L'uso del comproprietario della frazione di cosa comune è possibile solo se lo stato dei luoghi lo consente

Edoardo Valentino
21 Settembre 2021

Il Tribunale di Treviso deve valutare se l'uso di un immobile a destinazione commerciale, in comproprietà tra tre soggetti, sia consentito anche solo ad uno dei tre, a patto che questi limiti l'estensione delle proprie attività ad una parte corrispondente alla quota di comproprietà dallo stesso detenuta.
Massima

Non è consentito l'uso di parte del bene comune, se le condizioni giuridiche o statiche dell'immobile non lo consentono in concreto.

Il caso

Una società conveniva in giudizio alcuni soggetti, comproprietari insieme alla stessa di un capannone industriale. Tale immobile era in passato stato locato alla stessa attrice dagli altri comproprietari e il contratto era terminato.

Con l'azione giudiziale, quindi, la società mirava a fare accertare al Giudice la situazione di comunione sul bene, a far dichiarare la cessazione del contratto di locazione, a fare accertare che la parte che essa stesse occupando era corrispondente alla sua quota di proprietà sul bene indiviso e che tale uso fosse legittimo in quanto rientrante nelle facoltà del comproprietario ai sensi e per gli effetti dell'art. 1102 c.c.

Si costituivano in giudizio gli altri comproprietari, aderendo alla richiesta di dichiarazione della comunione del bene e della cessazione del contratto di locazione, ma contestando la terza componente della domanda attorea, ossia quella relativa alla occupazione della quota di immobile da parte della società attrice.

L'oggetto della decisione, quindi, era l'estensione della comproprietà e la possibilità o meno per l'attrice di utilizzare il bene

Nel corso del processo, quindi, veniva disposto l'esperimento di una perizia tecnica con lo scopo di appurare se vi fosse la possibilità, per le parti, di individuare tre porzioni dell'immobile in oggetto atte ad un uso separato e distinto.

Ove la perizia avesse valutato la possibilità di fare un uso individuale delle singole porzioni, e avesse valutato che l'occupazione della società corrispondesse effettivamente alla sua porzione di immobile, allora la domanda giudiziale di quest'ultima avrebbe trovato accoglimento.

In caso contrario, invece, la domanda avrebbe dovuto essere rigettata.

La questione

La questione sollevata dalla parte attrice afferisce l'uso della cosa comune da parte di uno dei comproprietari.

La norma “cardine” della questione è l'art. 1102 c.c., il quale afferma che “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

È, infatti, un tema cruciale della comunione - quindi, astrattamente anche del diritto condominiale, essendo come noto il condominio una forma di comunione immobiliare - la possibilità di utilizzo della cosa comune da parte dei comunisti e le regole per il suo esercizio.

È chiaro che in alcuni casi la disciplina sarà di più agevole discernimento rispetto ad altri: si pensi al condominio, sito nel quale i proprietari hanno la proprietà privata dei loro rispettivi appartamenti e una situazione di comunione sulle parti comuni che, legando lo stabile in modo funzionale e strutturale, rendono possibile la stessa esistenza della persona giuridica a personalità attenuata (o diffusa) che è il condominio.

L'art. 1117 c.c. prevede, sul punto, un elenco di beni (indicativo e non definitivo) che sono necessariamente condominiali quali: “1) tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; 2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l'alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche”.

Nel contesto condominiale ciascuno dei partecipanti ha pari diritto sulle cose comune e può fare un uso paritetico agli altri.

L'uso che si può fare, infatti, non è esattamente pari, ma potenzialmente pari, in quanto sono tollerate forme più intense di uso del bene comune.

Uso pari vi sarà, quindi, con riferimento a beni comuni quali l'androne delle scale del condominio, o la portineria, mentre riguardo ad alcuni beni alcuni condomini naturalmente faranno un uso più intenso degli altri (si pensi alla porzione di facciata sulla quale il condomino appone il proprio condizionatore).

In generale, comunque, la dottrina (v. infra) e la giurisprudenza hanno fornito indicazioni molto precise per comprendere i confini dell'uso consentito e vietato dei beni oggetto di comunione condominiale.

Meno agevole determinare le possibilità di utilizzo in casi come quello oggetto del giudizio.

Nel caso in questione, infatti, la società attrice sostiene di avere situato la propria attività proprio e soltanto in corrispondenza del “terzo” di immobile di sua proprietà.

Per semplificare, quindi, secondo l'attrice essa starebbe svolgendo un uso consentito della cosa comune dato che utilizzerebbe il bene, indiviso, soltanto per uno spazio pari alla propria quota, consentendo agli altri un pari utilizzo in corrispondenza delle proprie quote di comproprietà.

Tale tesi - è chiaro - si doveva necessariamente confrontare con l'accertamento tecnico realizzato nel giudizio, di seguito analizzato.

Le soluzioni giuridiche

A sottolineare la preminente importanza dell'accertamento peritale per il giudizio, la sentenza oggi in commento contiene molta parte riferibile alla perizia e molto poche considerazioni giuridiche.

Tale distribuzione parrebbe quasi lasciare intendere che la questione dirimenti della vicenda fosse la valutazione del tecnico sullo stato dei luoghi, essendo poi la decisione una mera conseguenza dell'analisi dell'esperto.

L'assunzione non pare scorretta e va infatti condivisa.

Nel corso del giudizio, infatti, il tecnico ha svolto una analisi non giuridica, ma tecnica sull'immobile oggetto di causa arrivando a valutare come “vi sia un'astratta possibilità di individuare tre distinte porzioni [dell'immobile, NDR], con propria autonomia funzionale, ma nel concreto tale possibilità è attualmente impedita dalla specifica destinazione d'uso del fondo e delle relative norme urbanistiche” concludendo che “Solamente a fronte di una rilevante attività progettuale e della realizzazione di determinate opere, sarà eventualmente possibile individuare delle porzioni di immobile proporzionali alla quota di tutti i comproprietari”.

La valutazione del tecnico, quindi, affermava come - allo stato fisico e giuridico degli atti - l'immobile non fosse concretamente frazionabile in tre parti suscettibili di utilizzo differenziato.

Quanto alla occupazione in atto, poi, il perito affermava che la quota di immobile utilizzata dalla società attrice eccedesse la quota di diritto ad essa spettante.

Considerando il contenuto della perizia, quindi, il decidente specificava come nel caso in questione dovesse essere decisa con il rigetto della domanda attorea.

L'immobile non consentiva, infatti, un utilizzo diretto e frazionato della cosa comune e, in mancanza di accordo, la società non poteva decidere unilateralmente di utilizzare una quota di bene indiviso.

Sebbene in teoria, quindi, l'utilizzo del bene in comunione ai sensi del citato articolo 1102 c.c. fosse possibile, tale utilizzo andava in concreto negato per la mancanza dei requisiti del bene oggetto di causa ad essere utilizzato in modo promiscuo o con frazionamento degli spazi.

Osservazioni

La decisione in oggetto appare corretta e ben argomentata.

Il giudice veneto compie un'interessante analisi distinguendo l'uso consentito in senso astratto e in concreto.

Affidandosi all'ufficio del perito, infatti, il giudice ha specificato come - anche se la legge consente astrattamente un uso del singolo comunista sul bene in comunione - questo non può essere indiscriminato, ma deve essere reso possibile dalle concrete condizioni del bene.

Avendo il CTU escluso che lo stato dei luoghi e l'assenza di permessi potesse consentire un uso frazionato o indiviso del bene comune, il giudice ha decretato come - nel caso concreto - la domanda della parte attrice non potesse trovare accoglimento.

Occorre rilevare come la sentenza in commento sia una sentenza di “merito” del Tribunale, e che quindi abbia il compito di fornire una risposta giuridica qualificata ad un quesito posto dalla parte.

La decisione, quindi, non va letta in astratto, estrapolandone erroneamente il principio in ragione del quale sarebbe o non sarebbe consentito l'utilizzo astratto del bene comune indiviso da un solo comunista, ma deve essere calata nel contesto.

Sul punto non si può non citare la decisione Cass. civ., sez. II, 11 settembre 2020, n.18929, la cui massima afferma “in tema di comunione, l'uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l'utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art. 1102 c.c., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l'utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Qualora, pertanto, la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell'ambito dell'uso frazionato consentito, ma nell'appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che - trattandosi di beni immobili - deve essere espresso in forma scritta ad substantiam.”

La chiave di lettura, per semplificare è la seguente: un utilizzo, frazionato o indiviso, del bene è consentito al singolo comproprietario, ma se intende fare un utilizzo senza avere l'esplicito consenso degli altri comproprietari allora questo non può essere realizzato in violazione delle norme vigenti o dei diritti degli altri compartecipanti alla comunione.

Nel caso in questione, per gli elementi citati nei succitati paragrafi, un tale uso non era concretamente possibile e la risposta alla domanda giudiziale della parte attrice era conseguentemente negativa.

Riferimenti

Celeste, I servizi in uso al condominio: le pratiche più controverse, in Giur. merito, 2011, fasc. 3, 870;

Tarantino, Le Sezioni Unite escludono la natura reale del diritto d'uso esclusivo di un bene condominiale, in Dir. & giust., 2020, fasc. 241, 14;

Valentino, L'uso più intenso delle parti comuni non può essere fatto se comporta un danno per gli altri condomini, in Dir. & giust., 2021, fasc. 6, 4.

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