Avvocato e sua responsabilitàFonte: Cod. Civ. Articolo 1176
18 Aprile 2014
BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Secondo il consolidato orientamento del giudice di legittimità, le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo. Pertanto l'inadempimento dell'avvocato alle obbligazioni scaturenti dal contratto di mandato professionale non può essere desunto senz'altro dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale ed in particolare al dovere di diligenza (Cass., sez. II, 14 agosto 1997, n. 7618, in Foro it., 1997, I, 3570; Cass., sez. II, 18 novembre 1996, n. 10068, in Dir. ed economia assicuraz., 1998, 616, con nota di De Strobel, Responsabilità professionale dell'avvocato; Cass., sez. II, 25 marzo 1995, n. 3566, in Foro it. Rep., 1995, Professioni intellettuali, n. 123; Trib. Roma, 11 ottobre 1995, in Danno e resp., 1996, 644). Tuttavia la diligenza esigibile dall'avvocato non è quella ordinaria del buon padre di famiglia, ma la diligenza professionale di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., che deve essere commisurata alla natura dell'attività esercitata, sicché la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento della sua attività è quella media, cioè la diligenza posta nell'esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione medie (Cass., sez. II, 8 agosto 2000, n. 10431, in Foro it. Rep., 2000, Professioni intellettuali, n. 185). In particolare, secondo Cass., sez. II, 14 agosto 1997, n. 7618 , cit., l'inadempimento dell'avvocato deve essere valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale, e, in particolare, al dovere di diligenza professionale commisurato alla natura dell'attività esercitata, sicché la diligenza che esso deve impiegare è quella posta dal professionista di preparazione professionale e di attenzione media, quando la prestazione professionale non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, poiché in tal caso la responsabilità del professionista è attenuata (in quel caso la corte confermò la sentenza di merito che aveva ritenuto responsabile l'avvocato il quale aveva diffidato il locatario di un immobile a rilasciarlo in favore del locatore, suo cliente, sulla base del contratto di locazione non più esistente perché novato). La responsabilità dell'avvocato per infelice scelta dei mezzi processuali o della strategia difensiva, infine, non è esclusa nè ridotta per la circostanza che l'adozione di quei mezzi o di quella strategia sia stata sollecitata dal cliente stesso, essendo compito precipuo del legale la scelta della linea tecnica da seguire, né essendo su tale questione l'avvocato vincolato ai desiderata del cliente (Cass. 28 ottobre 2004 n. 20869). Negli ultimi tempi, tuttavia, proprio con riferimento alla responsabilità dell'avvocato, si è assistito ad una progressiva erosione del tradizionale principio secondo il quale l'obbligazione dell'avvocato è una obbligazione di mezzi e non di risultato (per tale tradizionale distinzione, si vedano Cass. 1 agosto 1996, n. 6937 , Foro it., Rep. 1996, Professioni intellettuali, n. 158; Cass. 18 giugno 1996, n. 5617, in Foro it. Rep., Procedimento civile, n. 116; Cass. 6 maggio 1996, n. 4196, in Foro it., 1996, I, 2384; Cass. 11 aprile 1995, n. 4152 , in Foro it. Rep., 1995, Professioni intellettuali, nn. 167, 168; Cass. 25 marzo 1995, n. 3566 , in Foro it. Rep., Professioni intellettuali, n. 123). Infatti, fermo tale principio a livello di declamazione astratta, nell'esame delle fattispecie concrete il giudice di legittimità ha ammesso che il cliente possa pretendere dall'avvocato, in determinate circostanze, un vero e proprio risultato. Così, ad esempio, in un caso in cui l'avvocato aveva accettato l'incarico di svolgere un'attività stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all'utile esperibilità di un'azione giudiziale, la suprema corte ha escluso che la prestazione oggetto del contratto costituisse un'obbligazione di mezzi, in quanto l'avvocato si era obbligato ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell'azione. Di conseguenza, è stata affermatala la responsabilità del professionista che, nell'adempiere siffatta obbligazione, aveva omesso di indicare al cliente che il diritto che questi intendeva far valere in giudizio era prescritto, omettendo altresì di approfondire l'eventuale sussistenza di elementi e circostanze in grado di contrastare l'eventuale eccezione di prescrizione (Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2002, n. 16023). In senso contrario, tuttavia, si vedano Trib. Perugia, 12 ottobre 1999, in Rass. giur. umbra, 2000, 52, e App. Perugia, 14 febbraio 1995, in Rass. giur. umbra, 1996, 1, secondo cui il mancato rilievo, prima dell'introduzione del giudizio, dell'avvenuta estinzione per prescrizione del diritto vantato dal cliente non integra presupposto di responsabilità dell'avvocato in quanto la prescrizione estintiva non è rilevabile di ufficio, ma opera soltanto per effetto di eccezione di parte. E‘ stato, infine, escluso dalla S.C. che l'avvocato possa essere chiamato a rispondere del danno causato non al cliente, ma ad altro avvocato, in conseguenza di condotte concorrenziali sleali. Presupposto giuridico per la configurabilità di un atto di concorrenza sleale e' infatti la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, ma tali non sono gli avvocati. Infatti la nozione di azienda di cui al n. 3 dell'art. 2598 c.c. coincide con quella di cui al precedente art. 2555, stesso codice, sicché (pur essendo innegabile che, sotto il profilo mera-mente ontologico, studi di liberi professionisti siano, di fatto, per personale, mezzi tecnici impiegati e quant'altro, assimilabili ad una azienda), l'intento del legislatore, inteso a differenziare nettamente la libera professione dall'attività d'impresa (intento confermato, tra l'altro, proprio con riguardo alla professione di avvocato, dal regime delle incompatibilità di cui all'art. 3 R.D.L. 1578/1933, comprendente il divieto dell'esercizio del commercio in nome proprio o altrui, divieto privo di significato se lo studio professionale fosse assimilabile ad un'azienda commerciale) va interpretato ed attuato nel senso della inapplicabilità del regime di responsabilità da concorrenza sleale ai rapporti tra liberi professionisti (Cass. 13 gennaio 2005 n. 560). Il nesso causale E' consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale l'accertamento della responsabilità dell'avvocato esige l'individuazione di un valido nesso causale tra l'inadempimento del professionista e la perdita del diritto da parte del cliente. Detto altrimenti, anche in presenza di un inadempimento dell'avvocato, ne va esclusa la responsabilità, quand‘anche egli avesse tenuto una condotta negligente, qualora la pretesa del cliente non avrebbe trovato accoglimento in sede giurisdizionale. In tal senso si vedano Cass. 27 maggio 2009 n. 12354; Cass. civ., sez. II, 7 agosto 2002, n. 11901, la quale ha affermato che, in materia di azione di responsabilità nei confronti di un avvocato, l'attore è tenuto a provare sia di aver sofferto un danno, sia che questo sia stato causato dalla insufficiente o inadeguata o negligente attività del professionista, e cioè dalla sua difettosa prestazione professionale. In particolare, trattandosi dell'attività del difensore, l'affermazione della sua responsabilità implica la valutazione positiva che alla proposizione di una diversa azione, o al diligente compimento di determinate attività sarebbero conseguiti effetti più vantaggiosi per l'assistito, non potendo viceversa presumersi dalla negligenza del professionista che tale sua condotta abbia in ogni caso arrecato un danno, come pure, in caso di omesso svolgimento di un'attività professionale (nella specie, violazione del dovere di informazione) va provato non solo il danno subito, ma anche il nesso eziologico tra esso e la condotta del professionista , in quanto non è ravvisabile alcuna essenziale diversità tra l'ipotesi di inesatto adempimento del professionista e l'ipotesi di adempimento mancato) nello stesso senso, Cass., sez. III, 6 maggio 1996, n. 4196, in Foro it., 1996, I, 2384). Tale principio è stato tuttavia negli ultimi tempi attenuato dalla S.C., la quale ha comunque negato che l'avvocato, anche dinanzi a richieste del cliente presumibili destinate alla soccombenza in sede giudiziaria, possa del tutto disinteressarsi della conduzione della lite. Ha affermato, in particolare, Cass. 2 luglio 2010 n. 15717 , che l' attività del difensore, anche in caso di controversie di notevole difficoltà e tali da esporre il cliente ad un elevato rischio di soccombenza (c.d. "cause, presumibilmente, perse ab initio"), deve essere svolta con diligenza al fine di limitare od escludere il pregiudizio riconducibile alla posizione del cliente, anche sollevando le eccezioni relative ad eventuali errori di carattere sostanziale o processuale della controparte. Pertanto, il difensore può non accettare una causa per la quale prevede già dall'inizio la soccombenza del suo assistito, ma non può accettarla e, poi, disinteressarsene del tutto, con il pretesto che trattasi di una "causa persa", senza nemmeno attivarsi per trovare una soluzione transattiva, essendo tale comportamento comunque doveroso ove si accetti di difendere una causa rischiosa per il proprio cliente. In caso di assoluta inerzia del difensore viene, conseguentemente, a configurarsi la sua responsabilità professionale, avendo comunque esposto il cliente all'incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali a cui lo stesso va incontro, per la propria difesa e per quella della parte avversa. La colpa La colpa dell'avvocato sussiste quando ha tenuto una condotta astrattamente difforme da quella che avrebbe tenuto, nelle medsime circostanze, l'avvocato “medio”, cioè l'homo eiusdem generis et condicionis di cui all'art. 1176, comma 2, c.c. A tal fine si è escluso che la colpa dell'avvocato (nella specie, per avere tardivamente depositato un ricorso per cassazione) possa essere esclusa od attenuata dalla responsabilità di coloro (collaboratori o terzi) di cui il professionista si sia avvalso per l'espletamento dell'incarico ricevuto (Cass. 7 luglio 2009 n. 15895). Allo stesso modo, si è escluso che il dovere di diligenza - nella cui violazione consiste l'essenza della colpa - cessi per il solo fatto dell'avvenmuta revoca del mandato. Alla luce di tale principio, è stato ritenuto responsabile per colpa l'avvocato domiciliatario il quale, dopo la nomina di un nuovo difensore da parte del cliente, non aveva più informato il cliente stesso dell'avvenuta notifica di sentenze emesse nei confronti della parte successivamente alla cessazione dell'incarico (Cass. 12 ottobre 2009 n. 21589). Il danno da omessa interruzione della prescrizione Altra questione spinosa in tema di responsabilità dell'avvocato è quella relativa all'ipotesi di mancata interruzione del termine di prescrizione del diritto vantato dal cliente. Al riguardo ha osservato Cass. civ., sez. II, 18 luglio 2002, n. 10454 , che le obbligazioni inerenti all'esercizio dell'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo. Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall' art. 1176, comma 2, c.c., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo, rientra nella ordinaria diligenza dell'avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine (così pure Cass. 28 novembre 2007 n. 24764). La S.C. ha tuttavia escluso che ricorra tale ipotesi (con la conseguenza che il professionista può essere chiamato a rispondere anche per semplice negligenza, ex art. 1176, comma 2, c.c., e non solo per dolo o colpa grave ai sensi dell' art. 2236 c.c.), allorché l'incertezza riguardi non già gli elementi di fatto in base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso, a causa dell'incertezza della norma giuridica da applicare al caso concreto. Parimenti, l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all'applicabilità del termine di prescrizione in caso di mancata proposizione della querela non esime il professionista dall'obbligo di diligenza richiesto dall' art. 1176 c.c. Il consenso informato Non è raro che l'avvocato, convenuto nel giudizio di responsabilità promosso dal cliente e fondato su ipotesidi mala gestio della lite, si difenda eccependo che tutte le scelte processuali gli sono state imposte dal cliente stesso. Secondo il più recente orientamento di larga parte della giurisprudenza di merito, tale circostanza non elide la colpa dell'avvocato. Infatti quest'ultimo ha il preciso dovere, a mente dell'art. 1176, comma 2, c.c., di informare debitamente il cliente sulle conseguenze probabili, o anche solo possibili, delle sue scelte o delle sue condotte. L'avvocato, secondo questo orientamento, non tiene una condotta diligente se non acquisisce dal cliente un valido consenso informato (ex multis, Trib. Roma 13 gennaio 2007, Ediltes c. Ricci; Trib. Roma 5 giugno 2006, Giglio c. Gasperini; Trib. Roma 8 marzo 2006, Mariotti c. Montevidoni; Trib. Roma 12 maggio 2006, Rosolin c. Pizzuti; Trib. Roma 20 luglio 2005, Bertini c. Andreuzzi; Trib. Roma 2 giugno 2005, Cima c. Cammarota; Trib. Roma 21 marzo 2005, Macchia c. Ariè; Trib. Roma 29 marzo 2005, Austeri c. Affenita). L'obbligo di acquisire il consenso informato è un obbligo contrattuale, e non già precontrattuale: l'adempimento di esso, pertanto, va valutato alla luce del combinato disposto dell'art. 1176, comma 2, c.c., che impone l'obbligo di diligenza, e dell'art. 1375 c.c., che impone l'obbligo di buona fede. Dal combinato disposto di tali norme discende che il professionista, dinanzi ad un cliente che sia a digiuno delle norme di diritto, ha il preciso dovere di spiegargli compiutamente quali siano le conseguenze delle scelte processuali suggerite o pretese dal cliente stesso. Solo una volta che il cliente abbia ricevuto tali informazioni può ritenersi davvero libera ed informata la sua scelta di assumere decisioni in merito alla strategia processuale: nel che propriamente si sostanzia l'attività del cavere, tradizionale e risalente appannaggio dell'avvocato. Danno risarcibile Nel caso di accertata colpa civile dell'avvocato, e sempre che l'inadempimento dell'avvocato abbia causato la soccombenza del cliente in giudizio, la misura del danno risarcibile dovuto dal professionista si identifica con il vantaggio patrimoniale che il cliente avrebbe conseguito se la sua domanda giudiziale fosse stata accolta. In tal senso, si veda Cass. civ., sez. II, 18 luglio 2002, n. 10454, la quale ha stabilito che, in tema di danni subiti dalla parte ad opera del difensore per mancato esercizio del diritto entro il termine prescrizionale, il danno che il professionista deve risarcire alla parte consiste nel pregiudizio economico che questa subisce a causa del mancato accoglimento della domanda per estinzione del diritto determinata dal decorso del termine. Non solo però l'inadempimento che provoca la soccombenza in giudizio è stato ritenuto causa di un danno risarcibile, ma anche l'inadempimento che provoca un mero ritardo nella conclusione del giudizio. Così, in un caso in cui l'avvocato aveva erroneamente dichiarato in giudizio la sussistenza d'una causa interruttiva del processo in realtà insussistente, provocando l'interruzione e rendendo necessaria la successiva riassunzione (con dilatazione dei tempi del giudizio), la S.C. ha ritenuto l'avvocato responsabile dei danni patiti dal proprio cliente in conseguenza del ritardo nella conclusione della causa. La risarcibilità di questi danni, ha osservato il giudice di legittimità, trova conferma nella disciplina sulla responsabilità dello Stato per l'eccessiva durata dei processi, di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, e vanno liquidati in via equitativa, senza che possa costituire causa di esenzione da tale responsabilità dell'avvocato il solo fatto che sussistano ritardi già accumulati durante il corso del giudizio, giacché il sovrapporsi di nuove dilazioni aggrava le conseguenze dannose dell'illecito (Cass. 6 agosto 2010 n. 18360). Oltre che verso il cliente, l'avvocato può a andare incontro a responsabilità professionale anche nei confronti di terzi a lui non legati da alcun rapporto contrattuale, come le controparti processuali del proprio assistito. Tale responsabilità, in particolare, deve ritenersi sussistente in tutti i casi le scelte processuali ascrivibili all'avvocato abbiano aggravato ingiustamente la posizione della controparte, come ad esempio nel caso di violazione dell'art. 49 codice deontologico, a mente del quale l'avvocato non può aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni della parte assistita (cfr. Cass. 20 dicembre 2007 n. 26810). |