Al vaglio della CGUE la compatibilità dell'art. 20 del Testo Unico dell'Imposta di Registro con le norme dell'Unione in materia di IVA

Gabriele Scuffi
08 Luglio 2022

Con l'ordinanza del 31 marzo 2022, n. 10283, la Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la seguente questione di diritto: “se gli artt. 5, numero 8, della direttiva n. 77/388/CEE e 19 della direttiva n. 2006/112/CE (che contengono la disciplina unionale dell'azienda nel sistema IVA) ostino ad una disposizione...
Massima

Con l'ordinanza del 31 marzo 2022, n. 10283, la Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la seguente questione di diritto: “se gli artt. 5, numero 8, della direttiva n. 77/388/CEE e 19 della Direttiva n. 2006/112/CE (che contengono la disciplina unionale dell'azienda nel sistema IVA) ostino ad una disposizione nazionale come il d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20 come modificato dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), e dalla L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 1084, che impone all'Amministrazione finanziaria di qualificare l'operazione intercorsa tra le parti esclusivamente sulla base degli elementi testuali contenuti nel contratto con divieto del ricorso ad elementi extratestuali (ancorché essi siano oggettivamente esistenti e provati), derivandone la preclusione assoluta per l'Amministrazione finanziaria di provare che la prestazione economica, integrante una cessione d'azienda, in sé indissociabile, è stata in realtà artificialmente scomposta in una pluralità di prestazioni - plurime cessioni dei beni -, con il conseguente riconoscimento della detrazione IVA in assenza dei requisiti previsti dal diritto dell'Unione Europea”.

Il caso

La controversia da cui è scaturito il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia derivava da una complessa operazione avente ad oggetto l'acquisto, da parte di una società, di beni immobili facenti parte di un complesso alberghiero.

Le parti ritenevano che l'oggetto della compravendita non costituisse azienda e pertanto l'operazione negoziale venne assoggettata ad IVA.

L'Agenzia delle Entrate negava, invece, la possibilità di detrarre l'IVA assolta sull'acquisto da parte della società acquirente ritenendo che l'operazione effettuata fosse da qualificarsi come cessione di azienda (soggetta a imposta proporzionale di registro) e non come compravendita di immobili (quindi come cessione di beni soggetta a IVA detraibile).

Nello specifico l'Amministrazione finanziaria riqualificava il contratto intercorso tra le parti mediante valorizzazione di elementi extratestuali (autonomi ed estranei al regolamento contrattuale) valorizzando il fatto che, prima della cessione, il complesso immobiliare fosse un albergo e vi fosse stata acquisizione preventiva da parte della società contribuente di alcune attrezzature e beni strumentali (arredi).

La società contribuente proponeva ricorso che veniva respinto dalla Commissione tributaria di I° e II° grado le quali ritenevano fondata la pretesa dell'Amministrazione finanziaria motivando la decisione sul principio di “interpretazione degli atti” desumibile dall'originaria versione dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, la quale stabiliva che: “l'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

La decisione della CTR veniva quindi impugnata dinnanzi alla Corte di Cassazione dalla società contribuente la quale deduceva la violazione e falsa applicazione dell'art. 20 del d.P.R. cit. per aver il Giudice di secondo grado riqualificato ai fini IVA il rapporto negoziale intercorso per la determinazione dell'imposta applicabile dando rilievo all'intera operazione economica realizzata mediante la valorizzazione del collegamento dell'atto sottoposto a registrazione con elementi extra-testuali.

La questione

La questione di fondo riguardava la cessione frazionata di azienda (cd. cessione “spezzatino” o step-transaction) già frequentemente oggetto di contestazioni da parte dell'Amministrazione Finanziaria sotto il profilo elusivo e in ordine alla quale, in un momento antecedente alle modifiche all'art. 20 d.P.R. n. 131/1986, apportate dalla legge di bilancio 2018, si era formato un orientamento giurisprudenziale che giustificava i recuperi di imposta - nella tassazione di registro -, qualificando come cessione di azienda una pluralità di atti di cessione al medesimo acquirente, di beni, attività e passività aziendali, atomisticamente considerati, che «se funzionalmente e cronologicamente collegati» “risultavano idonei a realizzare oggettivamente gli effetti di una vendita di azienda”.

La Corte di Cassazione è passata ad elencare non solo le disposizioni nazionali rilevanti nel caso di specie ma anche le disposizioni del diritto dell'Unione europea di cui è richiesta l'interpretazione, ossia gli artt. 5, numero 8, della direttiva n. 77/388/CEE e l'art. 19 della direttiva 2006/112/CE, ove è contenuta – come precisato dalla Suprema Corte- la disciplina unionale dell'azienda nel sistema dell'IVA.

La soluzione giuridica

Sul tema, la Corte di legittimità ha ritenuto doveroso richiamare le riflessioni contenute in talune pronunce della giurisprudenza comunitaria, traendo dalle stesse le seguenti conclusioni: «la nozione di azienda o universalità è nozione di diritto dell'Unione e va stabilita in modo uniforme negli Stati membri; - tal nozione uniforme risponde all'esigenza di evitare divergenze nell'applicazione da uno Stato membro all'altro del sistema dell'IVA per quanto riguarda le esenzioni; - rileva, ai fini di qualificare un'operazione di cessione, consistente in una singola prestazione o in plurime prestazioni, come soggetta (l'una) o soggette (le altre) ad IVA o meno, anche l'intenzione di continuare l'attività d'impresa tramite i beni oggetto della stessa; - la suddetta intenzione può, e in alcuni casi deve, essere presa in considerazione in sede di valutazione delle circostanze globali dell'operazione, purchè comprovate da elementi oggettivi“.

Soprattutto - precisa ancora la Corte di legittimità - «sembra desumersi che la cessione d'azienda, quale operazione economica costituita da una serie di elementi e di atti, vada esaminata prendendo in considerazione tutte le circostanze in cui si svolge al fine di determinare se ne conseguano una o più prestazioni. Ed infatti se, in linea di principio, ogni prestazione deve essere considerata come indipendente, singola e autonoma, tuttavia, in deroga a questa regola, un'operazione non può essere divisa in più parti artificialmente, per cui si deve ritenere che si sia in presenza di un'unica prestazione quando le singole attività che la compongono risultino a tal punto strettamente connesse da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile, la cui scomposizione avrebbe quindi un carattere artificiale, non consentito».

Il Giudice europeo ha, quindi, chiarito che, ai fini Iva, la volontà e le intenzioni del contribuente devono essere prese in considerazione per operare una valutazione globale delle circostanze dell'operazione societaria.

Questo orientamento sembra, però, contrastare con l'attuale formulazione della normativa sull'imposta di registro, che impone invece di considerare soltanto il singolo contratto, senza fare riferimento a elementi extra-testuali.

Imponendo, quindi, all'interprete di tenere in considerazione i soli elementi testuali del contratto, l'art. 20 impedirebbe di contestare l'illegittima detrazione dell'IVA nel caso di una “artificiosa scomposizione di un'unica operazione economica in più prestazioni”.

La Corte di Cassazione, con la decisione in commento, ha affrontato la tematica, alquanto dibattuta, della possibilità per l'Amministrazione finanziaria di qualificare un'operazione di compravendita immobiliare come cessione di azienda, invece che come cessioni di beni, negando la detrazione dell'Iva al soggetto acquirente.

Va premesso che prima della riforma introdotta con la L. 145/2018, la norma dell'art. 20 TUR (D.P.R. n. 131/86) nella sua originaria formulazione secondo cui “L'imposta di registro è applicata secondo la intrinseca natura e gli “effetti giuridici” degli atti presentati alla registrazione anche se non vi corrisponde il titolo o la forma apparente” era stata fatta oggetto di due contrapposte linee interpretative.

  1. Una interpretazione “statica” secondo cui la ricostruzione della natura giuridica dell'atto sottoposto a tassazione - pur senza soffermarsi alla mera intitolazione - non può mai travalicare la qualificazione civilistica per cercare la sottostante causa reale portatrice di una sostanza economica diversa. L'imposta di registro viene così intesa come una imposta d'atto o cartolare che valorizza l'atto in se stesso senza dare alcuna rilevanza agli atti funzionamente collegati o ad altri elementi extratestuali.
  2. Una interpretazione “dinamica” che riconosceva la preminenza assoluta della “causa reale” sulla forma negoziale (“substance over form”) valorizzando la ricerca del dato giuridico reale o del profilo sostanziale del negozio rivolto alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dalle parti. Indagine questa che non poteva essere limitata al contenuto di quel solo atto presentato alla registrazione ma doveva estendersi all'operazione nel suo complesso come fattispecie progressiva snodantesi in varie e distinte pattuizioni rivolte ad un unico risultato economico finale.

Quest'ultima era la linea interpretativa seguita in prevalenza dai giudici di legittimità (Cass. civ. Ord. 19-03-2013, n. 6835; Cass. civ., sez. trib., 28-06-2013, n. 16345; Cass. civ., sez. trib., 19-03-2014, n. 6405). Questo approccio “evolutivo” aveva perciò ad oggetto la causa dell'atto, nella sua dimensione reale, concreta e oggettiva: ed infatti quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concreta dell'operazione complessiva, ossia la sintesi degli interessi oggettivati nell'operazione economica e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti così come emerge obiettivamente dai negozi posti in essere, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali (Cass., 2007/2018).

Veniva, insomma, ad essere valorizzata la causa del contratto da intendersi non come mera ed astratta funzione economico sociale del negozio bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare (Cass. civ., sez. III, 08-05-2006, n. 10490).

Per cui, in caso di divergenza tra scriptum (forma giuridica) e gestum e (sostanza economica) era il secondo a dover prevalere.

Di conseguenza la norma veniva ad assumere una portata “antielusiva” o meglio“ “riequilibratrice” finalizzata a delineare l'esatto ambito di riferimento del rapporto tributario: quindi norma non tanto di “natura antielusiva” (diretta a precludere al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali indebiti mediante l'uso anomalo di strumenti giuridici) quanto piuttosto interpretativa di riqualificazione rivolta ad “esigenze antielusive” (Cfr. Cass. Civ. 19.06.2013, n. 15319).

La legge di bilancio 2018 ha rivisitato il testo originario dell'art. 20 del TUR ponendo fine alle attività valutative riqualificanti le sequenze negoziali complesse e limitando la attività interpretativa agli effetti giuridici del solo atto portato alla registrazione.

La norma, nella sua nuova formulazione, stabilisce che “L'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».

Viene dunque avallata l'interpretazione cartolare propria dell'imposta d'atto senza ricorso ad elementi extravaganti desunti aliunde ancorchè connessi.

Il legislatore ha, peraltro, previsto la possibilità di recuperare il dato extratestuale ed il collegamento negoziale nel diverso ambito della disciplina sull'abuso del diritto (ricorrendone i presupposti e con le prescritte garanzie procedimentali).

Infatti, il comma 87 dell'art. 1 della Legge di bilancio 2018, ha aggiunto nell'art. 53-bis del TUR (che ha esteso anche alle imposte di registro ed ipocatastali i poteri ispettivi e di controllo degli Uffici in materia di imposte dirette ex artt. 31 e segg. d.P.R. 600/73) l'inciso “fermo quanto previsto dall'art. 10-bis della Legge 27 luglio 2000, n. 212”, così chiarendo che eventuali operazioni abusive (quand'anche non possano trovare appiglio nella valutazione “complessiva” dell'atto sottoposto a registrazione) ripotranno essere separatamente contestate mediante l'applicazione della norma generale antielusiva a salvaguardia del principio di prevalenza della sostanza sulla forma sia pur utilizzando le previsioni antiabuso.

Solo in quell'ambito parallelo potrà dunque assumere rilevanza la prova dell'intento elusivo con analisi del contenuto economico dell'intera operazione.

L'art. 20 TUR deve, invece oggi essere riservato alla tassazione del singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all'atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici "collegati" con quello da registrare.

Laddove si configuri un vantaggio fiscale che non può essere rilevato mediante questa limitata attività interpretativa, esso potrà essere valutato - come si è detto - sulla base della sussistenza dei presupposti costitutivi dell'abuso del diritto, prendendo in considerazione la complessiva operazione posta in essere dal contribuente, e dunque, anche gli elementi estranei all'atto, quali fatti, altri atti e contratti ad esso collegati.

Si può pertanto concludere che il collegamento negoziale assume una rilevanza diversa a seconda che l'indagine sia diretta a definire la debenza dell'imposta di registro oppure ad accertare l'elusione fiscale.

La modifica legislativa ha portato di conseguenza anche ad un diverso riparto dell'onere probatorio.

Con il «vecchio» art. 20, l'esistenza di una finalità elusiva e di un vantaggio fiscale indebito senza il rispetto di particolari garanzie procedimentali poteva essere desunto dall'interpretazione dell'atto o degli atti sottoposti a registrazione.

Con il «nuovo» art. 20, invece, l'A.F. non può travalicare lo schema negoziale tipico in cui l'atto risulta inquadrabile e dovrà, invece contestare a parte il disegno elusivo e le modalità di manipolazione ed alterazione degli schemi negoziali classici.

Su queste premesse, i giudici di legittimità hanno perciò messo in luce - nella fattispecie in esame - che la nuova formulazione dell'art. 20 TUR, che impone all'Amministrazione finanziaria di qualificare l'operazione contrattuale intercorsa tra le parti esclusivamente sulla base degli elementi testuali contenuti nel contratto con divieto del ricorso a elementi extratestuali, risulta in patente contrasto con le norme europee (art. 5, numero 8 della direttiva 77/338 e art. 19 della direttiva 2006/112) come interpretate dalla Corte di Giustizia atteso che verrebbe in tal modo precluso all'Amministrazione finanziaria di provare che la prestazione economica, integrante una cessione d'azienda, è stata in realtà “artificialmente” scomposta in una pluralità di prestazioni (plurime cessioni di beni) portante il conseguente riconoscimento della detrazione dell'IVA in assenza dei requisiti previsti dalla normativa europea .

La giurisprudenza europea ha chiarito, infatti, che al fine di non alterare la funzionalità del sistema dell'IVA, si è in presenza di un'unica prestazione quando due o più prestazioni o azioni effettuate dal soggetto passivo a beneficio del cliente sono a tal punto strettamente connesse da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale (Sent. CGUE 4 marzo 2021, C-581/19).

Da qui il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia trattandosi di una questione «di interpretazione nuova che presenta un interesse generale per l'applicazione uniforme del diritto dell'Unione», per verificare se «le disposizioni dell'art. 20 TUR, che impediscono di tenere conto degli elementi extratestuali al fine di determinare proprio se le parti abbiano posto in essere un'unica operazione o più operazioni, abbiano il concreto effetto di precludere completamente la verifica se la scomposizione abbia o meno carattere artificiale; tale artificiosità resterebbe infatti irrimediabilmente inattaccabile e ciò avrebbe la conseguenza di impedire all'Amministrazione finanziaria di recuperare l'illegittima detrazione di IVA in casi cui essa, secondo il diritto dell'Unione, non sarebbe consentita.

Osservazioni

La giurisprudenza di legittimità non ha mai manifestato grande entusiasmo per questa impostazione contrastante con la interpretazione “dinamica” da sempre propugnata e il rinvio alla Corte di Giustizia è l'ultima iniziativa assunta per riportarla in vita.

Le precedenti hanno avuto scarso successo.

Circa la decorrenza temporale delle nuove disposizioni, benchè la relazione illustrativa sul riformulato art. 20, in più passi, in mancanza di una disciplina transitoria, ne avesse ribadito la natura “chiarificatrice”, in funzione interpretativa, la Cassazione - per contro - ne aveva unanimamente rilevato la natura “innovativa” (quindi inapplicabile ai rapporti pendenti ed alle controversie ancora sub iudice) ritenendo trattarsi di modificazione con individuazione di nuovi criteri di tassazione e rivisitazione strutturale delle fattispecie impositiva pregressa (ex multis Cass.4407/2018).

Di conseguenza i rapporti precedenti alla entrata in vigore del rinovellato art. 20 avrebbero dovuto continuare a rimaner soggetti alla previgente formulazione normativa, operando la nuova disposizione solo a far tempo dal 1° gennaio 2018.

Il conflitto veniva peraltro risolto dal legislatore a favore della tesi opposta con la legge di bilancio 2019 (Legge del 30/12/2018 n. 145) che assegnava alla nuova norma natura di “interpretazione autentica” e dunque valenza applicativa anche per il passato.

La norma nella interpretazione autentica fornita dal legislatore superava anche il vaglio costituzionale (sentenze 158/2020 e 39/2021). Infatti, diversamente da quanto prospettato dal giudice di legittimità remittente che prospettava il contrasto con il principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e di uguaglianza (art. 3 Cost.), la Corte rilevava trattarsi di disposizione coerente con la natura di imposta d'atto storicamente riconosciuta al tributo e così riconducendola nel suo alveo originario.

Ora la Corte tenta la strada dell'incompatibilità comunitaria ipotizzando - nel quesito di rinvio - che il nuovo art. 20 finisca per precludere all'AF di provare lo schema elusivo di una azienda in realtà artificialmente scomposta in plurime cessioni di beni per sfruttare il diritto di detrazione dell'IVA in assenza dei requisiti previsti dal diritto eurounitario.

Sembra un estremo tentativo di evitare che venga sottratto al fisco una importante arma di contrasto all'elusione che consentiva indagini accertative funditus che la nuova normativa rende più difficoltose con i suoi distinguo limitativi.

Anche se questa possibilità - a dir il vero - non è del tutto esclusa rimanendo comunque l'AF abilitata - come si è visto - a contestare separatamente il fenomeno abusivo ritenuto sotteso all'atto registrabile.

Non resta che d attendere il responso della Corte di Giustizia.

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