugno 2020). Alla stregua delle premesse, parte attrice chiedeva di dichiarare la risoluzione ipso iure del contratto di locazione, alla data del 23 febbraio 2020, per intervenuta impossibilità totale, dovuta a forza maggiore ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c., con condanna della resistente a restituirle sia i canoni versati, relativi ai mesi di marzo e aprile 2020, in uno con l'importo del deposito cauzionale e con declaratoria che null'altro era da lei dovuto in forza del contratto cessato. In subordine, parte attrice chiedeva di applicare il rimedio di cui all'art.1467 c.c. per lo squilibrio delle prestazioni conseguenti a forza maggiore. Radicatosi il contraddittorio, la sublocatrice si opponeva alle domande, eccependo che la ricorrente aveva manifestato la volontà di cessare il rapporto sin da epoca antecedente alla notoria emergenza sanitaria, la quale pertanto non produceva alcun effetto sostanziale sul rapporto “fisiologicamente risolto in data 31 luglio 2020”, in conseguenza dell'esercizio, da parte della ricorrente, del diritto potestativo di disdetta. Evidenziava, inoltre, che non vi era certezza che l'emergenza sanitaria avrebbe reso definitivamente impossibile l'esecuzione del contratto fino al termine della durata convenzionale quadriennale del rapporto ed eccepiva, in compensazione, il credito per i canoni da maggio a giugno 2020 - rimasti impagati - con il debito per la restituzione del deposito cauzionale, evidenziando che le misure restrittive della libertà di circolazione erano venute meno, a decorrere dal 18 maggio 2020 (d.l. n.33/2020). In subordine, e da ultimo, eccepiva che l'impossibilità era stata solo temporanea e non assoluta, concludendo per il rigetto delle avverse domande. La questione
A parte l'eccezione della resistente secondo cui il recesso della subconduttrice era avvenuta in data antecedente all'inizio della pandemia, la pronuncia di rigetto del Tribunale si presta a qualche considerazione di interesse per l'attualità della vicenda. Circa l'impossibilità sopravvenuta - qualificata come totale da parte attrice - è fuori discussione che, a norma dell'art. 1256 c.c., l'obbligazione si estingue e il debitore va esente da responsabilità per danni, quando l'impossibilità non sia sopravvenuta durante la mora del creditore, così come dispone l'art. 1221 c.c. per il quale il debitore che è in mora non è liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, se non prova che l'oggetto della prestazione sarebbe ugualmente venuto meno presso il creditore. In tale contesto e in presenza di un contratto a prestazioni corrispettive, resta da stabilire se il contraente liberato conservi il diritto alla controprestazione oppure no. Nel primo caso, il valore della prestazione divenuta impossibile è perduto per la parte che resta costretta a pagarne il corrispettivo, in forza del principio che il rischio è a carico del creditore della prestazione divenuta impossibile. Nel secondo caso, il rischio è a carico del debitore, poiché è quest'ultimo che perde il diritto al corrispettivo in termini di rischio della controprestazione, fermo restando che il rischio dei danni derivanti al creditore dalla mancata esecuzione della prestazione attiene a una questione di responsabilità contrattuale e fermo restando che il rischio della controprestazione si pone sia nell'ipotesi di impossibilità totale, sia in quella di impossibilità parziale, in relazione alle quali non si tratterà di escludere completamente il corrispettivo, ma semmai di ridurlo ad una misura corrispondente alla parte di prestazione rimasta possibile, quando creditore conservi interesse ad ottenere la prestazione parziale. Nel caso di specie, per parte attrice, la causa concreta del contratto (frequenza ai corsi accademici in presenza) doveva ritenersi “condizione contrattuale specifica”, condivisa dalla sublocatrice ed esplicitamente inserita nel contratto (v. pag. 4 della sentenza). Le soluzioni giuridiche
La questione dell'impossibilità sopravvenuta, quale condizione per la risoluzione del contratto, è disciplinata oltre che dal principio generale dell'art. 1218 c.c. (responsabilità del debitore), dagli artt. 1256 c.c. (impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore), e dagli artt. 1464 (impossibilità parziale) e 1465 c.c. (impossibilità totale), limitatamente ai contratti con prestazioni corrispettive, oltre che dall'art.1467 c.c. (eccessiva onerosità). In linea di principio, ai fini della risoluzione del contratto, l'impossibilità sopravvenuta di cui all'art. 1256 c.c., deve rivestire i caratteri dell'assolutezza e dell'oggettività e non deve essere prevedibile al momento della conclusione del contratto, sì da escludere qualsiasi profilo di colpa imputabile. La liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della sua prestazione in tanto può verificarsi in quanto quest'ultima, alla stregua delle previsioni degli artt. 1218 e 1256 c.c., concerna l'elemento oggettivo dell'impossibilità di eseguire la prestazione, in sé e per sé considerata, e l'elemento soggettivo dell'assenza di colpa riguardo al verificare dell'evento, che ha reso impossibile la prestazione (Cass. n. 8249/1990). Quanto al rischio della controprestazione nei contratti a prestazioni corrispettive, tale rischio rimane a carico del creditore della prestazione divenuta impossibile e si pone non solo nell'ipotesi di impossibilità totale, ma anche in quello di impossibilità parziale (ritardo, mancanza di qualità e, in generale, inesattezza dell'adempimento dovute alla sopravvenuta impossibilità), in cui non si tratterà di escludere completamente il corrispettivo, ma solo di ridurlo ad una misura corrispondente alla parte di prestazione rimasta possibile, sempreché il creditore conservi interesse ad ottenere la prestazione parziale ancora possibile salvo, in caso contrario, recedere dal contratto, qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale (art. 1464 c.c.). Sotto questo profilo, quando la prestazione rimasta possibile lo sia in misura tale da compromettere la funzione economico-giuridica del contratto, la sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione è causa di risoluzione del contratto. In tale contesto, non è di alcun ausilio una teorica classificazione, valida in assoluto, delle varie ipotesi di impossibilità sopravvenuta, attesa la grande varietà degli effetti conseguenti alla impossibilità, ma è sempre necessario fare riferimento al negozio contrattuale concreto. Il che comporta una grande incertezza nell'interprete, sino a farlo dubitare di qualsiasi utilità delle classificazioni, sicché si dubita della utilità della classificazione giurisprudenziale evocata dalla sentenza in commento, nella parte in cui si legge: “Il principio in questione è stato affermato con riguardo a casi in cui la prestazione è divenuta completamente irrealizzabile o non fruibile dal creditore per circostanze esterne sopravvenute: per esempio, quando la rappresentanza di un'opera lirica all'aperto, dopo l'esecuzione del solo primo atto, è stata interrotta a causa di gravi avverse condizioni atmosferiche, nel qual caso si è esclusa la possibilità, per la parte liberata, di chiedere la controprestazione (Cass. n. 23987/2019), oppure quando l'immobile locato è divenuto inagibile in conseguenza di un evento sismico che ne ha pregiudicato totalmente la possibilità di utilizzarlo (Cass. n. 17844/2007; Cass. n. 3247/1981) o, ancora, allorchè l'acquirente di un viaggio turistico non ha potuto fruirne per una improvvisa e grave patologia sopravvenuta (Cass. n. 16315/2007) o per il decesso del coniuge, che aveva parimenti acquistato il soggiorno alberghiero, il giorno prima della partenza (Cass. n. 26958/2007)”. Quanto agli effetti, l'impossibilità sopravvenuta paralizza la domanda di adempimento determinando, se definitiva, l'estinzione della relativa obbligazione e la risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1463 e 1256 comma 1 c.c., con conseguente applicazione delle norme generali sulla risoluzione dei contratti e, in particolare, di quella sulla retroattività (Cass. n. 1037/1995). Se temporanea, l'impossibilità sopravvenuta determina soltanto la sospensione del contratto, ovviamente non oltre i limiti dell'interesse del creditore al conseguimento della prestazione, ai sensi dell'art. 1256, comma 2, c.c. Fermo restando che, nei contratti a prestazioni corrispettive, la norma - per la quale nell'ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione, il soggetto liberato dalla controprestazione non può chiedere la controprestazione e deve restituire quello che abbia già ricevuto - non si configura come una disciplina di natura cogente ed inderogabile sicchè le parti, nell'esercizio del loro potere di privata autonomia, possono disporre una diversa regolamentazione degli effetti dello scioglimento del contratto (Cass. n. 275/1976). Quanto all'impossibilità della prestazione derivante dal factum principis - definito come provvedimento legislativo o amministrativo dettato da interessi generali, che rende impossibile la prestazione, a prescindere dal comportamento dell'obbligato - si rinvia alla pacifica giurisprudenza secondo cui il factum principis non esonera di per sé il debitore, il quale è tenuto - come di fronte ad ogni altro evento che incide sull'adempimento della prestazione - ad evitarne le conseguenze, senza adagiarsi supinamente all'osservanza del comando imposto (v., tra le tante, Cass. n. 21973/2007). In tema di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità ex art. 1467c.c. - la cui definizione non è dettata da alcuna norma dell'ordinamento - l'opinione dominante configura l'eccessiva onerosità come una reazione all'alterazione dei presupposti di realizzazione della causa del contratto, che comporta un mutamento dell'originario equilibrio sinallagmatico, con la conseguenza che l'eccessiva onerosità sarebbe determinata dal raffronto tra le posizioni contrattuali originarie e quelle determinate dalla sopravvenuta onerosità. Su tali posizioni è allineata la giurisprudenza, per la quale la parte convenuta in giudizio per l'adempimento di un contratto a prestazioni corrispettive non può giustificare il proprio inadempimento deducendone l'eccessiva onerosità sopravvenuta ed offrendone una reductio ad aequitatem (Cass. n. 46/2000). Con la puntualizzazione che l'eccessiva onerosità sopravvenuta, per determinare la risoluzione del contratto, richiede la sussistenza di due necessari requisiti: quello di un intervenuto squilibrio tra le prestazioni non previsto al momento della conclusione del contratto e la riconducibilità dell'eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili, che non rientrano nell'ambito della normale alea contrattuale (Cass. n. 22396/2006). Osservazioni
Come anticipato, prima dell'azione di risoluzione, la ricorrente aveva dato corso al recesso unilaterale del contratto, immaginiamo a norma dell'art.4 della l.n. 392/1978, tuttora vigente e relativo alla disdetta anticipata del conduttore, al di fuori della ipotesi di disdetta per finita locazione. Secondo la disposizione richiamata - confermata dall'art. 3, comma 6, della l. 431/1998 - “il conduttore qualora ricorrano gravi motivi può recedere in qualsiasi momento dal contratto, dando comunicazione al locatore con preavviso di sei mesi”. I gravi motivi devono essere ricollegati a fatti indipendenti dalla volontà del conduttore, che si prospettino come imprevedibili, che risultino realizzati successivamente al momento formativo del contratto locativo e che siano in grado di rendere oltremodo gravosa, per il conduttore, la persistenza del rapporto. Resta peraltro fermo che la fattispecie non si sovrappone a quella che consente la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta per la quale è necessario altresì che l'evento sopravvenuto sia eccezionale ed incida sulla sinallagmaticità delle prestazioni. Nella specie, a contratto ormai cessato, la ricorrente ha proposto azione di risoluzione per impossibilità della prestazione e/o per eccessiva onerosità, ritenuta compatibile con il recesso, che non comporta il venir meno dell'interesse della ricorrente ad una pronuncia di risoluzione contrattuale. Quest'ultima, avendo natura costitutiva, retroagisce infatti al momento in cui si è verificato lo squilibrio contrattuale - momento che nella specie risaliva ad epoca in cui il rapporto era sicuramente ancora in essere - nel quale i corsi universitari non si erano più svolti in presenza, salvo il caso dei contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite (art. 1578 c.c.). Con la precisazione che, nei contratti a prestazioni corrispettive, quando l'impossibilità sia totale a norma dell'art. 1463 c.c., la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuta. Quando invece la prestazione sia divenuta solo parzialmente possibile a norma art. 1464 c.c., l'altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta e può anche recedere dal contratto. Nel caso affrontato dal Tribunale, parte ricorrente ha invocato l'impossibilità totale della prestazione della sublocatrice, deducendo che l'interesse a ricevere la prestazione di quest'ultima sarebbe venuta totalmente meno, giacché essendo l'Università chiusa “non vi era un motivo per andarci” e quindi di godere dell'immobile locato, sottolineando che la causa concreta della locazione (frequenza del corso universitario) era stata condivisa dalla sublocatrice “ed è assurta a condizione contrattuale specifica”, essendo stata esplicitamente inserita nel contratto. E invero, per quanto si evince dagli atti di causa, nel contratto era stato stabilito che l'immobile sarebbe stato occupato esclusivamente dalla figlia della sublocatrice “frequentante il corso di laura magistrale presso l'Università”. Sul punto, la precisazione contenuta nel contratto non era - come ritenuto dal Tribunale - tale da assurgere a condizione contrattuale specifica solo perché esplicitamente inserita nel contratto. La precisazione richiamata non era tale, infatti, da configurarsi come condizione, posto che l'interesse perseguito dalla subconduttrice non era tale da costituire né una vera e propria condizione ai sensi dell'art. 1353c.c., né una condizione influente sull'efficacia o la risoluzione del contratto o su un singolo patto di esso. A nostro giudizio, nella specie non poteva neanche invocarsi la c.d. presupposizione, della quale può parlarsi quando dal contenuto di un atto risulti chiaramente che le parti abbiano inteso concludere il contratto soltanto nella previsione di una determinata previsione di fatto, e quindi subordinatamente all'esistenza di questa, la quale viene in tal caso ad assurgere a presupposto della volontà negoziale, tale da portare alla invalidità o risoluzione del contratto, qualora il presupposto venga poi meno. E dunque la presupposizione, come condizione non espressa, è legittimamente configurabile solo quando risulti che le parti abbiano inteso concludere il contratto subordinatamente all'esistenza di una determinata situazione di fatto, intesa come presupposto imprescindibile della volontà negoziale (Cass. n. 14629/2001; Cass. n. 1219/2002). D'altra parte, l'istituto della presupposizione ricorre soltanto quando sia comune ad entrambi i contraenti, l'evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti e costituisca presupposto oggettivo non dipendente dalla volontà dei contraenti e non oggetto di specifica obbligazione. Il che non sembra risultare dagli atti di causa, con la conseguenza che, nella specie, la chiusura dell'Università per pandemia, con conseguente possibilità di frequenza ai corsi solo on line - e non di presenza - non ha comportato alcuno squilibrio nel sinallagma contrattuale, atteso che la prestazione dell'altro contraente (consentire il godimento dell'immobile sublocato) ha continuato ad essere fornita alle condizioni pattuite sia rispetto alla prestazione dedotta in contratto, sia rispetto alla prestazione modificata, a seguito della intervenuta pandemia e per effetto della legislazione sopravvenuta in funzione della tutela e prevenzione della pubblica salute. Sotto quest'ultimo profilo, la pronuncia del Tribunale sembra essere troppo sbrigativa e solo parzialmente da condividere - laddove afferma che la mancata utilizzazione di fatto dell'immobile è dipesa da una libera decisione della subconduttrice, che non ha fatto venir meno l'obbligo contrattuale di pagamento del canone - posto che sia ai sensi dell'art. 1256, ultima parte, c.c. (in caso di impossibilità definitiva), sia ai sensi dell'art. 1464 c.c. (in caso di impossibilità parziale), nella specie non sussisteva un interesse apprezzabile all'adempimento parziale e ad una prestazione modificata, da parte dell'altro contraente. E dunque, ove si accedesse alla tesi dell'impossibilità sopravvenuta parziale a norma dell'art. 1464 c.c., la subconduttrice poteva avere diritto ad una corrispondente riduzione del canone e a recedere dal contratto. Gli stessi principi possono valere anche quanto all'azione di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta a norma dell'art. 1467 c.c. E invero, l'eccessiva onerosità della prestazione determina la risoluzione del contratto solo allorché, da un lato, sia intervenuto uno squilibrio tra le prestazioni non previsto al momento della conclusione del contratto e, dall'altro, lo squilibrio sia riconducibile ad eventi straordinari ed imprevedibili dal lato soggettivo (Cass. n. 22396/2006), senza che possa venire in rilievo il principio dell'esecuzione dei contratti secondo buona fede. Riferimenti
Polito, Della eccessiva onerosità, in Commentario al codice civile di Scialoia e Branca, sub art. 1256; Pellegrini, Obbligazioni, I, in Commentario D'Amelio e Finzi, 172; Osti, Impossibilità sopravveniente, Novissimo dig.it., 287. |