Grava sul medico la prova della corretta esecuzione dell'intervento
10 Giugno 2022
Massima
Una volta emerso e provato, sul piano presuntivo, il nesso causale tra l'intervento sanitario e l'evento dannoso, non spetta al paziente, che ha debitamente allegato l'errore del medico dimostrare tale circostanza, concretante l'inesatto adempimento della obbligazione professionale, ma spetta al professionista e alla struttura sanitaria dimostrare l'esatto adempimento, provando, in ossequio al parametro della diligenza qualificata di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., di avere eseguito la prestazione in modo corretto, attenendosi, anche in relazione al numero dei prelievi effettuati, alle regole tecniche proprie della professione esercitata. Il caso
I coniugi S.M. e G. G. - premesso che la prima, alla quindicesima settimana di gravidanza, si era sottoposta ad amniocentesi presso il presidio ospedaliero di Massa Carrara; che l'esame era stato eseguito in modo imprudente e imperito dal dott. P.B., il quale, contrariamente alle indicazioni della letteratura medica, aveva proceduto a tre consecutive inserzioni dell'ago nell'utero della donna, con ciò provocandole il pericolo di aborto; che questo pericolo si era manifestato subito dopo l'esame, allorché la sig.ra S.M., uscendo dal nosocomio, aveva subìto una perdita di liquido amniotico; e che all'esito di tre ripetuti ricoveri (il primo, nell'immediatezza della perdita, presso lo stesso ospedale di M.C., interrotto per dimissione della paziente il giorno successivo; il secondo, dopo una settimana, presso l'ospedale di Pisa, disposto a seguito di certificato medico di rottura del sacco amniotico ma anche questo interrotto il giorno successivo; e il terzo, effettuato dopo che erano trascorsi alcuni altri giorni, presso il medesimo ospedale di Pisa) l'evento abortivo si era purtroppo effettivamente verificato - convennero dinanzi al Tribunale di Massa la A.S.L. n. 1 di Massa e Carrara e il medico, chiedendone la condanna al risarcimento del pregiudizio non patrimoniale derivante dalla perdita del frutto del loro concepimento nonché del danno biologico temporaneo subìto dalla gestante. La domanda, accolta in parte dal tribunale, è stata rigettata dalla Corte di appello di Genova, fondamentalmente sulla base del rilievo che non poteva ritenersi provata la condotta imprudente e imperita ascritta al medico (asseritamente consistente nella effettuazione di tre prelievi transaddominali di liquido amniotico dalla cavità uterina della sig.ra M.) non poteva ritenersi provata. In particolare, ad avviso della Corte genovese, non poteva «dirsi affatto raggiunta la prova (a carico degli attori che avevano indicato in citazione l'esecuzione di "... tre inserzioni dell'ago nell'arco di 45 minuti" quale causa dell'evento dannoso) che il dott. B. avesse effettuato tale terza in fissione», restando così non dimostrato il dedotto fatto colposo del medico. La questione
Avverso la sentenza della Corte genovese S.M. e G. G. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi. In particolare, con il quinto motivo di ricorso, i ricorrenti denunciano la violazione, da parte della Corte territoriale, della regola di riparto dell'onere probatorio in tema di responsabilità sanitaria. Deducono che, in base ai criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, premessa la natura contrattuale della responsabilità del medico e della struttura sanitaria, incomberebbe sui debitori l'onere di dimostrare di aver «fatto tutto il possibile per adempiere». Indebitamente dunque, nella vicenda in esame, la Corte di appello avrebbe fatto dipendere il rigetto della domanda dalla mancata dimostrazione del fatto colposo del medico, essendo gli attori tenuti bensì ad allegare, ma non anche a provare l'inadempimento o l'inesatto adempimento dei convenuti. Le soluzioni giuridiche
Con la sentenza in rassegna, la Suprema Corte - ritenendo fondato il quinto motivo di ricorso - cassa con rinvio la pronuncia della Corte di Appello di Genova, rilevando come, nella fattispecie, i giudici avevano errato nell'applicazione della regola sul riparto dell'onere della prova, atteso che non spettava agli attori dare la prova dell'allegato errore del sanitario, ma spettava a quest'ultimo fornire la prova liberatoria di avere esattamente adempiuto, dimostrando che la condotta imprudente ed imperita addebitatagli non era stata da lui posta in essere. La soluzione offerta dai Giudici di legittimità muove, anzitutto, dalla riconduzione della fattispecie in esame nell'ambito della responsabilità contrattuale, trattandosi di vicenda svoltasi prima dell'entrata in vigore della legge Gelli. I Giudici di legittimità evidenziano come il criterio di riparto dell'onere della prova in siffatte fattispecie non è quello che governa la responsabilità aquiliana (nell'ambito della quale il danneggiato è onerato della dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito ascritto al danneggiante) ma quello che governa la responsabilità contrattuale, in base al quale il creditore che abbia provato la fonte del suo credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l'inadempimento o l'inesatto adempimento del debitore, spettando a quest'ultimo la prova dell'esatto adempimento (Cass. civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533; tra le conformi più recenti, ex multis, Cass. civ., 20 gennaio 2015, n. 826; Cass. civ., 4 gennaio 2019, n. 98; Cass. civ., 11 febbraio 2021, n. 3587). Osservazioni
L'ordinanza in rassegna si colloca nel solco della giurisprudenza di legittimità che, sin da Cass. civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, ha affermato che “In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione)”. La pronuncia in commento – pur non introducendo elementi di novità nel panorama giurisprudenziale – consente di svolgere alcune considerazioni di carattere generale sull'onere della prova e di fare il punto su due questioni specifiche. Nell'ambito della nozione generale dell'onere della prova vengono talvolta tracciate alcune distinzioni. Tra queste è frequente la distinzione tra onere della prova in senso soggettivo (o subjektive Beweislast) e onere della prova in senso oggettivo (objektive Beweislast; materielle Beweislast; Feststellungslast). Per onere della prova in senso soggettivo si intende solitamente un'applicazione della relativa regola in funzione della quale ogni parte, nel corso del processo, dovrebbe fornire la prova di determinati fatti e non di altri. Sotto questo profilo le regole relative all'onere della prova vengono intese come regole che si occupano della provenienza delle deduzioni probatorie. Si ritiene cioè che esse riguardino l'attività probatoria delle parti, indicando ciò che ogni parte deve provare se vuole evitare la soccombenza. In sede di decisione queste regole opererebbero nel senso di provocare la soccombenza della parte che non è stata abbastanza attiva nel dedurre prove sui fatti che ha allegato. L'onere della prova in senso oggettivo guarda invece all'esito finale e complessivo delle attività probatorie che si sono svolte nel corso del processo. Se le prove assunte consentono al giudice di dare per dimostrata l'esistenza di tutti i fatti giuridicamente rilevanti, le regole sull'onere della prova non hanno modo di entrare in gioco e la controversia viene decisa applicando la disciplina sostanziale della fattispecie. Se, viceversa, un fatto rilevante risulta non provato, le regole sull'onere della prova trovano applicazione come criteri per stabilire quale parte debba sopportarne le conseguenze negative, a seconda della natura e della qualificazione del fatto non provato. L'aspetto essenziale è che in questo modo si guarda a quali fatti sono stati o non sono stati provati, secondo una considerazione oggettiva dell'esito delle prove in relazione ai fatti della causa; la dimensione soggettiva diventa rilevante solo quando si tratta di stabilire quale parte soccombe in conseguenza della mancata prova di un fatto. Questa distinzione sottolinea alcuni aspetti dell'onere della prova, ma non va sopravalutata; è anzi dubbio che essa abbia un significato effettivo in molti ordinamenti, come in quello italiano. Esistono infatti valide ragioni per ritenere che l'onere della prova in senso soggettivo non trovi applicazione, e che quindi il vero significato dell'onere della prova sia quello che emerge quando se ne considera la dimensione oggettiva. Una variante della distinzione tra onere della prova in senso soggettivo e in senso oggettivo fa riferimento al momento del processo in cui l'onere della prova trova applicazione. Si distingue allora tra l'onere di dimostrare il fatto convincendo il giudice della sua esistenza (burden of proof, legal burden, burden of persuasion, Beweislast) e l'onere di dedurre prove nel corso del processo (burden of producing evidence, burden of going forward, evidential burden, Beweisführungslast). L'onere di dimostrare il fatto viene inteso in senso oggettivo, mentre l'onere di dedurre prove viene inteso in senso soggettivo, ossia con riferimento a «quale parte deve fornire la prova di quale fatto». Questa distinzione rappresenta un aspetto molto importante del sistema probatorio degli ordinamenti di common law, nei quali peraltro non deriva da alcuna necessità logica ma dalla presenza del trial by jury. È nel processo con giuria, infatti, che emerge preliminarmente l'esigenza di stabilire se esistono le condizioni sufficienti perché la causa giunga al dibattimento: la condizione essenziale è allora che le parti abbiano dedotto prove idonee a dimostrare la fondatezza delle loro domande ed eccezioni. Se una parte non ha dedotto prove sufficienti il trial non è necessario, ed essa soccombe immediatamente. Ciò spiega come mai si dedichi molta attenzione alle tecniche probatorie messe in atto dalle parti nel corso del processo: lo scopo che si persegue è invero quello di por fine alla lite in ogni momento, se una parte mostra di non essere in grado di provare la fondatezza delle proprie allegazioni. Le cose vanno invece in modo del tutto diverso negli ordinamenti civil law, ed in quello italiano in particolare. Per un verso, come si è già accennato, la presenza dei poteri istruttori del giudice e il principio di acquisizione delle prove fanno passare nettamente in secondo piano la dimensione dell'onere della prova che attiene alla deduzione delle prove da parte del soggetto che ha l'onere di provare un determinato fatto. Ciò comporta che negli ordinamenti di civil law non ha autonomo rilievo l'onere processuale della prova, ossia l'onere di dedurre mezzi di prova nel corso del processo. Ciò che rileva è l'onere della prova come regola di giudizio, ossia come criterio che il giudice adotta, nel momento finale del processo, al fine di decidere sulla vittoria o soccombenza delle parti in funzione della prova o mancata prova dei fatti. Le modalità di realizzazione di questo interesse sono disciplinate dalla legge processuale, che regola le forme e i tempi delle deduzioni probatorie, prevedendo anche che le parti decadano da diritto di dedurre e di far assumere mezzi di prova. La disciplina processuale delle prove non integra però alcun onere processuale della prova in senso proprio, né tale onere discende dall'interesse che le parti hanno a dedurre prove sui fatti che hanno allegato. Con specifico riferimento all'onere della prova nel campo della responsabilità medica, si effettuano le seguenti precisazioni. La prima riguarda l'allegazione del cosiddetto “inadempimento qualificato”. Si è, infatti, affermato che in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo invece a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (cfr. Cass. civ., sez. un., sent., 11 gennaio 2008, n. 577; id. sez. III 12 dicembre 2013, n. 27855). La seconda riguarda la cosiddetta “causa ignota”. Vi sono infatti casi in cui non è effettivamente possibile eliminare le incertezze eziologiche e, talvolta, al di là del principio della "preponderance of evidence" (accolto anche in civil law con l'etichetta del "più probabile che non") risulta impossibile individuare/dimostrare la causa del danno. In tali ipotesi si discute di chi debba essere il soggetto, se creditore (paziente danneggiato) ovvero debitore (ospedale o medico danneggiante), su cui debba incombere la c.d. "causa incerta" ovvero la c.d."causa ignota". Le Cass. civ., sez. un., n. 577/2008, nell'individuare la prova liberatoria in capo al medico o all'ente sanitario, si limitavano ad affermare che al debitore spetta semplicemente «fornire la prova che tale inadempimento non vi è stato (...) oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta». I giudici di legittimità non chiarivano, però, se il professionista debba essere tenuto al risarcimento dei danni anche nell'ipotesi in cui rimanga sconosciuto il singolo fattore che ha determinato il peggioramento delle condizioni di salute del paziente. Sul punto, il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità afferma che è onere dell'attore, paziente danneggiato, dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; tale onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno; se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata" (in tal senso, di recente, Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2017, n. 18392 Rv. 645164 - 01; conf.: Cass. civ., sez. III, 14 novembre 2017, n. 26824; Cass. civ., sez. III, 14 novembre 2017, n. 26825, non massimate). Riferimenti
(Fonte: Il Processo Civile)
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