La responsabilità dell'avvocato: l'acquisizione del consenso informato e la prescrizione
25 Agosto 2022
Alla base della responsabilità professionale dell'avvocato vi è il contratto che intercorre tra il medesimo ed il proprio cliente, in forza del quale, il primo si impegna a prestare in favore del secondo la propria opera professionale.
Dunque, il rapporto avvocato/cliente si caratterizza per essere un rapporto di tipo contrattuale (Trib. Milano, 20 febbraio 2020). Se il rapporto tra legale e cliente è regolato dagli artt. 2230 e ss. c.c., che contengono le norme sul mandato, per analizzare la responsabilità professionale dell'avvocato occorre fare invece riferimento agli artt. 1176, comma 2, 1218 e 2236 c.c.
Il grado di diligenza richiesto all'avvocato, infatti, è quello imposto dalla natura dell'attività esercitata, salvo che la prestazione professionale da eseguire in concreto comporti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà. In tale caso, la responsabilità del professionista è attenuata, configurandosi ex art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave. In ogni caso, il professionista potrà liberarsi da responsabilità dimostrando di avere usato la diligenza richiesta oppure, ai sensi del 1218 c.c., dimostrando l'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione per causa a lui non imputabile.
L'avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli artt. 2236 e 1176, comma 2, c.c., in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui, per negligenza od imperizia, compromette il buon esito del giudizio (Trib. Cosenza, 9 aprile 2022). Invece, nelle ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilità, a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave.
La natura dell'obbligazione professionale dell'avvocato, è di mezzi e non di risultato (Trib. Savona, 29 aprile 2021; Trib. Livorno, 21 settembre 2020; Trib. Milano, 24 giugno 2020,) in quanto il professionista si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento (Trib. Grosseto, 10 settembre 2019).
Ne deriva che l'inadempimento del difensore alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale ed in particolare la violazione del dovere di diligenza.
Per esso trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c. (è la cd. diligenza “qualificata”, ex multis, v. Trib. Velletri, 24 gennaio 2022; Trib. Cremona, 24 aprile 2020; Trib. Rimini, 19 novembre 2019), da commisurare alla natura dell'attività concretamente esercitata, non potendo il suddetto professionista garantire l'esito favorevole auspicato dal cliente (Cfr. Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015, n.10289, in cui si è altresì precisato che tale violazione, ove consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non è né esclusa né ridotta per la circostanza che l'adozione di tali mezzi sia stata sollecitata dal cliente stesso, essendo compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale).
Pertanto, l'inadempimento dell'avvocato posto a fondamento della sua responsabilità implica l'indagine positivamente svolta sulla scorta degli elementi di prova che il cliente ha l'onere di fornire. Il cliente infatti deve: -provare il sicuro e chiaro fondamento dell'azione; -indicare l'attività che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata; -provareche gli effetti di una diversa sua condotta professionale sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente medesimo (Cass. civ., sez. III, 10 giugno 2016, n. 11906).
Conseguentemente, può distinguersi un'imperizia tale da dare luogo a responsabilità per colpa, soltanto quando il legale mostri di non conoscere o violi precise norme di legge ovvero sbagli nel risolvere questioni giuridiche la cui soluzione non presenti alcun margine di opinabilità.
Ciò implica che l'esclusione dell'imperizia professionale è corretta ogniqualvolta il giudice riscontri e motivi in merito alla ricorrenza di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità. QUesto sia in astratto sia in riferimento alla situazione concreta, tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive del patrocinatore in giudizio anche se questo si conclude con la soccombenza del cliente. Ai fini del giudizio di responsabilità, rileva non già il conseguimento o meno del risultato utile per il cliente, ma le modalità concrete con le quali il professionista avvocato ha svolto la propria attività. L'avvocato in primis tutelare le ragioni del cliente e, dall'altro, rispettare il parametro correlato parametro di diligenza qualificata a cui questi è tenuto (Trib. Milano 4 febbraio 2021).
L'avvocato è obbligato ad informare il proprio cliente su ogni aspetto, anche controverso o negativo, delle questioni relative all'incarico professionale che lo riguardano (Cass. civ., sez. III, 19 luglio 2019, n.19520).
Infatti l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. impone all'avvocato, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, di informare il cliente sulle possibili strategie difensive da approntare, compreso il tempestivo e sollecito compimento degli atti processuali e stragiudiziali necessari nella fattispecie concreta (App. Torino, 18 settembre 2020, e Trib. Pisa, 24 marzo 2020).
In particolare, l'avvocato è tenuto a rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, che potrebbero rivelarsi ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi.
Tale informativa si colloca nella fase anteriore (trattative) alla stipulazione del contratto d'opera intellettuale e la violazione da parte del professionista del corrispondente dovere, secondo la dottrina tradizionale, determinerebbe a suo carico una responsabilità di tipo pre-contrattuale, con il conseguente obbligo di risarcire i danni commisurati all'interesse negativo. Tuttavia, secondo un indirizzo giurisprudenziale, la violazione degli obblighi accessori di informazione dell'avvocato va invece ricondotta nell'alveo della responsabilità contrattuale.
Va opportunamente precisato che i doveri di informazione e di comunicazione dell'avvocato nei confronti del proprio assistito persistono sia nell'ipotesi di rinuncia che di revoca del mandato, anche se il codice deontologico della professione forense disciplina solo la prima fattispecie, atteso che la revoca del mandato costituisce, al pari della rinuncia, una soluzione di continuità nell'assistenza tecnica. Pertanto, deve ritenersi fonte dei medesimi obblighi, necessari al fine di non pregiudicare la difesa del cliente patrocinato (cfr. Cass. civ., sez. un. 30 gennaio 2019, n. 2755; in senso conforme nella giurisprudenza di merito v. App. Napoli, 1° ottobre 2020).
In presenza di una sentenza sfavorevole per il cliente, ancorché asseritamente imputata ad un'erronea impostazione dell'attività difensiva posta in essere dall'avvocato, assume rilievo la definitività o meno di tale pronuncia. Nesso causale e danno risarcibile
La responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale.
E', dunque onere del cliente danneggiato allegare l'inadempimento del proprio avvocato e dimostrare l'esistenza “a monte” del nesso causale tra la condotta dell'avvocato e l'evento dannoso riassumibile nella causalità materiale, e tra questo ed il danno di cui chiede il risarcimento riconducibile alla causalità giuridica.
Una volta accertata la condotta colposa del professionista e l'errore in cui lo stesso sia incorso in relazione ai consueti canoni diligenziali, per affermarsi la responsabilità dell'avvocato è necessario verificare la sussistenza nella singola fattispecie concreta del nesso causale. Facendo ciò occorre tenere presente che l'affermazione della responsabilità per colpa implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente eseguita e fondata sull'applicazione del principio noto come “più probabile che non”, il cui onere probatorio grava sempre sul soggetto danneggiato (Cass. civ., sez. III, 24 ottobre 2017, n.25112;
Più recentemente, in senso conforme v. App. Firenze, 11 maggio 2022; Trib. Frosinone, 13 aprile 2022 e Trib. Massa, 1° giugno 2020, secondo cui tale nesso causale, avendo ad oggetto un evento irripetibile, deve essere accertato non già in termini di assoluta ed inequivoca certezza, ma anche solo di ragionevole probabilità di successo).
L'orientamento più recente emerso nella giurisprudenza ha precisato che, in tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo e le conseguenze dannose risarcibili. Tuttavia, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa alla stregua dell'id quod plerumque accidit (Trib. Firenze, 16 dicembre 2021; Cass. civ., sez. VI, 13 gennaio 2021, n.410).
Occorre prestare attenzione affinché tale regola non risulti male intesa, giacché, rischia di trasformare, contro le sue stesse premesse, la responsabilità del professionista da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato: se la negligenza dell'avvocato è causalmente rilevante quando ha fatto perdere la causa al proprio cliente, o non ha fatto conseguire al medesimo cliente il risultato sperato si rischia quella trasformazione (posto che provare che la causa sarebbe andata vinta equivale a provare che il difensore ha mancato un risultato per sua colpa).
Normalmente se l'avvocato non deve difendersi dall'accusa di avere fatto perdere la causa al proprio assistito, in realtà corre questo rischio se oggetto del giudizio diventa la perdita della probabilità che il cliente aveva di vincere la lite. La sostituzione del danno effettivo costituito dalla perdita della causa con un sostituto astratto rappresentato dalla probabilità di vincerla non è innocua, perché incide sull'accertamento del nesso di causa e sull'esito del giudizio (Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2019, n.25778).
Si tratta a ben vedere del cd. giudizio “controfattuale” il quale, conduce a comparare il caso reale (ad esempio l'avvocato ha omesso di adoperarsi per fare assumere la prova) con quello ipotetico (cosa sarebbe successo se invece il medesimo professionista l'avesse fatta assumere), nel quale le circostanze, senza il fattore considerato, conducono al risultato più probabile vicino al corso normale delle cose.
Questa differenza che soltanto impropriamente potrebbe definirsi come danno da perdita di chance, in realtà è la misura del nesso causale, posto che il cd. giudizio controfattuale non mira a stabilire la percentuale di chance in termini di probabilità di vincere la causa da parte del cliente, ma a definire il corso ipotetico degli eventi in presenza della condotta doverosa omessa, e dunque il nesso di causa tra la condotta alternativa lecita e l'evento verificatosi (Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2019, n.25778).
In tale ottica, si è affermato che in caso di omessa trascrizione da parte del difensore dell'attore della domanda giudiziale ex art. 2901 c.c., ai fini della verifica dell'esistenza di un danno risarcibile, consistente nell'impossibilità di opporre gli effetti della sentenza al terzo che, in corso di causa, abbia acquistato un cespite del compendio oggetto dell'esperita azione revocatoria, l'esistenza di un'iscrizione ipotecaria su quello stesso bene non è, di per sé, ostativa alla possibilità di riconoscere l'esistenza di detto danno, occorrendo, invece, una verifica che investa le vicende relative al credito garantito da ipoteca (Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 2022, n.2348).
Secondo il più recente approdo giurisprudenziale, nel caso in cui l'illecito contrattuale consista nell'inadempimento del mandato di difesa in un ambito giudiziario, si ha la certezza del conseguente danno soltanto quando si forma il giudicato del processo, per cui solo a partire dalla formazione di tale giudicato decorre la prescrizione del diritto al risarcimento ai sensi dell'art. 2935 c.c.
Invero, nel caso in cui l'inadempimento viene commesso in relazione ad un incarico di difesa processuale, l'esito del processo e la sua definitività non possono non incidere sulla identificazione del dies a quo del termine prescrizionale per l'esercizio del diritto a invocare il risarcimento del cliente (Cass. civ., sez. III, 3 novembre 2020, n.24270).
L'inserimento dell'esecuzione del rapporto contrattuale entro la complessiva struttura processuale non può certo essere privo di conseguenze posto che l'effetto dannoso dell'inadempimento non discende esclusivamente da quest'ultimo, ma altresì dall'esito definitivo del processo, qualora questo sia tale da attribuirgli una causalità concreta ed effettiva.
Il complesso fenomeno giuridico processuale infatti, può raggiungere esiti anche causalmente svincolati dall'inadempimento del mandato da parte del difensore, ragione per cui è ovvio che un esito potrebbe essere comunque favorevole al mandante che ha subito l'inadempimento, come nell'ipotesi in cui il giudice a sua volta erroneamente decida, e la sua decisione non sia oggetto di impugnazione o non sia impugnabile. Ciò spiega perché occorre che il danno sia effettivo, giacché, fino a quando non si è formato l'esito stabile del processo, la conseguenza dannosa dell'inadempimento ontologicamente è solo potenziale, indipendentemente dal grado, più o meno elevato, di prevedibilità del suo sopravvenire.
Pertanto, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da responsabilità professionale inizia a decorrere non dal momento in cui la condotta del professionista determina l'evento dannoso, bensì da quello in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile da chi ha interesse a farlo valere (Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2007, n.16658).
Agli effetti della prescrizione dell'azione disciplinare occorre invece distinguere il caso in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso in cui il procedimento disciplinare abbia invece luogo per fatti costituenti anche reato, e per i quali sia stata iniziata l'azione penale: nel primo caso, in cui l'azione disciplinare è collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto, mentre, nel secondo, l'azione disciplinare è collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso e ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata l'imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il relativo presupposto.
Ne consegue che la prescrizione in tale ipotesi decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta del soggetto agente (Cass. civ., sez. un., 24 gennaio 2020, n.1609; Cass. civ., sez. un., 31 maggio 2016, n. 11367; Cass. civ., sez. un., 9 maggio 2011, n. 10071). In conclusione
Tirando le fila della breve disamina che precede, premessa la natura contrattuale dell'obbligazione contratta dall'avvocato con il proprio cliente (“di mezzi” e non “di risultato”) in applicazione dei principi dettati dagli artt. 2236 e 1176 comma 2 c.c. l'avvocato deve considerarsi responsabile verso il suo cliente quando compromette il buon esito del giudizio a causa di:
Invece, nei casi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la responsabilità dell'avvocato medesimo nei confronti del suo cliente a meno di dolo o colpa grave.
Ciò premesso, non può affermarsi il danno da responsabilità dell'avvocato soltanto per il fatto del suo errato adempimento dell'attività professionale, atteso che è necessario verificare se l'evento produttivo del pregiudizio di cui si duole il cliente sia riconducibile alla condotta del difensore. Inoltre occorre verificare se sia stato effettivamente cagionato un danno, unitamente alla verifica se l'assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni qualora il proprio legale avesse tenuto il comportamento dovuto.
In ordine alla distinzione della responsabilità dell'avvocato rilevante sul piano giuridico rispetto a quella rilevante sul piano deontologico, non va dimenticato l'insegnamento delle Sezioni unite, secondo cui la deontologia forense è retta da precetti speciali suoi propri.
Inoltre, secondo una recente pronuncia del giudice di legittimità, nel caso di un avvocato deceduto che abbia stipulato quand'era in vita un'assicurazione per la propria responsabilità professionale, di eventuali mancanze o danni avvenuti nei confronti dei clienti deve rispondere esclusivamente l'assicuratore presso il quale era stata stipulata la relativa polizza senza ricadute sugli eredi del de cuius (Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 2022, n.3288).
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