È abuso di diritto la doppia operazione di compravendita azionaria se il prezzo è raddoppiato

Matteo Dellapina
20 Dicembre 2021

Per configurare la condotta abusiva sarà necessario valutare attentamente le “ragioni economiche” delle operazioni negoziali che sono poste in essere, in quanto, se le stesse sono giustificabili in termini oggettivi, in base alla pratica comune degli affari, minore o del tutto assente sarà il rischio della pratica abusiva...
Massima

Per configurare la condotta abusiva sarà necessario valutare attentamente le “ragioni economiche” delle operazioni negoziali che sono poste in essere, in quanto, se le stesse sono giustificabili in termini oggettivi, in base alla pratica comune degli affari, minore o del tutto assente sarà il rischio della pratica abusiva. Se invece tali operazioni, pur se effettivamente realizzate riflettono, attraverso artifici negoziali, assetti di “anormalità” economica, potrà verificarsi una ripresa fiscale là dove sia possibile individuare una strada fiscalmente più onerosa. In tal senso, la prova dell'elusione deve incentrarsi sulle modalità di manipolazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché sulla loro mancata conformità ad una normale logica di mercato.

Il caso

L'Agenzia delle Entrate notificava un avviso di accertamento ad una società contribuente, contestando un maggior reddito imponibile ed il conseguente pagamento di maggiori imposte. Tale avviso scaturiva dalla verifica fiscale di alcune operazioni di compravendita di azioni effettuate tra la contribuente, venditrice, ed altre società acquirenti.

Nel dettaglio venivano cedute delle quote di partecipazione al capitale sociale ad un prezzo che, secondo la tesi dell'Ufficio, non giustificavano un reale interesse economico all'operazione di cessione azionaria in quanto emergeva una sproporzione in rapporto al numero di azioni cedute con i due atti di cessione.

Inoltre, durante la fase investigativa, era emerso che le società venditrici erano di fatto riconducibili alla medesima compagine societaria siccome il 60% dell'una era detenuto dall'altra ed il residuo 40% era di titolarità dei soci della stessa.

Sulla base di tali elementi l'Agenzia, deducendo che l'unico scopo sotteso alle cessioni azionarie fosse il risparmio fiscale di cui alla plusvalenza generata dalla prima vendita effettuata dalla venditrice, imputava cosi alle due società il complessivo prezzo di vendita. Ossia, la cessione del 34% da parte della controllante era così tassata: 33,90% generava plusvalenza esente ex art. 87; il residuo 0,10% genera ricavi ex art. 85.

La contribuente impugnava così l'avviso innanzi alla Commissione tributaria provinciale, contestando l'ipotesi dell'Ufficio sul rilievo che il diverso valore delle quote cedute trovava ragione nell'obbligo di dare esecuzione ai patti parasociali in virtù dei quali la “partecipante” manteneva alcuni privilegi quali il diritto di nomina dell'amministratore delegato ed il diritto di partecipazione alla compagine sociale sempre in percentuale non inferiore al 34% anche in caso di futuro aumento del capitale sociale, determinando così il diritto di veto sulle decisioni delle società in quanto per le delibere delle assemblee straordinarie era richiesta una maggioranza qualificata del 66,67%.

Il giudice di primo grado accoglieva cos ìl ricorso della contribuente, ritenendo che i patti parasociali giustificassero le valide ragioni economiche sottese alle cessioni azionarie intervenute con la società acquirente.

L'Agenzia delle Entrate ricorreva così dinnanzi alla Commissione tributaria regionale, sostenendo che a differenza di quanto assunto dai primi giudici, “l'unico fine perseguito era quello di attribuire la parte maggiore del prezzo di cessione alla cessione della quota del 34% assoggettandola al regime di esenzione” e che “non vi era alcun interesse da parte dell'acquirente a versare un sovraprezzo per l'acquisizione di diritti che avrebbe comunque acquisito diventando socio unico della venditrice”.

Il giudice di appello, disattese la tesi dell'Ufficio e confermava la sentenza di primo grado.

Venne così proposto ricorso per Cassazione dall'Agenzia, sulla scorta di un solo motivo, fondato sulla violazione del principio del divieto di abuso del diritto. Per l'Ufficio, il giudice di appello avrebbe escluso l'elusione fiscale, sanzionabile, ritenendo prevalente la volontà pattizia di cui ai patti sociali, volta a valorizzare la quota della partecipante nella partecipata. Infatti, a dire dell'Agenzia, la decisione della CTR avrebbe travisato il principio, immanente nell'ordinamento, del divieto di abuso di diritto, principio configurabile ogni qual volta le operazioni negoziali siano prive di oggettive ragioni economiche e siano poste in essere al solo fine di ottenere un indebito risparmio fiscale.

La questione

La vicenda sottoposta al vaglio dei giudici della Cassazione è imperniata sulla questione del divieto di abuso del diritto connessa ad una complessa operazione di doppia compravendita azionaria, ove nell'ultimo atto, l'acquirente a versato un prezzo delle azioni pari ad una cifra superiore al doppio del valore pagato nel primo acquisto (circa il 241% in più).

Abuso del diritto

Il tema dell'abuso del diritto ha impegnato sia le corti nazionali che europee, portando ad un'evoluzione giurisprudenziale assai ricca e particolareggiata.

Il richiamo è anzitutto doveroso alla giurisprudenza unionale della Corte di Giustizia che ha analizzato la fattispecie di abuso sia nel caso Halifax (C-255/02, sentenza del 21 febbraio 2006) e sia nel caso Part Service (sentenza del 21 febbraio 2008).

Nella vicenda Halifax, considerata sin da subito un “leading case” in tema di abuso del diritto in campo fiscale, i giudici europei hanno anzitutto affermato il principio generale che gli interessati non possano avvalersi in maniera fraudolenta del diritto comunitario (siccome la norma UE non può essere estesa sino ad abbracciare i comportamenti elusivi degli operatori commerciali) e successivamente ha applicato tale principio anche per il settore dell'IVA, aggiungendo che si ha abuso del diritto ogniqualvolta le operazioni controverse, nonostante l'applicazione formale delle condizioni previste, debbano procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni, risultando altresì da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale (p. 86).

Nell'altra pronuncia (caso Part Service) la Corte di Giustizia ha aggiunto che il giudice nazionale (nell'ambito della valutazione che gli compete) può prendere in considerazione il carattere puramente fittizio delle operazioni nonché i nessi giuridici, economici e/o personali tra gli operatori coinvolti. Tali elementi sono idonei a provare che l'ottenimento del vantaggio fiscale costituisce lo scopo essenziale perseguito nonostante l'esistenza eventuale di obiettivi economici ispirati da altre considerazioni (p. 62).

Gli esiti a cui era giunto il giudice europeo ponevano però il dubbio circa l'applicabilità del principio abusivo nei settori non armonizzati ma solo in quanto “principio tendenziale”, che avrebbe dovuto condurre il giudice a ricercare, nell'ordinamento nazionale mezzi giuridici appropriati per il contrasto dell'abuso, come peraltro nel nostro ordinamento era consentito il ricorso alle ipotesi di nullità dei contratti per mancanza illiceità della causa (artt. 1418 e 1344 c.c.). Dubbio che venne immediatamente superato dalla considerazione che il principio dell'abuso di diritto si imponesse nell'ordinamento tributario italiano “pur non esistendo una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali”, e quindi anche “al di fuori dei tributi armonizzati o comunitari (Cass. 17/10/2008, n. 25374).

Successivamente l'intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 30055/2008) ha portato alla configurazione di un principio di divieto dell'abuso del diritto “autonomo” rispetto a quello di derivazione comunitaria, in quanto i principi di capacità contributiva e di progressività (art. 53 Cost.), renderebbero sussistente nel sistema nazionale “il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione”. Tale affermazione non contrasterebbe con la presenza di specifiche norme antielusive (tra cui vi rientra l'art. 37-bis, d.P.R. n. 600/1973, oggi confluito nell'art. 10-bis, l. 212/2000) che vanno apprezzate come “mero sintono dell'esistenza di una regola generale”.

Ecco che l'elaborazione della giurisprudenza tributaria di questa Corte ha così perimetrato l'ipotesi della condotta abusiva ad ogni operazione economica realizzata mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa di strumenti giuridici posti in essere al solo scopo elusivo, ossia di realizzare un risparmio di imposta, con la conseguenza che il divieto di siffatte operazioni non opera in presenza di ragioni economicamente apprezzabili che si possano spiegare altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta (Cass. civ., Sez. trib., 24/06/2021, n. 18239; Cass. civ., Sez. trib., 02/04/2021, n. 9135; Cass. civ., Sez. trib., 21/07/2020, n. 15510; Cass. civ., Sez. trib., 31/12/2019, n. 34750; Cass. civ., Sez. trib., 23/11/2018, n. 30404; Cass. civ., Sez. trib., 06/03/2015, n. 4561; Cass. civ., Sez. trib., 30/11/2012, n. 21390).

In tale prospettiva è stato così chiarito che il principio dell'abuso di diritto, il cui fondamento poggiava sull'art. 37 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (oggi confluito nell'art. 10-bis, L. 212/2000), non sarebbe in contrasto con il principio di riserva di legge, di cui all'art. 23 Cost., in quanto non si tradurrebbe nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali e comporterebbe l'inopponibilità del negozio all'Amministrazione finanziaria per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretende di far discendere dall'operazione elusiva (Cass. civ., sez. trib., 19/02/2014, n. 3938).

Su chi incombe l'onere probatorio?

Quanto alla prova dello schema elusivo, nonché delle modalità di distorsione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato ed utilizzati solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull'Amministrazione finanziaria, dovendo l'Amministrazione dimostrare che la ragione “prevalente” che sorregge la scelta giuridica del contribuente è quella del risparmio fiscale, prova che può essere data mettendo a confronto il comportamento posto in essere con il “comportamento fisiologico aggirato, onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica” (Cass. civ., Sez. trib., n. 1465 del 21/10/2009 e n. 4603 del 26/02/2014).

Ma il contribuente potrà “ribaltare” la prova offerta dal Fisco?

Preme qui sottolineare che proprio il contribuente potrà provare la sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, alternative e concorrenti, dotate di ragionevole consistenza, e non meramente marginali rispetto allo schema negoziale adottato. Ciò comporta che spetta all'Amministrazione finanziaria l'onere di spiegare perché lo schema negoziale impiegato dal contribuente abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all'operazione economica intrapresa, mentre ricade sul contribuente l'onere di provare l'esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. civ., sez. trib., n. 10458 del 20/05/2016 e n. 21390 del 30/11/2012).

Quale configurazione formale dell'abuso?

Il discrimine tra una pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva ed una libertà di scelta delle forme giuridiche in molte situazioni è risultato assai sottile.

Vero è che grazie alla giurisprudenza europea e nazionale è stato osservato come il carattere abusivo di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (Cass. civ., SS. UU. m. 30055 e 30057 del 2008, nonché CGUE nei casi 3M Italia, Halifax e Part Service), presuppone quanto meno l'esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell'obiettivo economico perseguito (Cass. n. 21390/2012) rispetto al quale indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (Cass. n. 4604/2014).

Raccomandazione 2012/772/UE della Commissione Europea

Entrando più nello specifico, la questione altamente delicata dei fenomeni della pianificazione fiscale aggressiva è stata oggetto di un intervento della Commissione Europea che, con l'intento di perseguire tale schema, ha diramato la Raccomandazione 2012/772/UE agli Stati membri di intervenire ogniqualvolta vi sia “una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l'imposizione e che comporti un vantaggio fiscale”, precisando all'uopo che “una costruzione o una serie di costruzioni è artificiosa se manca di sostanza commerciale”, o più esattamente di “sostanza economica”, e “consiste nell'eludere l'imposizione quando, a prescindere da eventuali intenzioni personali, contrasta con l'obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali”, mentre “una data finalità che è o potrebbe essere attribuita alla costruzione o alla serie di costruzioni sembri per lo più rilevante alla luce di tutte le circostanze del csao (Cfr. inoltre Cass. civ., Sez. trib., 14/01/2015, n. 438 e n. 43 del 14/01/2015).

Il legislatore nazionale, in ottemperanza alla Raccomandazione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva, perseguito lo stesso intento mediante la Legge 11 marzo 2014, n. 23 che, nel delegare al governo l'attuazione della disciplina dell'abuso del diritto (D. Lgs. 15/08/22015, n. 128), ha indicato tra i principi ed i criteri direttivi quelli di “definire la condotta abusiva come un uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio di imposta” e di “garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale” di considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell'operazione abusiva.

In tale linea interpretativa si pone l'art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente risponde alle esigenze tracciate dalle fonti comunitarie e nazionali. Esso prevede che si è in presenza dell'abuso del diritto allorché “una o più operazioni prive di sostanza economica”, pur rispettando le norme tributarie, realizzano essenzialmente “vantaggi fiscali indebiti”, chiarendosi che un'operazione è priva di sostanza economica se “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati”, sono “inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, precisandosi che sono incidici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell'utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato” e ribadendo che, ferma restando la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale, non possono considerarsi abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo, che “rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente”(Cfr. Cass. n. 31772/2019; n. 30404/2018; n. 5155/2016).

La soluzione giuridica

La Corte i Cassazione, in aderenza alle pronunce formatesi in tema di abuso del diritto, ha voluto dar seguito all'indirizzo giurisprudenziale consolidatosi e radicatosi sul punto.

Anzitutto, nel solco dei principi espressi dalla Raccomandazione 2012/772/UE ed all'attuazione che di essa ne ha dato il nostro ordinamento, i giudici di legittimità hanno affermato un principio antielusivo rinvenibile nella costituzione (e nelle indicazioni di cui alla raccomandazione ut supra), configurabile ogni qual volta si sia in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, realizzate al fine di eludere l'imposizione, siano prive di sostanza commerciale ed economica, ma produttive di vantaggi fiscali (Cass. n. 2224/2021; n. 5644/2020; n. 34595/2019 e n. 30404/2018).

Cosicché per configurare la condotta abusiva sarà necessario valutare attentamente le “ragioni economiche” delle operazioni negoziali che sono poste in essere, in quanto, se le stesse sono giustificabili in termini oggettivi, in base alla pratica comune degli affari, minore o del tutto assente sarà il rischio della pratica abusiva. Se invece tali operazioni, pur se effettivamente realizzate riflettono, attraverso artifici negoziali, assetti di “anormalità” economica, potrà verificarsi una ripresa fiscale là dove sia possibile individuare una strada fiscalmente più onerosa. in tal senso, la prova dell'elusione deve incentrarsi sulle modalità di manipolazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché sulla loro mancata conformità ad una normale logica di mercato.

Proprio in materia di elusione fiscale e di abuso del diritto, l'art. 10-bis della l. 212/2000 (Statuto dei Diritti del Contribuente), che ha sostituito il previgente art. 37-bis D.P.R. 600/1973, costituisce una norma “aperta” valevole quale principio generale volto a ricomprendere tutte quelle fattispecie abusive “atipiche” di derivazione costituzionale ed unionale (Cass. civ., Sez. trib., n. 17743 del 22/06/2021). Da qui ne deriva che la portata della norma sull'abuso del diritto sia alquanto aperta e non circoscritta a casi e fattispecie elencati tassativamente: ossia saranno abbracciati anche situazioni cd. “atipiche”.

Ricorrono poi fenomeni di abuso del diritto, in quanto aventi carattere elusivo, tutte quelle operazioni finanziarie compiute tra società appartenenti al medesimo gruppo (nazionale o sovranazionale), o comunque che fanno riferimento ai medesimi soggetti (persone fisiche o società), quali la cessione di partecipazioni in rapida sequenza cronologica, compiute con l'esclusiva finalità di elusione d'imposta, al semplice fine di ridurre il reddito imponibile. Tutto ciò se finalizzato ad ottenere un risultato fiscalmente vantaggioso per l'impresa, senza che concorrano altre valide e non marginali ragioni extrafiscali, configurerà proprio una fattispecie di elusione fiscale abusiva (Cass. civ., Sez. trib., n. 12853 del 13/05/2021).

Occorre infine un breve cenno circa la distinzione tra interposizione fittizia e reale. Infatti la disciplina antielusiva prevista dall'art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, non distingue tra l'interposizione fittizia – che ricorre quando, in forza di accordo simulatorio intercorrente tra interponente, terzo ed interposto, si finge di contrarre con una persona, ma in realtà si vuole che gli effetti negoziali si producano nei confronti di un'altra persona diversa da quella che appare nell'atto – ed interposizione reale – nella quale invece non vi è alcun accordo simulatorio tra le persone che prendono parte all'atto, il quale è effettivamente voluto; neppure presuppone necessariamente un comportamento fraduolento del contribuente, ma postula l'uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, tale da consentire di eludere l'applicazione del regime fiscale costituente il presupposto d'imposta, siccome è finalizzata a stigmatizzare operazioni volte ad aggirare la normativa fiscale alla luce del più generale principio del divieto di abuso del diritto (Cass. civ., Sez. trib., n. 11055 del 27/04/2021).

Entrando più nel dettaglio della decisione in esame, i giudici di legittimità hanno dapprima ripreso l'orientamento delle Sezioni Unite (n. 30055/2008) secondo cui debba essere delineato un principio di divieto dell'abuso del diritto “autonomo” rispetto a quello di derivazione comunitaria, in quanto i principi di capacità contributiva e di progressività (art. 53 Cost.), renderebbero sussistente nel sistema nazionale “il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione”.

Successivamente la Corte ha sottolineato che la prova dello schema elusivo, nonché delle modalità di distorsione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato ed utilizzati solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull'Amministrazione finanziaria, la quale dovrà dimostrare che la ragione “prevalente” che sorregge la scelta giuridica del contribuente è quella del risparmio fiscale, prova che può essere data mettendo a confronto il comportamento posto in essere con il “comportamento fisiologico aggirato, onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica” (Cass. civ., Sez. trib., n. 1465 del 21/10/2009 e n. 4603 del 26/02/2014). A sua volta il contribuente sarà chiamato a provare la sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, alternative e concorrenti, dotate di ragionevole consistenza, e non meramente marginali rispetto allo schema negoziale adottato. Ciò comporta che spetta all'Amministrazione finanziaria l'onere di spiegare perché lo schema negoziale impiegato dal contribuente abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all'operazione economica intrapresa, mentre ricade sul contribuente l'onere di provare l'esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. civ., sez. trib., n. 10458 del 20/05/2016 e n. 21390 del 30/11/2012).

L'attenzione dei giudici di legittimità è poi ricaduta sulla distinzione tra una pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva ed una libertà di scelta delle forme giuridiche. Distinzione che, a parere della Corte, è assai labile. Ma grazie alla giurisprudenza europea e nazionale è stato osservato come il carattere abusivo di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (Cass. civ., SS. UU. m. 30055 e 30057 del 2008, nonché CGUE nei casi 3M Italia, Halifax e Part Service), presuppone quanto meno l'esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell'obiettivo economico perseguito (Cass. n. 21390/2012) rispetto al quale indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (Cass. n. 4604/2014).

Riassumendo, in tema di abuso del diritto la Corte ha ritenuto valido ed attuale il principio già espresso in precedenza. Infatti per configurare una condotta abusiva sarà necessario valutare attentamente le cd. “ragioni economiche” delle operazioni negoziali realizzate in quanto se le stesse sono giustificabili in termini oggettivi (con riferimento alla pratica comune degli affari), allora il rischio di un fenomeno abusivo sarà assai minore o assente.

Invece se tali operazioni, anche se realizzate effettivamente, riflettono degli assetti di “anormalità” economica, pur attraverso artifici negoziali, allora si potrà verificare una ripresa fiscale qualora sia possibile individuare una strada fiscalmente più onerosa. La prova dell'elusione dovrà essere focalizzata sulle modalità di manipolazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati e sulla loro mancata conformità ad una normale logica di mercato.

Quanto al caso concreto, il giudice di appello aveva ritenuto irrilevanti i fatti posti a fondamento dell'accertamento fiscale, tramite i quali l'Agenzia delle Entrate tendeva a provare come lo scopo prevalente dell'operazione fosse un risparmio di imposta.

La CTR ha invece sconfessato lo scopo elusivo dell'operazione negoziale attribuendo efficacia prevalente al patto parasociale intervenuto tra la controllante ed i singoli soci dell'altra società, ed ai privilegi riconosciuti alla stessa controllante, con l'esclusione dell'abuso di diritto nella condotta posta in essere dalla contribuente siccome “le circostanze riguardanti la vita societaria e la libertà di impresa” di cui ai patti, non potevano essere sindacati dall'Amministrazione.

A dire della Cassazione, la decisione della Commissione tributaria regionale non risultava conforme ai principi dell'abuso del diritto siccome non ha valorizzato vari elementi sintomatici della sussistenza di una pratica abusiva sottesa all'intera operazione negoziale intervenuta tra le società: elementi che risulterebbero desumibili sia dagli assetti societari in cui sono originate le operazioni di cessione azionaria e sia dagli effetti – economici, logici e giuridici – prodotti dalla contestuale doppia operazione di vendita di azioni.

In conclusione, la Cassazione ha “ribaltato” le decisioni dei giudici di merito (favorevoli alla contribuente), accogliendo così il ricorso dell'Agenzia e, decidendo nel merito, ha rigettato il ricorso originario della contribuente.

Osservazioni

Sotto un punto di vista prettamente giuridico la sentenza verte sulla disciplina dell'abuso del diritto. Però tale principio, calato nel caso concreto affrontato, ci porta a considerare vari aspetti.

Come emerso dai fatti di causa, la questione che ha “insospettito” il Fisco riguardava la doppia operazione di vendita azionaria in cui nell'ultima vendita il prezzo azionario era pari ad almeno il doppio (circa il 241% in più) rispetto alla somma versata all'atto della prima compravendita. Infatti con tali operazioni si era generata una plusvalenza esente per la quasi totalità dell'operazione mentre per un microscopico importo si erano generati dei ricavi. L'Agenzia aveva così ipotizzato che lo scopo sotteso alle cessioni azionarie fosse il solo risparmio fiscale.

È proprio tale operazione che, a parere dell'Ufficio, costituiva una forma di abuso del diritto. Tesi che però è stata rigettata da entrambi i giudici di merito (in aderenza a quanto prospettato dal contribuente).

La Cassazione invece ha accolto il ricorso dell'Agenzia, ritenendo che tale operazione configurasse una vera e propria fattispecie di abuso del diritto.

Infatti nella sentenza in oggetto, i giudici di legittimità si sono focalizzati sulla disciplina dell'abuso del diritto, partendo dalla sua origine comunitaria per poi essere “calata”, in maniera assolutamente mitigata nel panorama domestico.

Da qui possiamo giungere a due tipologie di conclusioni: la prima, in termini più generici, alla disciplina dell'abuso del diritto e la seconda invece volta alla delimitazione al caso concreto esaminato.

Quanto al primo aspetto, possiamo ormai notare che la definizione di abuso del diritto è stata oggetto di intervento da parte della giurisprudenza euro-nazionale. Ormai è granitico il principio generale antielusivo secondo cui si configura un abuso ogni qual volta si sia in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, realizzate al fine di eludere l'imposizione, siano prive di sostanza commerciale ed economica, ma produttive di vantaggi fiscali. Quindi si tratta di condotte abusive correlate ad operazioni economiche realizzate attraverso un uso distorto (pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa) di strumenti giuridici posti in essere al solo scopo, elusivo, di realizzare un risparmio di imposta. Sarà poi l'Ufficio a dover provare che la ragione “prevalente” che sorregge la scelta giuridica del contribuente sia quella del risparmio fiscale. Prova che potrà essere fornita confrontando il comportamento posto in essere con quello “fisiologico aggirato”, al fine di far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica.

Però il contribuente potrà “liberarsi”, provando la sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, alternative e concorrenti, dotate di ragionevole consistenza e non meramente marginali rispetto allo schema negoziale adottato.

Ora i vari e successivi interventi del giudice di legittimità possono solo ampliare la casistica delle fattispecie abusive, che ha comunque quale minimo comun denominatore l'art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente.

Circa il secondo aspetto, per la Cassazione, che ha deciso anche nel merito, la doppia compravendita azionaria (unitamente ad altre operazioni), conclusa tra le varie società, ha configurato un fenomeno di abuso del diritto. Fenomeno che, per la Corte, dev'essere anzitutto ricercato nel fatto che le azioni siano state cedute, nell'ultimo atto, ad un prezzo pari a circa il 240% (oltre il doppio) del valore corrispondente alla prima vendita, per il solo scopo (come sostenuto dall'Agenzia) di ricavarne un maggior risparmio fiscale.

Infatti l'ultima acquirente ha generato una pratica abusiva, siccome ha acquistato la totalità delle azioni, acquisendo la titolarità esclusiva in qualità di socio unico (e tiranno), per un prezzo totale pari ad oltre il doppio (circa il 241%) di quello versato nella prima compravendita.

Inoltre per la Corte, altro aspetto sintomatico di pratica abusiva risiede nel fatto che le due società venditrici, prima della cessione azionaria all'acquirente finale, facevano capo ai medesimi soggetti, ossia persone fisiche. A parere dell'Ufficio, proprio tale situazione societaria lascia dedurre che, nonostante si trattasse di società dotate ciascuna di propria autonomia soggettiva, le stesse rappresentassero un unico soggetto economico, portatore di un unico centro di interessi. Di conseguenza entrambe le società hanno scelto lo schema negoziale di cessione azionaria in virtù di una volontà prestabilita da entrambe e non frutto di un'autonoma deliberazione, nell'interesse del gruppo societario.

In conclusione, le pratiche di abuso del diritto sono sotto la lente di ingrandimento sia del fisco domestico che di quello internazionale, proprio perché si cercano di combattere tute le forme di pianificazione fiscale aggressiva. Però c'è da porre attenzione: non tutti i fenomeni che possano sembrare elusivi in realtà siano tali. Infatti, è sempre l'Ufficio a dover fornire la prova dell'abuso. Però poi la palla passa al contribuente che dovrà provare l'esatto contrario: ossia che la pratica realizzata non è una forma di elusione, dimostrando l'esistenza di ragioni economiche alternative e concorrenti che giustifichino l'aver realizzato le operazioni così strutturate.