Assicurazione privata per malattia e “garanzia per l'invalidità permanente” in caso di malattie mortali: tra giurisprudenza e medicina legale

Angelo Iannaccone
23 Maggio 2023

Lo scritto chiarisce se l'indennizzo previsto dalla c.d. “garanzia per l'invalidità permanente” sia dovuto anche in caso di malattie a prognosi infausta. La problematica esaminata è quindi la seguente: nel caso l'assicurato sia colpito da una malattia che si evolva sino a condurlo alla morte, lo stesso ancora in vita può legittimamente reclamare l'indennizzo previsto per la garanzia invalidità permanente? La questione si pone, ad esempio, nel caso di malattie tumorali, in forza delle quali l'assicurato abbia chiesto e conseguito dall'INPS il riconoscimento dell'invalidità civile, ma poi la stessa malattia lo abbia condotto alla morte.
Le pronunce giurisprudenziali

Sulla questione è intervenuta una nota pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, la sentenza n. 5197/2015, secondo cui: “L'invalidità permanente costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all'esito di un periodo di malattia e non può quindi sussistere prima della sua cessazione; ne consegue che, se un contratto di assicurazione prevede il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, nessun indennizzo è dovuto se la malattia, senza guarigione clinica, abbia avuto esito letale”.

La sentenzaè stata resa in un giudizio nel quale parte attrice chiedeva il pagamento di un indennizzo, affermando che il proprio congiunto aveva stipulato una polizza assicurativa a copertura del rischio di invalidità permanente causata da malattia, nonché che aveva poi contratto un tumore allo stomaco, malattia che lo condusse a morte.

Dopo che il Tribunale di Milano aveva accolto la domanda in primo grado, la stessa Corte d'Appello di Milano aveva rigettato la domanda di condanna al pagamento dell'indennizzo dovuto per il rischio di invalidità permanente, affermando che rispetto a tale garanzia il rischio assicurato nella specie non si fosse mai avverato, perché la malattia contratta dall'assicurato ebbe esito letale: di conseguenza, non essendo mai avvenuta la guarigione clinica, mai potevano essersi consolidati postumi permanenti di sorta.

La sentenza d'appello veniva poi impugnata per Cassazione. La Suprema Corte rigettava il ricorso, sottolineando che, “se potenzialmente ambivalenti”, le espressioni contenute in un contratto, nella fattispecie la definizione di “invalidità permanente “, vanno interpretate nel senso che è “loro proprio nel loro contesto giuridico e non nel linguaggio comune” o secondo il buon senso.

La Suprema Corte, rifacendosi a principi medico legali, ribadisce che l'esistenza di una malattia in atto e l'esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v'è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l'ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea: "se la morte della vittima è stata causata dalle lesioni, l'unico danno biologico risarcibile è quello correlato all'inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente. Infatti, secondo i principi medicolegali, a qualsiasi lesione dell'integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un'invalidità permanente. Per l'esattezza l'invalidità permanente si considera insorta allorché, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l'individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità. Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone, dunque, che la malattia sia cessata, e che l'organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.

Ciò non avviene quando, come nel caso in questione, l'evoluzione della malattia porta alla morte. Si intende, pertanto, come nell'ipotesi di morte causata dalla lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medicolegale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina la morte dell'individuo" (Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2003, n. 7632).

Precisa la Suprema Corte di Cassazione che:

a) il lemma "invalidità" è un lemma tecnico, che è frutto di una elaborazione ormai quasi secolare in ambito medico legale e designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente);

b) l'espressione "invalidità temporanea" designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa;

c) l'espressione "invalidità permanente" designa lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d'una malattia;

d) l'esistenza d'una malattia in atto e l'esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non vi sarà ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l'ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea e poi direttamente la morte.

Ad ulteriore conferma di quanto tali termini, concetti e principi siano cristallizzati e non suscettibili di diversa interpretazione, la Suprema Corte di Cassazione osserva come essi siano stati mutuati dal legislatore in numerosissime norme, fra cui cita: il D.Lgs. 7 settembre 2005 n. 209, art. 137, comma 1, (codice delle assicurazioni), il quale distinguendo il danno patrimoniale da inabilità temporanea rispetto a quello da invalidità permanente, implicitamente conferma che quest'ultima presuppone l'avvenuta guarigione, con postumi, della vittima; il D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 138, comma 2, cit., il quale distingue anch'esso il danno non patrimoniale temporaneo da quello permanente (definito "invalidità permanente"), in tal modo dimostrando che l'invalidità permanente non può cominciare a computarsi sinché duri l'invalidità temporanea; le infinite norme assicurative e previdenziali che, stabilendo la misura della invalidità permanente oltre la quale è dovuto il trattamento indennitario (due terzi, quattro quinti, ecc.), lasciano anch'esse intendere che in tanto è concepibile e misurabile una "invalidità permanente", in quanto la malattia che l'ha causata sia cessata ed i postumi si siano

stabilizzati: sarebbe infatti inconcepibile misurare i "due terzi" d'una invalidità instabile ed in divenire (cfr., ex multis, l'art. 302, comma 2, cod. ass., in tema di danni indennizzabili dal fondo di garanzia vittime della caccia); la L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1, comma 1, in tema di provvidenze alle vittime del terrorismo.

Sempre in materia di assicurazione malattia la Suprema Corte si era già pronunciata con sentenza 30 settembre 2011, n. 19997, che aveva ritenuto immune da vizi nell'applicazione delle regole sull'interpretazione del contratto una pronuncia di merito, che sulla base delle condizioni contrattuali aveva ritenuto non essersi verificata l'invalidità permanente, che la polizza prevedeva come oggetto della garanzia assicurativa, in particolare perché la morte era intervenuta ben prima di un anno dalla denuncia della malattia, termine questo previsto dal contratto prima del quale non poteva operarsi alcuna valutazione della I.P.

I principi affermati da Cass. n. 5197/2015 sono mutuati da precedenti pronunce in ambito di responsabilità civile e di risarcimento del danno biologico (tra le tante: Cass. Sez. III, 15 maggio 2003, n. 7632; Cass. sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549; Cass. sez. III, 25 febbraio 2004, n. 3806; Cass. sez. III, 21 giugno 2012, n. 10303; Cass. sez. III, 19 dicembre 2014, n. 26897; a queste si sono poi aggiunte altre più recenti: Cass. Sez. III, 7 febbraio 2017, n. 3121; Cass. Sez. III, 12 marzo 2021, n. 7126).

Le pronunce in questione risolvevano una serie di questioni in ambito responsabilità civile quali la duplicazione del danno (coesistenza di diverse voci di danno quali I-T. e I.P. per lo stesso lasso temporale o liquidazione sia del danno da I.P. che del danno da morte causati dal medesimo evento lesivo) e la decorrenza del termine di prescrizione in particolare per il danno da I.P.

La giurisprudenza di merito è per lo più uniformata (tranne qualche rara pronuncia) sul seguente indirizzo: in particolare, in materia di assicurazioni relative a mutui, pur a fronte di clausole che riportavano lo stesso testo delle condizioni dell'assicurazione malattia, evidenziando che trattasi di assicurazioni diverse da quella malattia e quindi differenti da quelle per cui era stato enunciato il principio affermato da Cass. n. 5197/2015, concludevano con l'interpretare quelle stesse identiche clausole nel senso di ritenere operante la garanzia per I.P. anche se la malattia aveva avuto esito infausto.

Il punto di vista della dottrina

La questione non sembra essere presa specificamente in esame dalla dottrina giuridica ad eccezione di alcune note adesive alle sentenze citate.

Singolarmente è invece proprio la Dottrina Medico Legale, a cui la Cassazione attribuisce i principi richiamati, che esprime critiche alla traslazione tout court alla assicurazione malattia di principi elaborati in ambito di responsabilità civile e di risarcimento del danno biologico.

Osserva Enzo Ronchi che “affermare, in termini tanto lapidari, che la I.P. costituisce uno stato menomativo divenuto stabile, irremissibile, consolidatosi al termine di un periodo di malattia, denota un rigore logico assoluto e disarmante sul piano giuridico che, tuttavia, non si giustifica e non ha riscontro nella realtà medico-legale in generale e nelle stesse polizze di cui trattasi” (“Invalidità Permanente Da Malattia (IPM) Nell'Assicurazione Privata: Aspetti Medico Legali”, articolo pubblicato su questo sito).

In particolare, rileva l'Autore che:

  • il principio in termini così rigorosi, come affermato dalla Cassazione, porterebbe a negare l'indennizzo “anche nei casi in cui la malattia, pur ad esito non letale, si cronicizzi”;
  • la garanzia offerta con tali polizze sarebbe solo in apparenza ampia ma in realtà alquanto limitata;
  • “le fattispecie di I.P. di fatto valutale nella realtà quotidiana medico-legale, ancorché non definitivamente stabilizzate, sono tutt'altro che infrequenti in ambito infortuni e responsabilità civile, in sede di polizza contro al I.P. da malattia la stessa casistica è addirittura preponderante”, mentre “i casi contrassegnati da “fine malattia” o da “guarigione clinica” sono certamente la minoranza”;
  • sarebbero escluse molte patologie, che nella realtà sono indennizzate.

Analoghe acute osservazioni si rinvengono in manuali di medicina legale (si veda il volume edito da Giuffré “Guida alla valutazione Medico-Legale dell'Invalidità Permanente”, di Enzo Ronchi, Luigi Mastroroberto, Umberto Genovese, 2015).

In sostanza si configurerebbe un contrasto tra la posizione rigida del giurista e quella pratica e più di buon senso del medico legale.

Il contrasto è componibile o (a seconda dei casi) non resta che rimettersi alla rigidità del giurista o al buon senso del medico-legale?

È appena il caso di osservare che la rigida posizione della giurisprudenza di legittimità, nel caso la malattia abbia già comportato la morte dell'assicurato, rende superfluo il ricorso alla CTU, perché secondo quella “costruzione” se la malattia ha condotto alla morte non si sono mai realizzati postumi invalidanti.

Quindi le contrastanti impostazioni, in tale ipotesi, continuerebbero ad operare in ambiti diversi e cioè una nel contenzioso giudiziario e l'altra nell'ipotesi di sinistri malattia indennizzati bonariamente con il ricorso all'opera dei medici legali (dell'assicurato e dell'Impresa).

I contratti assicurativi

È bene premettere che, come in tutti i contratti assicurativi, è necessario che vi sia un bilanciamento tra premio corrisposto e rischio assunto e che un fenomeno tipico dell'assicurazione malattia è quello c.d. dell' “antiselezione”, secondo cui i soggetti più portati ad assicurarsi sono i soggetti più in là con l'età e quindi portatori di rischi più gravi per l'assicuratore, in quanto tali soggetti temono giustamente di più di incappare in malattie gravi rispetto ai soggetti più giovani e quindi sono più propensi di questi ultimi ad assicurarsi, con il risultato che si realizza una specie di selezione dei rischi più gravi per l'assicuratore.

Tale fenomeno è controbilanciato da clausole quali, ad esempio, quelle che fissano i limiti di età nell'assunzione del rischio e la cessazione dello stesso al raggiungimento di tale età e indicano come non assicurabili i soggetti affetti da determinate patologie.

Le principali garanzie usualmente prestate con l'assicurazione malattia concernono l'indennità da ricovero, l'invalidità permanente da malattia (non tutte però, in quanto si assicurano solo le invalidità gravi, in forza di franchigie elevate) ed il rimborso di spese mediche.

Non è previsto il caso morte, per cui è invece necessario stipulare una assicurazione vita.

La definizione tradizionale della malattia riportata nelle definizioni di polizza è “ogni alterazione dello stato di salute non dipendente da infortunio”, qualche volta dopo “alterazione” sono aggiunte le parole “clinicamente diagnosticabile” per delimitare maggiormente il rischio.

Sia la assicurazione infortuni che l'assicurazione malattia indennizzano un pregiudizio alla salute, ma nella prima questo deve essere provocato da una lesione dovuta ad una causa violenta ed esterna, nella seconda il pregiudizio non è dovuto né ad una lesione dell'integrità psico fisica né ad una causa violenta ed esterna.

L'invalidità permanente è in genere definita: “perdita definitiva, in misura parziale o totale, della capacità dell'Assicurato a svolgere un qualsiasi lavoro indipendentemente dalla professione esercitata”, è più raro che si faccia riferimento alla professione specificatamente esercitata dall'assicurato.

In genere la tabella di riferimento è quella Inail (che però crea qualche problema in quanto tale tabella si riferisce per lo più a lesioni motorie mentre la I.P. da malattia deriva più frequentemente da ben altre patologie organiche).

Generalmente non è indennizzabile qualsivoglia grado di invalidità permanente ma solo le I.P. superiori al 24% e a volte addirittura al 65%, a fronte delle quali è prevista la corresponsione, a titolo di indennizzo, di un capitale non necessariamente direttamente proporzionale al grado di invalidità riconosciuto, più raramente la corresponsione di una rendita vita natural durante.

A volte la clausola è così formulata: l'assicuratore “corrisponde all'Assicurato il capitale indicato in polizza in caso di invalidità permanente, causata da malattia, che abbia per conseguenza un'invalidità riduttiva in modo permanente della capacità ad un qualsiasi lavoro proficuo dell'Assicurato di grado non inferiore al 25% della totale”.

Generalmente è previsto un range di tempo entro cui va accertata l'invalidità permanente, frequentemente non prima di un anno e comunque entro 18 mesi dalla denuncia.

Frequentemente la clausola è così formulata: “il grado di invalidità permanente da malattia è accertato nel periodo compreso tra i 12 e i 18 mesi dalla data di denuncia della malattia” o più raramente “i 6 e i 12 mesi”.

Tutt'altro che infrequenti sono clausole che prevedano la possibilità per l'assicurato di richiedere una seconda valutazione del grado di invalidità già accertato o che neghino tale possibilità in caso di aggravamento dello stesso.

Si rinvengono clausole di questo tenore:

  • “il grado di invalidità permanente è valutato non prima che sia decorso il termine di 12 mesi dalla denuncia ed entro un termine massimo di 18 mesi, anche nel caso in cui non siano stabilizzati gli esiti della malattia”;
  • “le invalidità permanenti già accertate non sono oggetto di ulteriore valutazione sia in caso di loro aggravamento sia in caso di loro concorrenza con nuove malattie”;
  • “nel corso dell'assicurazione le invalidità permanenti valutate e non indennizzate, poiché rientranti in franchigia, saranno oggetto di ulteriore valutazione in caso di loro aggravamento. Qualora indennizzate, non potranno essere oggetto di ulteriore valutazione sia in caso di loro ulteriore aggravamento che in caso di loro concorrenza con nuove malattie”.

A volte è specificatamente previsto che la garanzia copre determinate “malattie progressivamente invalidanti” specificatamente indicate in polizza e per le quali è prevista la possibilità di rivalutazione nel tempo del grado di invalidità nel caso di loro aggravamento.

Nei contratti sul mercato è rarissimo che sia espressamente precisato che per postumi permanenti si intenda postumi stabilizzati (caratteristica che secondo la giurisprudenza di legittimità è connaturata al concetto di postumi permanenti anche nell'assicurazione privata malattia).

È altresì raro che si precisi che la valutazione vada fatta “non prima che, secondo parere medico, lamalattia denunciata abbia concluso la sua fase acuta” e comunque sempre entro il range di tempo indicato nel contratto (in genere 12/18 mesi).

A volte, non senza evidente contraddizione, negli stessi contratti, che parlano di postumi stabilizzati, è prevista la possibilità di rivalutazione degli stessi in caso di loro aggravamento.

È sempre più rara la richiesta del certificato di guarigione, mentre è sempre più diffusa quella di “certificazione di invalidità rilasciata dall' INPS o altro organo preposto” o addirittura di “copia della domanda di Invalidità Totale Permanente da malattia agli Enti preposti” (per invalidità totale si intende nella polizza una invalidità superiore ad un grado prestabilito per es. 60%).

Osservazioni

Come per tutti i contratti anche per i contratti assicurativi vige il principio dell'autonomia negoziale di cui all'art. 1322 c.c., secondo il quale le parti possono liberamente determinare l'oggetto del contratto così come le sue condizioni nei limiti imposti dalla legge.

Illuminante è l'esempio di applicazione del detto principio fatto da Marco Rossetti, in materia di assicurazione infortuni, quando precisa che “in un contratto le parti sono libere di definire “infortunio” anche lo smarrimento del proprio animale d'affezione, se così volessero” (L'Assicurazione e l'emergenza Covid, Marco Rossetti, Assicurazioni).

Altro esempio del detto principio è che nell'assicurazione privata malattia (analogamente a quanto previsto nell'assicurazione infortuni per questi ultimi) è generalmente contrattualmente precisato che, a differenza di quanto avviene nel risarcimento del danno a persona in responsabilità civile, il grado di invalidità permanente si determina tenendo presente le sole conseguenze dirette causate dalla malattia denunciata e, se questa colpisce una persona già affetta da altre patologie, non è indennizzabile l'aggravamento dello stato di salute da esse derivanti, inoltre in caso di denuncia di più di una patologia invalidante, ognuna sarà oggetto di valutazione separata.

Nella polizza infortuni invece è contrattualmente stabilito che, sempre a differenza di quanto avviene nel risarcimento del danno a persona in responsabilità civile, se l'infortunio determina lesioni a differenti distretti anatomici, vanno separatamente valutate le singole percentuali per ciascun distretto colpito e poi tra loro sommate (fino ad un massimo del 100%), quindi a prescindere dal reale pregiudizio riportato dall'assicurato.

In sostanza nell'assicurazione privata l'invalidità permanente indennizzabile, diversamente da quanto avviene in responsabilità civile, non corrisponde a quella realmente riportata dall'assicurato in conseguenza del verificarsi del rischio assicurato, ma è quella determinata in conformità delle condizioni contrattuali.

Questo è legittimo proprio in virtù del principio dell'autonomia negoziale, di cui all'art. 1322 c.c.

Le parti sono quindi libere di stabilire l'oggetto del contratto, la regolamentazione dello stesso e di definire il significato da attribuire ai “lemmi” in esso utilizzati (questa è la finalità del “glossario” e delle “definizioni” contenute nelle polizze), indipendentemente dalla definizione, che degli stessi “lemmi” abbia dato il legislatore per altre fattispecie e ad altri fini.

Il contratto ha forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.) e, a differenza delle norme giuridiche che ex art. 12 delle Preleggi vanno interpretate secondo il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e l'intenzione del legislatore, va interpretato secondo la comune intenzione dei contraenti a sensi degli art. 1362 e segg. c.c.

Come è risaputo, nell'ordinamento giuridico esistono definizioni valide in ogni situazione ed altre invece valide in funzione dell'ambito in cui sono destinate ad avere applicazione ed allo scopo.

Un esempio di queste ultime è il concetto di “buona fede”, che ex art. 1147 c.c. sta ad indicare lo stato del possessore che ignori di ledere l'altrui diritto, mentre ex art. 1375 c.c. sta ad indicare l'obbligo del contraente nell'esecuzione del contratto di attivarsi per salvaguardare l'interesse della controparte.

Non si tratta dell'unico caso.

Proprio con riferimento al concetto di “Invalidità Permanente” sia la normativa INAIL che quella INPS per il riconoscimento dell'invalidità civile prevedono espressamente che la valutazione della invalidità sia soggetta a revisione nel corso del tempo e che con la nuova valutazione possa essere accertato un differente grado di invalidità e rideterminata conseguentemente anche la rendita relativa riconosciuta al lavoratore o al cittadino.

Non poche delle pronunce giudiziali che, in applicazione del principio affermato da Cass. n. 5197/2015, hanno respinto la domanda dell'assicurato sono relative a fattispecie di neoplasie maligne, in cui l'assicurato in forza delle stesse, prima che queste lo conducessero alla morte, aveva conseguito il riconoscimento della invalidità civile, per cui si è verificato un contrasto tra il riconoscimento da parte dell'Ente della invalidità permanente ai fini del trattamento previsto per l'invalidità civile ed il diniego invece della stessa invalidità permanente ai fini dell'assicurazione malattia.

Quindi in questi casi è lo stesso legislatore che si riferisce ad una “invalidità permanente”, che possa anche non essersi ancora stabilizzata, tanto che la sua valutazione può essere rivista nel tempo (D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, D.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, legge n. 118/1971 e segg.).

A maggior ragione nell'ambito del principio dell'autonomia negoziale le parti posso liberamente definire un diverso concetto di invalidità permanente indennizzabile a termini di contratto di assicurazione malattia, anche privo del requisito della stabilizzazione.

In materia contrattuale quello che conta non è il concetto elaborato dalla giurisprudenza in altre fattispecie e per altri fini, ma la comune intenzione delle parti.

Come si può rilevare già dalla limitazione della garanzia solo alle grandi invalidità, la comune intenzione delle parti è quella di garantire l'assicurato non contro ogni malattia, per quanto leggera, ma solo contro quelle che siano in grado di determinare un grado così alto di invalidità.

Osserva la dottrina medico-legale che “fra le malattie statisticamente più frequenti, in grado di far residuare postumi di entità superiore al minimo indennizzabile previsto da queste polizze, ve ne sono molto poche che, a distanza di un solo anno dalla loro insorgenza, possono considerarsi stabilizzate al punto tale da consentire una reale quantificazione dei postumi. Ve ne sono invece molte che, per il loro andamento cronico e ingravescente non giungono mai ad una vera e propria stabilizzazione” (Guida alla valutazione medico-legale dell'invalidità permanente, Enzo Ronchi, Luigi Mastroroberto, Umberto Genovese, Giuffrè Editore 2015 pag. 207).

Osservano gli stessi Autori che “in linea generale, le patologie atte potenzialmente a stabilizzarsi con “macropermanenti” (superiori al 25%) son oggettivamente le più gravi, cioè quelle in cui, a rigore, la guarigione nel senso anzidetto, spesso non si raggiunge mai. […] Solo per fare una esemplificazione, malattie croniche gravi, quali le neoplasie maligne, le cardiopatie ischemiche, le forme demielizzanti del sistema nervoso centrale, non potrebbero mai essere indennizzate in polizza IPM” (pagg. 213-214).

In sostanza se la garanzia fosse limitata alle sole gravi malattie in grado di causare una I.P. stabilizzata superiore al 24% (o peggio ancora per quelle con una franchigia del 65%) la garanzia sarebbe solo in apparenza ampia ma in realtà molto ma molto limitata.

Il principio richiamato da Cass. n. 5197/2015 sicuramente non fa una piega in materia di responsabilità civile e di risarcimento del danno biologico, nel cui ambito è stato elaborato per risolvere una serie di problemi, che potevano presentarsi nel risarcimento del danno.

L'enunciazione così tranchant anche in materia di assicurazione privata malattia, pare invece meno condivisibile.

Desta qualche perplessità l'affermazione che, “se potenzialmente ambivalenti”, le espressioni contenute in un contratto, nella fattispecie la definizione di “invalidità permanente”, vanno interpretate nel senso che è “loro proprio nel loro contesto giuridico e non nel linguaggio comune” o secondo il buon senso, atteso che in materia negoziale l'art. 1370 c.c. dispone che “le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s'interpretano, nel dubbio, a favore dell'altro”.

L'asserzione categorica della Suprema Corte su che cosa si debba intendere per invalidità permanente anche in materia contrattuale renderebbe, non solo superflua la CTU nelle controversie relative a malattie con prognosi negativa, ma per assurdo, volendo estremizzare, potrebbe rendere superfluo addirittura l'esame delle condizioni contrattuali ed in particolare del “glossario” e delle “definizioni” in esso contenute.

È appena il caso di osservare che in un contratto di assicurazione malattia, attualmente sul mercato, con cui vengono prestate le 3 classiche garanzie, per ognuna di queste viene ripetuta la seguente clausola, che quindi è ripetuta così 3 volte:

“Con le garanzie previste in questa sezione possono essere assicurate le persone fisiche”.

È evidente però che al di là del titolo della clausola con il contratto in questione si assicurino persone e non cose.

Vigendo anche per i contratti assicurativi il principio dell'autonomia negoziale di cui all'art. 1322 c.c., anche nell'assicurazione malattia si deve indagare la comune intenzione dei contraenti a sensi degli art. 1362 e segg. c.c., prescindendo dai principi elaborati dalla giurisprudenza per altre fattispecie.

Per cui ad esempio: le “Definizioni” devono essere interpretate in modo che abbiano un senso (art.1367 c.c.) e non in modo che risultino totalmente superflue (come avverrebbe se invece di indagare il significato attribuito dalle parti alle parole “invalidità permanente” si facesse esclusivamente riferimento al significato attribuito dalla giurisprudenza in materia di risarcimento del danno a persona in responsabilità civile); le clausole si interpretano le une per mezzo delle altre (art. 1363 c.c.); le espressioni generali si interpretano nel senso da comprendere “gli oggetti su cui le parti si sono proposte di contrattare” (art. 1364 c.c.); nel dubbio le clausole si interpretano secondo le “pratiche generali interpretative” (art. 1368 c.c.), nel senso più conveniente alla natura e all'oggetto del contratto (art. 1369 c.c.) e a favore dell'assicurato (art. 1370 c.c.).

Ora i contratti che, pur contenendo la consueta definizione di invalidità permanente, usualmente riportata nelle “Definizioni” di pressoché tutti i contratti (e che secondo la Suprema Corte avrebbe connaturato il concetto di stabilizzazione), precisano espressamente che è indennizzabile anche una I.P. non stabilizzata (purché valutata nel range di tempo stabilito) e che la I.P. già accertata sia o meno suscettibile di nuova valutazione in caso di peggioramento, indubbiamente riconoscono l'indennizzabilità di “una I.P. non ancora stabilizzata” per quanto strano possa apparire.

Anche la clausola, che stabilisce che per postumi permanenti si intendono quelli valutati in un determinato range di tempo e precisamente (a seconda dei casi) non prima che siano decorsi 6 o 12 mesi dalla denuncia della malattia, depone per questa conclusione (se si indennizzassero solo i postumi stabilizzati potrebbe farsi a meno quantomeno del termine finale, ma anche quello iniziale sarebbe sostanzialmente superfluo).

Solitamente si afferma che l'indicazione di un termine prima del quale non può riconoscersi una invalidità permanente costituisce un'esigenza irrinunciabile dell'assicuratore, che altrimenti sarebbe esposto al rischio che l'assicurato possa pretendere sempre l'indennizzo massimo, chiedendo che il grado di I.P. sia determinato nella “fase acuta della malattia”.

L'argomento è in contraddizione con l'affermazione che, anche nell'assicurazione malattia, per I.P. si debba necessariamente intendere l'invalidità stabilizzata, perché se così fosse non potrebbe mai configurarsi il pericolo paventato, dovendosi sempre attendere la stabilizzazione per la valutazione dei postumi.

Stabilire che l'I.P. vada necessariamente valutata in un determinato range di tempo vuol dire che per l'assicuratore l'invalidità indennizzabile è quella determinata in quel range di tempo.

Quando si definisce l'evento assicurato (I.P. da malattia) come la “perdita definitiva, in misura parziale o totale, della capacità dell'Assicurato a svolgere un qualsiasi lavoro indipendentemente dalla professione esercitata”, sembra che non possa negarsi che tale evento si verifichi anche quando l'invalidità superiore al limite di franchigia, che determina tale perdita di capacità lavorativa (generica), possa nel tempo peggiorare sino alla morte, tanto più se in aggiunta a tale definizione si preveda la possibilità nel tempo di revisione della valutazione.

Una volta accertato, nel range di tempo contrattualmente previsto, che la perdita della capacità lavorativa è definitiva e non più regredibile, si è verificato l'evento assicurato.

Non è condivisibile la tesi, secondo cui nel caso in cui la malattia conduca l'assicurato alla morte, se prima gli si riconosce l'indennizzo per invalidità permanente l'assicuratore pagherebbe per un rischio non assunto e cioè la morte.

L'indennizzo corrisposto rimane quello previsto dal contratto per l'invalidità permanente e non è certo quello per l'evento morte, non assicurato e per cui non è previsto alcun indennizzo.

Dipende solo dal contratto quale sia la invalidità da indennizzare e quindi dall'Assicuratore se e quale rischio assumere.

Il rischio che l'Assicuratore possa così essere tenuto a pagare un capitale per invalidità a fronte di una malattia, che sia immediatamente seguita dalla morte e quindi di fatto per una invalidità che … “non sia vissuta” (essendo invece l'intento quello di indennizzare l'assicurato per la vita, che dovrà vivere con tale afflizione), da un lato è contenuto dalla fissazione del termine prima del quale non può procedersi a valutazione della I.P., dall'altro potrebbe essere totalmente eliminato sostituendo la corresponsione di una rendita vita natural durante al pagamento di un capitale.

La scelta la fa l'Assicuratore sulla base delle sue valutazioni sul rischio da assumere.

In conclusione

Essendo diverso il tenore dei contratti sul mercato non è possibile dare una risposta valida per tutti i contratti.

Si può però osservare che l'asserzione categorica della Suprema Corte su che cosa si debba intendere per invalidità permanente anche in materia contrattuale non sia condivisibile e sia smentita da gran parte dei contratti.

Per stabilire se il contratto di assicurazione malattia copra o meno “una I.P. non ancora stabilizzata”, trattandosi di ambito in cui vige il principio dell'autonomia negoziale di cui all'art. 1322 c.c., non si può prescindere dall'esame del contratto in questione per individuare quale sia stata realmente la comune intenzione delle parti.

In definitiva, la risposta dipende dal singolo contratto, ma per molte delle polizze sul mercato il requisito per la indennizzabilità dei postumi non è la loro reale stabilizzazione, ma che gli stessi siano valutati nel range di tempo contrattualmente previsto.

La clausola prevista generalmente nei contratti di assicurazione malattia, secondo cui “il grado di invalidità permanente da malattia è accertato nel periodo compreso tra i 12 e i 18 mesi dalla data di denuncia della malattia” o “i 6 e i 12 mesi” è una convenzione contrattuale tra le parti, così come quelle sui criteri per determinare il grado di I.P., ed ha forza di legge tra le stesse ex art. 1372 c.c.

Quindi la I.P. indennizzabile, in presenza di tale clausola, è quella accertata in tale range di tempo.

Indubbiamente se un contratto, con un'alta franchigia, di fatto limita la garanzia solo alle malattie più gravi, che in quanto tali siano in grado di causare una I.P. di grado così alto da superare la soglia della franchigia, ma che in compenso non giungano mai a completa stabilizzazione, e poi condizioni l'indennizzabilità solo a postumi che siano realmente stabilizzati, la garanzia risulterebbe più o meno ampia solo in apparenza, mentre nella realtà sarebbe molto svuotata.

In tal caso si porrebbe un problema di fruibilità del prodotto così offerto sul mercato, atteso che l'assicurato non può intervenire nella predisposizione delle condizioni contrattuali, ma può solo scegliere se concludere o meno un determinato contratto.

Ovviamente l'attività di interpretazione del contratto è riservata al giudice del merito ed è preclusa alla Suprema Corte, a cui è riservato valutare se l'interpretazione sia stata compiuta nel rispetto delle regole interpretative di cui agli artt. 1362 e ss c.c.

Bibliografia
  • Marco Rossetti, Il diritto delle assicurazioni, vol. II, 2012;
  • Marco Rossetti, L'Assicurazione e l'emergenza Covid, Assicurazioni.
  • Enzo Ronchi, Luigi Mastroroberto, Umberto Genovese, Guida alla valutazione medico – legale dell'invalidità permanente, Giuffrè editore 2015;
  • Raineri Luvoni, Enzo Ronchi, Franco Mangili, Guida alla valutazione medico – legale dell'invalidità permanente da malattia nell'assicurazione privata, Giuffrè editore 1992.

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