Nulla la sentenza che non consente di individuare i presupposti della decisione
07 Marzo 2022
Massima
Nel contenzioso tributario conseguente ad accertamenti sintetici-induttivi mediante cd. redditometro, per la determinazione dell'obbligazione fiscale del soggetto passivo d'imposta costituisce principio a tutela della parità delle parti e del regolare contraddittorio processuale quello secondo cui all'inversione dell'onere della prova, che impone al contribuente l'allegazione di prove contrarie a dimostrazione dell'inesistenza del maggior reddito attribuito dall'Ufficio, deve seguire, ove a quell'onere abbia adempiuto, un esame analitico da parte dell'organo giudicante, che non può pertanto limitarsi a giudizi sommari, privi cli ogni riferimento alla massa documentale entrata nel processo relativa agli indici di spesa. Il caso
Il caso riguarda un dottore commercialista, nei cui confronti era stato emesso un avviso di accertamento ricorrendo all'utilizzo del c.d. “redditometro”. Il professionista risultava possedere, infatti, due autovetture, due barche a motore e tre abitazioni. A seguito dell'accertamento ricevuto, quest'ultimo proponeva ricorso, evidenziando, tra l'altro, che le spese effettivamente sostenute per il godimento dei mezzi di trasporto fossero nettamente inferiore a quello stimato dagli Uffici. Tale ricorso era accolto della Commissione tributaria provinciale di Napoli. Avverso tale decisione l'Ufficio proponeva atto di appello principale, il quale era parzialmente accolto dalla Commissione tributaria regionale della Campania.
In particolare, il giudice d'appello evidenziava che la documentazione prodotta dal contribuente tesa a giustificare minori spese sostenute in ordine alla gestione dei beni posseduti non era sufficiente, in quanto costruita con criteri esclusivamente soggettivi, peraltro carente di alcune spese significative per la gestione ed il mantenimento dei beni. Avverso tale sentenza il contribuente proponeva ricorso per cassazione. In particolare, con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduceva il vizio di motivazione apparente della sentenza, eccependo la violazione dell'art. 111 Cost., comma 6 e dell'art. 36 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La Corte di Cassazione, nel qualificare la motivazione indicata nella pronuncia della Commissione Tributaria Regionale come “una mera petizione di principio, di carattere apodittico”, in accoglimento del ricorso, cassava con rinvio la sentenza impugnata (v. Cass. 37662/2021).
Secondo il Giudice di Legittimità si era, infatti, in presenza di “motivazione apparente” allorquando “la motivazione, pur essendo graficamente (e quindi materialmente esistente), come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste in argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l'iter logico seguito per la formazione del convincimento”. La coincisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto della decisione non rappresentano, d'altra parte, un elemento meramente formale, ma un requisito che rende possibile comprendere le ragioni della decisione stessa, la cui mancanza, quindi, costituisce elemento di nullità della sentenza se non è possibile individuare gli elementi di fatto considerati a presupposto della decisione (Cass., sez. L., 14 febbraio 2020, n. 3819). “Il vizio di motivazione, infatti, sussiste quando il giudice non indichi affatto le ragioni del proprio convincimento rinviando genericamente e per relationem, al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito” (v. Cass. sez. V, 25 maggio 2011, n. 11473). La questione
La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se sia o meno legittima la sentenza tributaria che non esamina in modo analitico la documentazione del contribuente. La soluzione giuridica
Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituiti coinvolti nel caso in disamina. Dal combinato disposto dell'art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., applicabile ex comma 2 art. 1 d.lgs. 546/1992 e dall'art. 36 d.lgs. 546/1992, si ricava il contenuto minimo della sentenza, la cui inosservanza delle prescrizioni può comportarne la nullità del provvedimento (sebbene alcune omissioni o errate indicazioni possano, invece, essere corrette mediante il procedimento di correzione delle sentenze ai sensi dell'art. 287 c.p.c.). A mente del citato art. 36 la sentenza deve contenere l'indicazione della composizione del collegio, delle parti, dei loro difensori se vi sono, la concisa esposizione dello svolgimento del processo, le richieste delle parti, la succinta esposizione dei motivi in fatto e in diritto, il dispositivo, la data della deliberazione, la sottoscrizione del presidente e dell'estensore. La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano ed intestata alla Repubblica italiana. Il difetto di intestazione nella sentenza non comporta la nullità della stessa, posto che a ciò si può ovviare mediante il procedimento di correzione delle sentenze ex art. 287 c.p.c. (v. Cass. 30.1.85 n. 550).
La sentenza deve contenere l'indicazione dei giudici che hanno partecipato alla decisione (art. 36 del d.lgs. 546/1992). L'indicazione dei componenti del collegio comprende l'ufficio giudiziario territoriale che ha emanato la sentenza (ad esempio, la Commissione tributaria provinciale di Trapani) e le persone fisiche che hanno partecipato alla deliberazione. La sentenza è da ritenersi nulla se la deliberazione è avvenuta da giudici diversi rispetto a quelli che hanno partecipato alla discussione (l'indicazione dei componenti del collegio è strumentale alla verifica del rispetto del principio di “immutabilità” del giudice: infatti consente di appurare se i giudici che hanno deliberato sono le stesse persone fisiche dinanzi alle quali si è svolta la discussione) o da un numero di giudici inferiore o superiore rispetto al numero legale previsto dalla legge.
In merito al giudici, qualora l'indicazione dei componenti contenuta nell'epigrafe della sentenza sia diversa da quella risultante dal verbale di udienza (che fa fede fino a querela di falso), la sentenza è nulla per violazione dell'art. 276 c.p.c. (v. C.T. II Bolzano 24 febbraio 1997 n. 30). Nella sentenza deve essere presente l'indicazione delle parti e dei difensori (art. 36 del d.lgs. 546/92), la cui omessa o inesatta indicazione non comporta, di per sé, la nullità della sentenza, posto che è possibile ricorrere al procedimento di correzione delle sentenze ex art. 287 c.p.c. (la nullità della sentenza si verifica solo quando vi è stata una violazione effettiva del contraddittorio, di cui può costituire sintomo la mancata indicazione delle parti, v. Cass. 27.6.2001 n. 8782).
La sentenza deve contenere, tra l'altro, la concisa esposizione dello svolgimento del processo. La narrazione dei principali eventi del processo è collegata alla parte motivazionale della sentenza per cui, in determinati casi, la sua omissione può comportare la nullità della pronuncia. Si evidenzia che l'omessa esposizione dello svolgimento del processo causa la nullità della sentenza, soltanto laddove tale omissione impedisca totalmente di individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella pronunzia (v. Cass. 26.2.2001 n. 2781 e Cass. 24.3.2006 n. 6660). La sentenza è, altresì, nulla laddove risulti priva dell'esposizione dello svolgimento del processo o contenga una motivazione estremamente succinta in diritto, tale da non poter individuare il thema decidendum delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (v. Cass. 1.8.2008 n. 20957 e Cass. 3.10.2008 n. 24610, Cass. 6.12.2013 n. 27356). Sebbene la sentenza debba contenere le richieste delle parti, la loro mancanza non comporta la nullità della pronuncia. La sentenza è costituita essenzialmente dal dispositivo e dalla motivazione che, nella loro intima compenetrazione, concorrono a formare la forza imperativa della decisione, con la conseguenza che, mancando l'uno o l'altra, la sentenza è affetta da radicale inesistenza, la quale può essere fatta valere, oltre che con l'actio nullitatis, proponibile in ogni tempo, anche mediante gli ordinari mezzi di impugnazione (v. Cass. 18948/2006). La motivazione è la parte della sentenza da cui si evince il percorso logico giuridico seguito dal giudice per pervenire alla decisione ed è scritta dal relatore, a meno che il presidente non abbia ritenuto di stenderla egli stesso o di affidarla all'altro giudice (art. 276 c.p.c.). La parte motiva della sentenza deve ripercorrere, sebbene succintamente, la ratio decidendi fatta propria dal collegio giudicante. In tal modo, le parti possono verificare che il giudice abbia esaminato le eccezioni sollevate: in ipotesi contraria, la sentenza può essere censurata nell'impugnazione. È cioè necessario che il Giudice espliciti, anche sinteticamente, l'iter logico-giuridico seguito per pervenire alla decisione (v. Cass. 7.3.2014 n. 5345). La motivazione deve, a pena di nullità, dare atto dei motivi delle parti (v. Cass. 7.9.2015 n. 16612), altrimenti è omessa la possibilità di ritenere che essi siano stati valutati. Il contenuto motivazionale deve essere sorretto da logicità, sia nel senso comune del termine sia nel senso di logica giuridica. La parte motiva della sentenza deve essere, secondo le regole e l'orientamento tradizionale, autosufficiente, nel senso che il percorso logico giuridico seguito dal giudice si deve evincere dalla lettura della sentenza stessa, e non tramite l'ausilio di documentazione esterna. Ciò detto e tornando al caso in premessa, a fronte della imponente produzione documentale da parte del contribuente, che aveva indicato analiticamente i costi sostenuti per le auto e per le imbarcazioni, e che ha anche allegato di aver dato incarico di vendita dell'imbarcazione, il giudice d'appello aveva reso una motivazione del tutto apparente, in quanto completamente avulsa dai documenti prodotti da parte del contribuente, con una disamina logico-giuridica del tutto superficiale degli stessi Osservazioni
La Corte di Cassazione, nel considerare solo apparente la motivazione della sentenza, accoglieva il ricorso, cassando la pronunzia impugnata e rinviando alla Commissione Tributaria Regionale in diversa composizione. Invero, costituisce motivazione apparente quella benché graficamente esistente, essa non renda percepibile il fondamento della decisione (v. Cass. 22507/2019), perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice (v. Cass. 1720/2018) per la formazione del proprio convincimento (v. Cass. 21687/2018 e Cass. 26130/2017). Ciò accade ad esempio quando manchi qualsiasi elaborazione critica degli argomenti dedotti. Parimenti, è motivazione apparente quella (ahimè!) divenuta prassi e consuetudine - negativa - nella Commissione tributaria più familiare a chi scrive (Trapani), in cui alcune sentenze, stringate, ridotte, brevi, laconiche e succinte (e i sinonimi non rendono la lesione recata al contribuente, soccombente nella quasi totalità dei casi), si connotano per il ricorso alle formule di stile quali, “..visto.. ..visto...visto...”, censurate sia dallo scrivente e dai colleghi avvocati e commercialisti, sia dall'Ufficio impositore, considerate come una sorte di ibrido provvedimento amministrativo di matrice giurisprudenziale. Pronunzie in cui il giudicante, si è limitato ad affermare d'aver “..visto il ricorso con tutti gli allegati..”, d'aver “..visto gli avvisi di accertamento..” e “..d'aver visto il contraddittorio..”, ascendono a sentenze nulle per il ricorso a vietate clausole di stile (v. Cass. 8850/2014, CTP Emilia-Romagna Reggio Emilia 138/3/2014, CTC 28-01-1985, n. 600): dette, devono ritenersi non ammesse, per il semplice fatto che tali espressioni, non danno alcuna prova di autonoma considerazione dei fatti. Del pari è apparente la motivazione di una pronunzia in caso di generico e superficiale richiamo “alle argomentazioni dell'appello”, senza alcuna precisazione o di rinvii meramente generici ad atti del processo, ovvero in caso di apodittico riferimento a “espressioni e calcoli ambigui” senza ulteriore specificazione (v. Cass. 13.5.2016 n. 9875).
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