Anche i sindaci rispondono delle indebite compensazioni?

Ciro Santoriello
24 Novembre 2021

Il sindaco di una società che esprime parere favorevole all'acquisto di un credito fiscale inesistente, nella consapevolezza della sua inesistenza, pone in essere una condotta causalmente rilevante, quanto meno in termini agevolativi, e di rafforzamento del proposito criminoso, rispetto alla realizzazione del reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000 commesso mediante l'utilizzo dell'indicato credito fittizio.
Massima

Il sindaco di una società che esprime parere favorevole all'acquisto di un credito fiscale inesistente, nella consapevolezza della sua inesistenza, pone in essere una condotta causalmente rilevante, quanto meno in termini agevolativi, e di rafforzamento del proposito criminoso, rispetto alla realizzazione del reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000 commesso mediante l'utilizzo dell'indicato credito fittizio.

Il caso

Nei confronti di un componente di un collegio sindacale di una società per azioni, indagato per i reati di indebita compensazione ex art. 10-quater digs. n. 74/2000 e di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza ex art. 2638, primo e secondo comma, cod. civ., era applicata una misura cautelare personale.

In particolare, l'indagato, nella qualità di presidente del collegio sindacale della S.p.A., aveva espresso parere favorevole all'adozione della delibera di acquisto di ramo di azienda dalla altra società, del quale faceva parte un credito IVA inesistente per un valore di 5.826.040,00 euro, delibera poi approvata, e seguita dall'utilizzazione di tale credito a fini di compensazione IRPEF e IRPEG mediante più versamenti effettuati tra il 20 ed il 25 giugno 2019, per un importo complessivo pari a 1.395.129,31 euro. Inoltre, l'indagato, nella medesima qualità, e in concorso con il presidente del consiglio di amministrazione e l'amministratore di fatto della società, mediante dei dichiarazioni anche da lui sottoscritte, avrebbe esposto all'ente pubblico di vigilanza, al fine di ostacolarne l'esercizio delle funzioni di vigilanza, fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica e patrimoniale della società, attestando la regolarità dei versamenti fiscali e previdenziali e dei pagamenti a tesserati, lavoratori e collaboratori, nonché il ripianamento della carenza finanziaria e l'adempimento di vari debiti.

In sede di ricorso per cassazione avverso l'ordinanza, si denunciava che l'affermazione della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico del ricorrente, estraneo ai precedenti procedimenti penali a carico della società che aveva utilizzato i crediti inesistenti, oltre a poi contestarsi la circostanza che l'inesistenza dei crediti ottenuti con l'acquisto del ramo di azienda fosse palese ed evidenti, posto che la irregolarità di tali crediti sarebbe emerso solo dopo che l'Amministrazione finanziaria aveva contestato il credito fiscale.

Era contestata poi l'attribuzione all'indagato di un ruolo concorsuale nell'accaduto, posto che non poteva riconoscersi una tale rilevanza alla mera espressione del parere che lo stesso aveva formulato quale presidente del collegio sindacale, in quanto detto parere non era vincolante per l'acquisto di ramo di azienda (dovendosi poi comprendere perché la contestazione era stata effettuata al solo ricorrente e non anche agli altri due componenti del collegio sindacale, al notaio rogante l'atto ed al professionista che aveva redatto ex art. 2465 cod. civ. la perizia di stima del compendio aziendale oggetto di compravendita). Peraltro, un eventuale dissenso all'acquisto del ramo di azienda non avrebbe potuto produrre alcun effetto, non potendo certo impedire l'acquisto.

Altre osservazioni presenti nel ricorso concernevano profili di fatto della vicenda, tutti intesi a dimostrare come non fossero emersi elementi concreti di assoggettamento o di dolosa cooperazione del ricorrente con l'ispiratore delle operazioni illecite o con i soggetti che avevano predisposto i pagamenti "apparenti" per indurre in errore il collegio sindacale e l'ente pubblico di vigilanza, decisivi per la configurabilità dei reati di cui all'art. 2638, primo e secondo comma, cod. civ.. In proposito, si sottolineava la presenza in atti di una relazione sottoscritta da un commercialista dott. Michele Castaldo, concernente la "legittima compensazione di credito IVA - operazione cessione di ramo di azienda", la circostanza che la falsa documentazione afferente al credito fosse stata formata da altri e solo dopo di ciò sottoposta all'attenzione degli organismi di controllo e quindi del collegio sindacale, sicché doveva concludersi che lo stesso era stato indotto in errore.

La questione

Al fine di snellire le procedure di liquidazione delle imposte e dei contributi, il legislatore ha riconosciuto al contribuente la possibilità di effettuare compensazioni tra importi a debito ed a credito maturati con riferimento a molteplici poste fiscali e contributive. E' quanto accade, ad esempio, allorquando un contribuente presenta un'Iva sugli acquisti maggiore dell'Iva sulle vendite, oppure allorquando viene presentata una dichiarazione dei redditi correttiva – a favore del contribuente - di una precedente dichiarazione, o, ancora, allorquando le ritenute d'acconto subite da un contribuente sono superiori al debito d'imposta che scaturisce dalla dichiarazione annuale.

In tali frangenti, il contribuente si trova a beneficiare di crediti d'imposta che l'art. 17 d.lgs. n. 241/1997 consente di portare in compensazione di saldi passivi risultanti da altri obblighi impositivi o contributivi, cosicché all'Erario viene corrisposta soltanto l'eventuale differenza a debito risultante da una tale somma algebrica. Sennonché, questa possibilità ha dato luogo ad abusi, attraverso i quali poste a debito (per il contribuente) hanno trovato compensazione con poste a credito in realtà inesistenti, con conseguente pregiudizio all'attività di esazione dell'Erario, il quale perde parte del proprio gettito in conseguenza dell'avvenuta compensazione con crediti inesistenti.

Per porre argine ad una tale pratica, quindi, l'art. 10-quaterd.lg. n. 74 del 2000 punisce, appunto, ogni compensazione che utilizzi crediti qualificati come “non spettanti o inesistenti”, ipotesi decisamente più grave e punita in maniera decisamente più severa e che non gode del beneficio della causa di non punibilità rappresentata dal pagamento dei debiti tributari (TOMA, L'indebita compensazione ad un triennio dell'entrata in vigore (art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000), in Riv. Dir. Trib., 2010, III, 27; FONTANA, Indebita compensazione e connotato fraudolento della condotta, in Riv. Giur. Trib., 2012, 483).

Questa fattispecie rientra nel novero dei reati propri, atteso che solo coloro che rivestono la qualifica di contribuente potranno essere destinatari della disciplina prevista dall'art. 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241 e, quindi, potranno commettere tale delitto.

La condotta è di tipo commissivo, risolvendosi nell'effettuazione di una compensazione, in sede di versamento (effettuato attraverso il cosiddetto “Modello F24”), tra il debito fiscale e poste di credito in realtà “non spettanti o inesistenti”.

In tale ambito, a rilevare penalmente sembrano essere i soli debiti relativi ad imposte dirette ed all'Iva oggetto di indebita compensazione, mentre eventuali debiti IRAP o contributivi – ad esempio - dovrebbero rimanere al di fuori della tutela penale. Ad indebita compensazione di codesti debiti fiscali ammessi a tutela penale, invece, possono essere portati crediti di qualsivoglia natura, purché contemplati dall'art. 17 del d.lgs. n. 241/1997 e risultanti, come si è rilevato, “non spettanti o inesistenti”, per cui potrebbe assumere rilevanza penale, ad esempio, una indebita compensazione tra IRES a debito ed IRAP a credito rivelatasi inesistente (Cass., sez. III, 3 marzo 2020, n. 389; Cass., sez. III, 30 ottobre 2018 (dep. 2019), n. 8689; Cass., sez. III, 16 gennaio 2015, n. 15236; Cass., sez. III, 11 novembre 2010, n. 42462. In senso contrario, Cass., sez. I, 10 maggio 2019, n. 38042. In dottrina, PERRONE, Limiti di applicabilità del reato previsto dall'art. 10 quater del D.Lgs. n. 74/2000: un opinabile orientamento della Suprema Corte, in Riv. Dir. Trib., 2011, III, 137; TODINI, L'equivoco sulla compensazione mette a rischio il meccanismo della detrazione, in Rass. Trib., 2011, 1011; BASILAVECCHIA, Credito "riportato" ma inesistente: rilevanza penale dell'utilizzo, in Corr. Trib., 2011, 212; SCARCELLA, Estensibilità del reato di indebita compensazione di crediti iva anche ai casi di compensazione "verticale", in Riv. Dir. Trib., 2011, 137; PERRONE, Limiti di applicabilità del reato previsto dall'art. 10-quater del d.lgs. n. 74/2000: un opinabile orientamento della Suprema Corte, ibidem, 142; TODINI, L'equivoco sulla compensazione mette a rischio il meccanismo della detrazione?, in Rass. Trib., 2011, 1011).

La norma in esame contempla la soglia di punibilità di cinquantamila euro, per il calcolo della quale devono essere prese in considerazione tutte le compensazioni effettuate indebitamente nell'ambito di un periodo d'imposta, considerando separatamente, tuttavia, le compensazione di crediti non spettanti da quelle di crediti inesistenti: assumeranno rilevanza penale, quindi, non solo la singola compensazione indebita – ad esempio - di € 60.000, ma anche le tre compensazioni indebite di € 20.000 ciascuna, purché intervenute in un medesimo periodo d'imposta e sempre che si riferiscano tutte e tre a crediti non spettanti o inesistenti.

Per credito inesistente deve intendersi il credito in relazione al quale non sussistono gli elementi costituitivi e giustificativi.

In relazione al credito non spettante, deve distinguersi fra non spettanza soggettiva - essendo evidente che il portare, eventualmente, in detrazione un credito tributario, pur astrattamente esistente ma riferito ad altro soggetto, integra gli estremi della compensazione con un credito inesistente relativamente alla posizione del soggetto che operi la compensazione – e credito non esigibile, la cui esistenza sia subordinata al verificarsi di una condizione, posto che, laddove si tratti di condizione sospensiva, fintanto che essa sia pendente, il credito, trattandosi di fattispecie e formazione progressiva, ancora non è sorto ed è pertanto inesistente, mentre, se si tratta di condizione risolutiva, una volta verificatasi quest'ultima, il credito viene meno, nonché ogni altro credito che, pur certo nella sua esistenza ed ammontare sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile ovvero non più utilizzabile in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l'Erario – situazione che ricorre, ad esempio, quando vengano utilizzati crediti verso l'erario eccedenti il limite massimo in compensazione (Cass., sez. III, 7 luglio 2015, n. 36393).

L'elemento soggettivo è costituito dal dolo generico e, quindi, il contribuente dovrà semplicemente avere consapevolezza della compensazione operata e della natura indebita della stessa. Di certo, proprio la necessaria consapevolezza, non tanto della inesistenza, quanto della non spettanza del credito portato in compensazione è destinata a riproporre tutte le delicate questioni che usualmente presentano le fattispecie contrassegnate da clausole di illiceità espressa.

In questo contesto, poi, occorre ricordare come la disciplina dell'errore, causa di esclusione del dolo, risulti arricchita dalla previsione contenuta nell'art. 15 del Decreto, sollecitando così una particolare cautela nell'accertamento del dolo del contribuente. Eventuali errori sulla “compensabilità” di un credito tributario, infatti, paiono destinati ad operare a favore del contribuente stesso.

La soluzione giuridica

Il ricorso è stato rigettato.

In particolare, la Cassazione non condivide la tesi secondo cui l'ordinanza cautelare avrebbe valorizzato, in ordine al reato di indebita compensazione, la condotta costituita dall'espressione da parte dell'indagato di un parere favorevole quale presidente del collegio sindacale, senza considerare la pratica ininfluenza dell'atto ad impedire la commissione del reato, nonché la condivisione dello stesso da parte degli altri due componenti del Collegio, del notaio rogante l'acquisto del ramo di azienda e dell'esperto incaricato della stima di tale bene.

In effetti, la Cassazione riconosce che la configurabilità del reato di cui all'art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000 con riferimento alla condotta di un componente del Collegio sindacale di una società che esprime un parere favorevole all'acquisto di un credito inesistente è problematica posto che una tale tipologia di condotta non è in alcun modo rappresentata o richiamata dal citato art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000. Tuttavia, secondo la decisione in esame, il medesimo comportamento può assumere rilevanza penale, sempre nell'ambito del delitto di indebita compensazione, a norma dell'art. 110 c.p.; in particolare, il parere favorevole del sindaco all'utilizzo di crediti per saldare le tasse in via di compensazione può rappresentare una forma di partecipazione a titolo di concorso nel reato di cui all'art. 10 quater citato.

All'adozione di una tale conclusione non risultano ostacoli normativi o fattuali alla configurabilità del concorso nel reato, in ordine alla fattispecie di cui all'art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000, e, anzi, nella casistica giurisprudenziale, il concorso nel reato di indebita compensazione è stato espressamente ammesso con riguardo a condotte realizzate dal consulente fiscale (Cass., sez. III, 14 novembre 2017, n. 1999). Inoltre, secondo i principi generali, ai fini della configurabilità della partecipazione nel reato ex art. 110 c.p., rilevano anche le condotte di agevolazione o di mero rafforzamento della volontà dell'autore c.d. principale: nella formula dell'art. 110 c.p. sono ricevute e riunite tutte le diverse forme ed i diversi gradi della partecipazione criminosa, indipendentemente dall'importanza di quest'ultima nella determinazione dell'evento, ivi compresa la partecipazione morale al fatto altrui nelle sue varie forme del mandato, dell'incitamento e del rafforzamento della volontà, e della agevolazione in genere (Cass., sez. Un., 24 maggio 2012, n. 36258).

Il rapporto fra collegio sindacale e gli amministratori della società ben si presta ad essere letto nell'ottica concorsuale di cui si è detto. Infatti, l'organo di controllo ed i singoli componenti di esso, secondo quanto si evince dalle disposizioni contenute nel codice civile, sono in condizione di "confortare" le scelte degli organi sociali o, al contrario, di attivarsi efficacemente per impedire le operazioni della persona giuridica, ove le ritengano illegittime. Il collegio sindacale, a norma dell'art. 2403 c.c., ha il dovere di vigilare, tra l'altro, «sul rispetto dei principi di corretta amministrazione»; i sindaci, poi, a norma dell'art. 2407 c.c. «sono responsabili della verità delle loro attestazioni» e «sono responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica»; questa responsabilità, per il richiamo effettuato dall'art. 2407, terzo comma, c.c., agli artt. 2394, 2394-bis e 2395 c.c., opera anche nei confronti dei creditori e dei terzi comunque danneggiati. I sindaci, per di più, sono titolari di specifici poteri e facoltà per influire sulla corretta gestione della società, perché, tra l'altro, possono:

  • convocare l'assemblea per segnalare irregolarità di gestione, a norma dell'art. 2406 c.c.;
  • far ricorso al tribunale per la riduzione del capitale sociale per perdite, a norma degli artt. 2446 e 2447 c.c.;
  • impugnare le delibere sociali ritenute illegittime, a norma degli artt. 2377 e 2388 c.c.;
  • chiedere al tribunale la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c.;
  • presentare denuncia al tribunale nei confronti degli amministratori a norma dell'art. 2409 c.c.

Alla Cassazione sembra quindi ragionevole concludere che il sindaco di una società il quale esprime parere favorevole all'acquisto di un credito fiscale inesistente, o di un compendio aziendale contenente un credito fiscale inesistente, pone in essere una condotta causalmente rilevante, quanto meno in termini agevolativi, e di rafforzamento del proposito criminoso, rispetto alla realizzazione del reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000 commesso mediante l'utilizzo dell'indicato credito fittizio. Ovviamente, perché possa sussistere la responsabilità del sindaco a titolo di concorso nel reato appena indicato, occorre anche la sua colpevolezza, e, quindi, è necessario accertare che il medesimo soggetto abbia espresso il parere favorevole nella consapevolezza sia dell'inesistenza del credito fiscale, sia della strumentalità dell'acquisto di tale credito al successivo utilizzo a fini di compensazione, ai sensi dell'art. 17 d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241.

Nel caso di specie, fra gli indici che hanno fatto ritenere che l'indagato fosse per l'appunto consapevole dell'inesistenza dei crediti fiscali connessi al compendio aziendale acquistato indicano, con riferimento all'atto di acquisito del credito, si rappresenta che:

  • mancava qualunque documentazione in ordine alla composizione del ramo di azienda, nel quale era compreso il credito IVA fittizio avente il valore nominale di 5.826.040,00 euro, nonostante l'importanza della transazione, e, anzi, nell'atto di vendita del bene si faceva menzione esclusivamente di attrezzature esistenti e di un «separato elenco», però non allegato;
  • nell'atto di vendita, la società acquirente ha dichiarato di essere edotta dell'insussistenza di oneri fiscali nonché di aver effettuato le opportune verifiche ed ha esonerato espressamente la parte cedente dal certificato attestante l'insussistenza di sanzioni e violazioni di carattere fiscale, così rinunciando ad un documento che avrebbe immediatamente evidenziato qual era la reale situazione fiscale della cedente;
  • il prezzo di vendita, pari alla somma di 2.900.000,00 euro, è di molto inferiore al valore anche del solo credito fiscale, è indicato nell'atto come da corrispondere «entro e non oltre la data odierna», e, ciononostante è quietanzato contestualmente per l'intero senza nessuna precisazione;
  • la dimostrata inclinazione degli organi di vertice della società, resa nota al ricorrente dodici giorni prima dell'espressione del suo parere, di ricorrere al sistema dell'acquisto di "scatole" societarie contenenti crediti IVA fasulli, costituiva un evidente "campanello" di allarme, ma nonostante detto "campanello" di allarme, e nonostante le plurime, e clamorose, anomalie dell'atto di cessione del ramo di azienda, anche e specificamente nella parte relativa all'ingente credito, di cui si fa menzione il minimo indispensabile, per di più con espressa rinuncia all'acquisizione di documentazione che ne dovrebbe supportare la esistenza, il ricorrente ha prestato la sua espressa adesione a tale acquisto.

Quanto alla posizione dell'indagato vengono richiamate intercettazioni telefoniche in cui risulta che lo stesso aveva ricevuto notizia di una precedente operazione diretta a far accollare ad altra società il credito in esame e delle problematiche insorte, di aver il presidente del Consiglio di amministrazione della società presso cui l'indagato rivestiva il ruolo di sindaco espressamente dichiarato che l'acquisto del ramo di azienda permette «anche di azzerare in massima parte la propria esposizione debitoria fiscale/tributaria nel tempo accumulata».

Tali considerazioni giustificano un differente trattamento dell'indagato rispetto agli altri componenti del collegio sindacale e rispetto al notaio, il quale nel formare l'atto di vendita, non accerta l'esistenza dei beni oggetto del rogito, mentre la perizia effettuata ex art. 2465 c.c. non conteneva tra i crediti valutati quello IVA, poi accluso nell'elenco del patrimonio attivo da conferire, ed ha inoltre solo la funzione di attestare che il valore complessivo dei beni ceduti è pari a quello agli stessi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell'eventuale sovrapprezzo.

Tali considerazioni in ordine alla consapevolezza del ricorrente di facilitare un'operazione funzionalmente diretta ad effettuare una indebita compensazione e di rendere dichiarazioni mendaci all'ente pubblico di vigilanza al fine di ostacolarne le funzioni di vigilanza sono sono ritenuti plurimi, gravi, precisi e concordanti per affermare, quanto meno, ed in termini di gravità indiziaria, la sussistenza del dolo eventuale.

Osservazioni

Non è facile commentare la decisione in epigrafe. Da un lato, l'affermazione secondo cui il componente del collegio sindacale può rispondere a titolo di concorso nel delitto di cui all'art. 10-quater d.lg. n. 74/2000 pare nient'affatto sorprendente, posto che, ad esempio, già altri soggetti estranei al vertice amministrativo della società sono stati chiamati a rispondere a titolo di concorso nel suddetto delitto (cfr. Cass., sez. III, 14 novembre 2017, n. 1999 con riguardo a condotte realizzate dal consulente fiscale o Cass., sez. III, 13 marzo 2019, n. 19672; Cass., sez. III, 16 dicembre 2020, n. 26089 in relazione al professionista che appone il visto di conformità).

È vero che i sindaci non rientrano fra i possibili autori del reato richiamati dal citato art. 10-quater, né – per rimanere al caso di specie – hanno alcuna competenza nel caso in cui una società proceda al pagamento delle imposte mediante il meccanismo della compensazione di cui all'art. 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241 in relazione alla regolarità di tale operazione, ma possono concorrere nel delitto formulando ad esempio (come accaduto nella vicenda in esame) un parere favorevole all'utilizzo di crediti per saldare le tasse in via di compensazione. È noto, infatti, che ai fini della configurabilità della partecipazione nel reato ex art. 110 c.p., rilevano anche le condotte di agevolazione o di mero rafforzamento della volontà dell'autore c.d. principale, ivi compresa la partecipazione morale al fatto altrui nelle sue varie forme del mandato, dell'incitamento e del rafforzamento della volontà, e della agevolazione in genere.

Ciò posto, se non si rinvengono problemi nel riconoscere la responsabilità penale di un componente del collegio sindacale che attivamente partecipi alla realizzazione della condotta criminosa consistente nell'utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle imposte, decisamente più problematico ci pare giungere alle medesime conclusioni sulla base di un supposto obbligo di intervento dei sindaci rispetto alla violazione, da parte dell'amministratore societario, del disposto di cui all'art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000.

Nella prima ipotesi, in effetti, si è innanzi ad una situazione pacificamente rientrante nella sfera di operatività di cui all'art. 110 c.p. posto che nella formula di questa disposizione “sono ricevute e riunite tutte le diverse forme ed i diversi gradi della partecipazione criminosa, indipendentemente dall'importanza di quest'ultima nella determinazione dell'evento, ivi compresa la partecipazione morale al fatto altrui nelle sue varie forme del mandato, dell'incitamento e del rafforzamento della volontà, e della agevolazione in genere” (Cass., sez. Un., 24 maggio 2012, n. 36258). Di contro, riconoscere in capo ai sindaci un obbligo di impedimento del delitto di indebita compensazione, facendo quindi ricorso alla previsione di cui all'art. 40 c.p.p., comporterebbe riconoscere in via di premessa che sui componenti di tale organo di controllo compete anche una verifica sulla regolarità degli adempimenti fiscali da parte della società presso cui operano.

La lettura della decisione non scoglie l'equivoco. Da un lato, infatti, per giungere alla conferma del provvedimento impugnato si sottolineano le varie modalità con cui l'indagato ha contribuito attivamente al perseguimento dell'obiettivo criminoso, ma dall'altro, anche mediante una ricostruzione dei poteri e doveri del collegio sindacale - si legge, infatti, in motivazione che i sindaci “sono in condizione di 'confortare' le scelte degli organi sociali o, al contrario, di attivarsi efficacemente per impedire le operazioni della persona giuridica, ove le ritengano illegittime... sono titolari di specifici poteri e facoltà per influire sulla corretta gestione della società” -, la Cassazione pare presupporre in capo ai soggetti in parola l'obbligo di intervenire in presenza di violazioni di carattere fiscale.

Se così fosse, la decisione non parrebbe convincente. È certo che il sindaco debba accertare la presenza o meno di obblighi fiscali nel bilancio della società da lui presidiata, sollecitando il pagamento dei debiti tributari ove questi raggiungano cifre di importo eccessivo, così come del pari lo stesso ha l'obbligo di chiedere agli amministratori informazioni e chiarimenti con riferimento alle situazioni debitorie di carattere fiscale o previdenziale. Non ci sembra sostenibile, invece, che i sindaci debbano anche verificare le modalità con cui i debiti in parola sono saldati, censurando la scelta di ricorrere al pagamento degli stessi a mezzo di compensazioni ovvero accertando l'effettività ed esistenza dei crediti utilizzati in compensazione.

Va poi sottolineato un ulteriore profilo. Come correttamente sostiene la sentenza in esame, assolutamente perché possa sussistere la responsabilità del sindaco a titolo di concorso nel reato di indebita compensazione è che lo stesso sia consapevole dell'inesistenza del credito fiscale; tuttavia, quando, come nel caso di specie, si è innanzi all'utilizzo di crediti inesistenti, l'accertamento circa la consapevolezza della non esistenza del credito si presenta – se non agevole, quanto meno – ricostruibile sulla base di indici oggettivi e, per così dire, di carattere materiale (come quelli che sono richiamati nella decisione in commento), mentre molto più complessa si presenta la medesima valutazione quando la fattispecie contestata non è quella di cui al 2^ comma dell'art. 10-quater d.lg. n. 74/2000, ma quella di cui al 1° comma della medesima disposizione che fa riferimento alla compensazione mediante utilizzo di crediti (non inesistenti, ma) non spettanti. In relazione a tale ipotesi delittuosa, infatti, occorre porre un argine a possibili prassi operative che dilatino oltre misura la sfera di applicazione della norma, in particolare evitando che i componenti del collegio sindacale possano essere chiamati a rispondere del delitto in discorso in virtù del loro mero ruolo di controllo, anche nei casi in cui la disciplina in tema di riconoscimento dei crediti da utilizzare in compensazione risulta particolarmente complessa e di incerto significato.

Si è già detto del significato dell'espressione crediti non spettanti e delle ipotesi rientranti in tale categoria e da quanto detto risulta chiaro che in numerose occasioni la qualificazione di non spettanza di un credito risulta assolutamente incerta e quindi il contribuente può versare in una situazione di incertezza circa la rilevanza penale della sua condotta in tali circostanza ovvero può, da un lato, avere esigenza ed interesse di compensare il suo debito erariale con crediti che vanta nei confronti del Fisco ma, dall'altro, può avere qualche dubbio circa l'effettiva spettanza dei crediti che vuole compensare.

Secondo alcune decisioni della Cassazione, anche in tali ipotesi può ritenersi sussistente il reato di cui all'art. 10-quater, comma 1, citato, potendosi sostenere che in tali ipotesi il contribuente abbia agito a titolo di dolo eventuale (Cass., sez. III, 8 giugno 2018, n. 26236). Tuttavia, per approdare a tale conclusione (che ove riferita al collegio sindacale rischierebbe di approdare ad esiti di severità draconiana nei confronti dei componenti, chiamati ad una attività di verifica sulla natura dei crediti da utilizzare in compensazione che esorbita decisamente dai loro compiti) occorre che il pubblico ministero sappia fornire la prova che l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di procedere a compensazione di crediti non spettanti senza ricondurre nel fuoco del dolo eventuale ogni comportamento improntato a grave azzardo, quasi che la distinzione tra dolo e colpa sia basata su un dato "quantitativo" della violazione del dovere di diligenza, piuttosto che su un accurato esame delle specificità del caso concreto, attraverso il quale pervenire al dato differenziale di fondo: ossia attribuire o meno al soggetto attivo un atteggiamento di volizione della condotta.

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