Accertamento basato su pen drive rinvenute all'interno di un'autovettura
23 Dicembre 2021
Massima
È legittima la perquisizione senza autorizzazione del procuratore della Repubblica, laddove l'auto in utilizzo al dipendente sia intestata in via esclusiva alla società e si trovi nel parcheggio della stessa società. Né, del resto, la vettura può essere considerata “domicilio”, o luogo ad esso equiparabile. In tal caso trova dunque applicazione la disciplina generale per la quale non necessita di autorizzazione da parte dell'autorità giudiziaria ogni ispezione effettuata sui beni o locali appartenenti all'impresa. Se poi, all'interno dell'auto, vengono rinvenute pen drive contenenti l'intero apparato delle scritture contabili “parallele”, queste rappresentano a tutti gli effetti contabilità in nero; valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità e precisione, per procedere ad accertamento. Il caso
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 36474 del 24 novembre 2021, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di utilizzo ai fini accertativi di pen drive, rinvenute peraltro non in azienda, ma all'interno di un'autovettura. Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva rigettato l'appello proposto da una società contribuente in liquidazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, che aveva respinto i ricorsi riuniti presentati dalla stessa contribuente contro avvisi di accertamento emessi nei suoi confronti, per gli anni 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, 2009 e 2010, sulla base di contabilità “parallela” rinvenuta all'interno di un'autovettura di proprietà della società, in uso promiscuo al dirigente dello stabilimento, e contenuta su alcune pen drive poste nel bagagliaio dell'auto. Il giudice d'appello, in particolare, evidenziava che gli avvisi di accertamento erano correttamente motivati in presenza di elementi presuntivi consistenti, costituiti appunto dalla contabilità “in nero” reperita nel corso dell'ispezione, non potendosi trattare di meri budget previsionali. Avverso tale sentenza la società proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, la illegittimità della sentenza per violazione dell'art. 52, commi 1,2 e 3 d.P.R. n. 633/1972. Evidenziava la ricorrente che, per l'accesso nei locali destinati all'attività commerciale è sufficiente l'ordine di servizio, mentre l'accesso in “locali diversi” da quelli di esercizio dell'attività necessita della previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, sempre che ricorrano gravi indizi di violazioni. Anche nei locali adibiti ad uso promiscuo, intendendo per tali i locali che siano adibiti anche ad abitazione, sarebbe dunque necessaria sempre l'autorizzazione del procuratore. Tanto premesso, rilevava la contribuente, nella specie, le pen drive (chiavette USB) erano state rinvenute all'interno del bagagliaio di un'autovettura, intestata alla società ma concessa ad uso promiscuo (di servizio e personale) ad un dipendente, come da regolare contratto stipulato per la concessione del relativo fringe benefit; ed era assente l'autorizzazione del procuratore della Repubblica ad accedervi (non essendo del resto l'auto neppure in uso al presidente del consiglio di amministrazione). Con altro motivo di impugnazione la ricorrente lamentava poi la illegittimità della sentenza per violazione dell'art. 39, primo comma, d.P.R. n. 600/1973, 54 d.P.R. n. 633/1972 e degli artt. 2727 e 2729 c.c. e 2697 c.c., laddove, a suo avviso, il semplice rinvenimento delle chiavette USB con all'interno alcuni conti del bilancio non costituiva un indizio grave e preciso ai fini della legittimità della ripresa fiscale. La questione
Al momento dell'accesso presso la sede della società gli organi accertatori avevano effettuato una perquisizione nell'autovettura rinvenuta nel parcheggio dello stabilimento. L'autovettura era intestata alla società, ma assegnata in uso promiscuo al direttore dello stabilimento, e, al suo interno, nel vano portabagagli, erano state rinvenute 3 pen drive, con tutta la contabilità “parallela” rispetto alle scritture contabili, con indicazione, anche linguistica, di tale doppia contabilità, attraverso l'aggiunta bis (conto/divani bis, salotti-bis, etc). Quanto al contesto normativo di riferimento, l'art. 52, primo comma, d.P.R. n. 633/1972 dispone che “gli uffici dell'imposta sul valore aggiunto possono disporre l'accesso di impiegati dell'Amministrazione finanziaria nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistico professionali”, con la precisazione che “gli impiegati che eseguono l'accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell'ufficio da cui dipendono” e che “tuttavia per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione, è necessaria anche l'autorizzazione del procuratore della Repubblica”.
L'art. 52, secondo comma, del medesimo decreto, dispone poi che “l'accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni”.
Tanto premesso, nella specie, era pacifico che l'autovettura fosse parcheggiata all'interno dello stabilimento, che fosse intestata in via esclusiva alla società e che fosse utilizzata in uso promiscuo dal direttore dello stabilimento, laddove ciò che rileva, nel caso di perquisizione di una autovettura, è se la stessa possa essere assimilata ai “locali destinati all'esercizio di attività commerciali”, o se, invece, debba essere ritenuta “locale diverso”. La Cassazione aveva peraltro già affrontato la questione, affermando che, in tema di IVA, è illegittimo l'avviso di rettifica della dichiarazione di una società fondato su documentazione contabile rinvenuta all'interno dell'autovettura di un suo dipendente, sottoposto a controllo da una pattuglia della Guardia di Finanza senza autorizzazione del Procuratore della Repubblica, ancorché tale documentazione sia stata consegnata spontaneamente dal dipendente e i verbalizzanti siano stati poi da questo accompagnati nei locali della società per la compilazione del processo verbale di constatazione, atteso che il successivo accesso e la verifica in detti locali non vale a rendere utilizzabili le risultanze di un'acquisizione documentale illegittima fin dalla sua origine (cfr., Cass., sez. I, 8 novembre 1997, n. 11036).
La stessa Corte si è però poi anche occupata, in senso contrario, della diversa ipotesi in cui la documentazione contabile della società venga rinvenuta all'interno dell'auto di proprietà del fratello dell'amministratore, che era stato sorpreso proprio nell'atto del prelevamento della documentazione dalla società per riporla all'interno dell'autovettura (Cass., sez. 5, n. 10590/2011), precisando che poiché i militari si erano recati presso l'abitazione dell'amministratore e avevano notato il sospetto trasporto di documentazione nella vettura del fratello di questi, tale auto “non era in quel momento adibita a uso personale, ma al trasporto di documentazione dell'azienda in verifica”.
Si trattava, allora, affermava in quell'occasione la Corte, di un veicolo che, di fatto, e in quel particolare momento, era riferibile all'impresa e al suo amministratore, non differendo funzionalmente la struttura di tale veicolo da qualsiasi altro luogo chiuso idoneo a ricevere ed occultare cose, comunque, attinenti all'impresa stessa. La soluzione giuridica
Secondo la Suprema Corte, nella specie, il ricorso era infondato. Evidenziano i giudici di legittimità che gli stessi principi sopra, da ultimo, richiamati potevano essere traslati nella fattispecie in esame, che si connotava, peraltro, di un ulteriore elemento a favore della legittimità della perquisizione senza l'ausilio dell'autorizzazione del procuratore della Repubblica, laddove, come detto, da un lato l'auto era intestata in via esclusiva alla società e, dall'altro, l'auto, all'interno della quale erano occultate le pen drive contenenti l'intero apparato delle scritture contabili “parallele”, si trovava proprio nel parcheggio della stessa società, ed era utilizzata, proprio in quel frangente, come auto del direttore dello stabilimento per recarsi al lavoro. Trattandosi di utilizzo promiscuo, sia per l'attività lavorativa che per la vita privata, al momento della perquisizione degli organi accertatori, l'auto era dunque da considerarsi utilizzata a fini lavorativi (e infatti si trovava parcheggiata, in orario di lavoro, all'interno dello stabilimento della società).
Né l'auto in questione poteva ovviamente essere considerata “domicilio”, o luogo ad esso equiparabile, trattandosi di spazio privo dei requisiti minimi necessari per potervi soggiornare per un apprezzabile periodo di tempo e nel quale non si compivano atti caratteristici della vita domestica (cfr., Cass.pen., sez. 4, n. 19375 del 6 maggio 2013).
La Cassazione rileva inoltre, nel caso di perquisizione effettuata sull'autovettura dell'amministratore della società, la stessa Corte (cfr., Cass., sez. 5, 3 luglio 2003, n. 10489) ha già ritenuto che l'utilizzo del veicolo risulta riferibile all'attività di impresa, trovando dunque applicazione la disciplina generale per la quale non necessita di autorizzazione da parte dell'autorità giudiziaria ogni ispezione effettuata sui beni o locali appartenenti all'impresa. Anche l'altra censura avanzata dalla ricorrente, secondo la Cassazione, era del resto infondata.
Evidenziano a tal proposito i giudici di legittimità che la ricorrente chiedeva, in sostanza, un nuovo (inammissibile) accertamento su fatti ed elementi istruttori, già compiutamente valutati dal giudice di merito, laddove peraltro, trattandosi di doppia decisione conforme di merito, sulla base dei medesimi elementi istruttori, la stessa censura era comunque inammissibile (pur avendo la ricorrente “dissimulato” il motivo di ricorso con la deduzione della violazione di legge ex articoli 2727 e 2729 c.c.).
In ogni caso, la Suprema Corte conferma come la contabilità in nero, costituita da appunti personali e da informazioni dell'imprenditore (analogici o digitali che siano), rappresenta sempre un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità e precisione, prescritti dall'art. 39 d.P.R. n. 600/1973, laddove, nella nozione di scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e ss. c.c., devono ricomprendersi tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti di impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell'imprenditore ed il risultato economico dell'attività svolta, spettando poi al contribuente l'onere di fornire adeguata prova contraria (cfr., Cass., 23 maggio 2018, n. 12680; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27622). Inoltre, aggiungono i giudici, in tema di accertamento dei redditi di impresa, di cui all'art. 39 comma 1 lettera d), d.P.R. n. 600/1973, il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un'impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purché grave e precisa (cfr., Cass., 22 dicembre 2017, n. 30803, Cass., 27 febbraio 2015, n. 4080 e Cass., 16 novembre 2011, n. 24051, proprio con riferimento a brogliacci reperiti presso la sede della società).
E nella specie, del resto, emergeva chiaramente la predisposizione di una contabilità ufficiosa, che aveva “doppiato” la contabilità ufficiale.
Osservazioni
A prescindere dallo specifico caso processuale, in termini più generali giova anche evidenziare quanto segue. Quando la documentazione rinvenuta evidenzia elementi significativi di una contabilità in nero, essa rappresenta sempre un valido elemento indiziario, che può, di per sé, essere dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, spettando poi al contribuente l'onere di fornire l'adeguata prova contraria. La documentazione extracontabile non può quindi essere ritenuta probatoriamente irrilevante dal giudice, salvo che l'analisi delle indicazioni dalla stessa promananti e la comparazione delle stesse con gli ulteriori dati acquisiti, compresa la contabilità ufficiale del contribuente, conducano a tale conclusione (cfr., Cass., Sentenza n. 25476 del 12/10/2018). In tema di prova per presunzioni il giudice è, in sostanza, tenuto a seguire un procedimento che si articola in due momenti valutativi. In primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari, per scartare quelli privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che presentino una potenziale efficacia probatoria. Successivamente, il giudice deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva. E in tale combinazione rientra sicuramente anche la eventuale documentazione extracontabile. La rettifica può essere quindi effettuata anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, sulla base di altri documenti o scritture contabili (diverse da quelle previste dalla legge), o in riferimento ad "altri dati e notizie" raccolti nei modi prescritti dalla legge. La documentazione extracontabile, reperita presso la sede dell'impresa, o comunque presso locali a lei riconducibili, costituisce dunque elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile, laddove il rinvenimento di una prova, come la documentazione extracontabile, data la gravità dell'indizio riscontrato, consente all'Amministrazione finanziaria di procedere addirittura ad accertamento induttivo puro. E tra la documentazione extracontabile di rilievo vi sono sicuramente anche i ‘nuovi' mezzi di prova digitali e la documentazione extracontabile digitale in genere. La Suprema Corte, peraltro, già con la sentenza n. 3388 del 12 febbraio 2010, ha stabilito che le notizie e gli elementi desunti e legittimamente ricavati dall'esame dei supporti informatici e dai file elettronici, che contengono dati contabili ed extracontabili, sono utilizzabili ai fini della determinazione e della rettifica del reddito. Ancora la Corte di Cassazione è tornata sull'argomento attraverso l'Ordinanza n. 5226 del 30 marzo 2012. Anche in questo caso la Corte di Cassazione ha riconosciuto l'utilizzabilità dei documenti informatici rinvenuti, data la loro attendibilità e le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza degli indizi ivi contenuti, utili per l'elaborazione di apposite presunzioni.
Si legge infatti nella citata pronuncia, «i documenti informatici (cosiddetti ‘files'), […], costituiscono […] elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile, salva la verifica della loro attendibilità». La documentazione extracontabile digitale, benché sia, ontologicamente e giuridicamente, equiparabile alla documentazione extracontabile analogica, appare del resto però anche caratterizzata da profili di peculiare problematicità. In particolare, appaiono delinearsi due distinte sottotematiche, tra loro strettamente interconnesse:
Procedere all'estrazione di file da supporti informatici è infatti un'operazione non certo equiparabile, per complessità e natura, all'acquisizione di un documento analogico, anche considerato che dalla documentazione acquisita nel corso di una verifica fiscale ben possono emergere anche risultanze penalmente rilevanti. Pertanto, andrebbe garantita, sin dall'esercizio dei poteri di polizia tributaria, la messa in atto di accorgimenti tecnici atti a garantire, anche in sede penale, la piena utilizzabilità delle evidenze digitali. Quanto poi all'altra questione coinvolta nel giudizio in esame, quella dell'accesso presso locali aziendali o esterni, giova infine evidenziare quanto segue. In tema di autorizzazione all'accesso in locali adibiti anche ad abitazione, l'uso "promiscuo" va sempre attentamente considerato. L'autorizzazione del Procuratore della Repubblica, prescritta ai fini dell'accesso dell'Amministrazione finanziaria a locali adibiti anche ad abitazione del contribuente, ovvero esclusivamente ad abitazione, è subordinata infatti alla presenza di gravi indizi di violazioni soltanto in quest'ultima ipotesi e non anche quando si tratti di locali ad uso promiscuo. Tale ultima destinazione ricorre peraltro non soltanto nell'ipotesi in cui gli ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l'attività professionale, ma anche ogni qual volta l'agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento di documenti propri dell'attività commerciale nei locali abitativi.
Il d.P.R. n. 633/72, art. 52, co.1, disciplina del resto l'accesso nei locali adibiti all'esercizio di attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero ad uso promiscuo, limitandosi a richiedere l'autorizzazione del capo dell'ufficio e quella del Procuratore della Repubblica, senza però fissare specifici presupposti, in entrambi i casi trattandosi di un mero adempimento procedimentale. Il co.2 dello stesso articolo, attinente all'accesso in locali ad uso esclusivamente abitativo, richiede invece, anche in considerazione dell'art. 14 Cost. sull'inviolabilità del domicilio, non solo l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica, ma anche la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria, previsione che conferisce all'autorizzazione la portata, non di semplice nulla-osta, bensì di provvedimento valutativo della ricorrenza di specifici presupposti giustificativi dell'ingresso nell'abitazione.
Del resto, se è vero che, in materia tributaria, per quanto concerne l'accesso presso locali destinati all'esercizio di attività commerciali, l'irritualità nell'acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell'accertamento per mancanza dell'autorizzazione prevista dal d.P.R. n. 633/1972, art. 52, comma 1, non comporta, di per sè, l'inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso (cfr., Cass. 8344/2001; 14058/2006; 27149/2011), è però anche vero che sono da ritenersi esclusi da tale principio (di utilizzabilità) i casi in cui (comma 2) viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come, appunto, l'inviolabilità della libertà personale o del domicilio.
L'autorizzazione del Procuratore della Repubblica all'accesso domiciliare è comunque contraddistinta da un largo margine di discrezionalità, da cui discende il carattere necessariamente sintetico della relativa motivazione (cfr., Cass., Ord. n. 23824 dell'11/10/2017). Si evidenzia infine che se il contribuente non si è opposto all'accesso, allora, non può poi neppure contestarne gli effetti in termini di legittimità.
La Cassazione, già con sentenza 27 luglio 1998, ha infatti a tal proposito riconosciuto che l'assenso del contribuente supera ogni questione sulla regolarità dell'atto istruttorio. E dunque, se "l'accesso si è verificato con il consenso del contribuente, ciò ... vale a superare ogni questione sulla legittimità dell'accesso stesso", dato che "il rifiuto all'accesso deve essere fatto constatare nel processo verbale di verifica, dandosi atto che l'accesso è stato effettuato nonostante l'opposizione".
Da sottolineare, ancora, che la tutela dell'inviolabilità del domicilio, garantita dalla autorizzazione del Procuratore della Repubblica, è riconosciuta solo qualora la destinazione abitativa o associativa dei luoghi a cui si accede sia connotata dai caratteri dell'effettività e dell'attualità, e non invece nei casi in cui sia il frutto di una astratta progettualità o di una dolosa qualificazione. |