Comunione de residuoFonte: Cod. Civ. Articolo 177
23 Agosto 2023
Inquadramento
L'espressione “comunione de residuo“ indica quella comunione residuale e differita che viene a formarsi tra i coniugi, all'atto stesso dello scioglimento del regime patrimoniale legale, a condizione che i beni che ne costituiscono oggetto non siano stati consumati prima di tale momento, secondo quanto previsto dagli artt. 177, lett. b) e c) e dall'178 c.c.. La ratio sottesa all'istituto si individua nella funzione di compromesso tra le esigenze di tutela del coniuge debole e il principio solidaristico proprio della vita coniugale, da un lato (art. 29 Cost.) e, dall'altro, la garanzia della libertà di autodeterminazione, gestione e remunerazione del lavoro del coniuge percettore (artt. 35, 41, 42 Cost.), oltre a motivi di opportunità, in relazione alle fattispecie sottese dall'art. 178 c.c.. E' da premettere che il regime della comunione legale “si scioglie” per una serie di cause, elencate nell'art. 191 c.c. (oltre alla morte naturale di uno dei due coniugi per la cessazione del matrimonio stesso ex art. 149 c.c.), che determinano la sopravvenuta mancanza di operatività del regime medesimo, relativamente agli acquisti che i coniugi effettueranno in futuro. Allo scioglimento consegue l'ulteriore effetto dell'ingresso nel patrimonio comune dei beni oggetto di comunione de residuo. Al riguardo, ai fini della determinazione del momento di formazione della medesima, pare qui opportuno evidenziare che la l.6 maggio 2015, n.55 (cd. legge sul divorzio breve), il cui art. 2 ha integrato l'art. 191 c.c., ha eliminato le incertezze ermeneutiche, precedenti alla riforma: in oggi, l'ordinanza con la quale il presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, nell'ambito di un procedimento di separazione giudiziale, determina lo scioglimento della comunione; analogamente è previsto che detto scioglimento avvenga alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. Quanto all'opponibilità ai terzi della modifica dei rapporti patrimoniali dei coniugi, il nuovo art. 191 c.c. dispone che l'ordinanza di cui sopra debba essere comunicata all'ufficiale di stato civile, ai fini dell'annotazione a margine dell'atto di matrimonio. In generale, al proposito, si segnala che nella Gazzetta Ufficiale n. 243 del 17 ottobre 2022 (suppl. ord. n. 38/L) è stato pubblicato il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, recante attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata. Si tratta di disposizioni dall'impianto, nel complesso, articolato, di riforma della giustizia familiare e minorile, nell'ambito di quella più generale civile. L'art. 3, comma 33, d.lgs. n. 149/2022, dando attuazione alla legge delega, ha previsto un nuovo rito, introdotto nel libro II del codice di procedura civile, dopo il Titolo IV, in un titolo apposito, rubricato “norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie”, il Titolo IV bis. Un rito unico per tutti i procedimenti in materia di famiglia, domanda contestuale di separazione e di divorzio, queste sono, tra le tante, le novità contenute nella riforma Cartabia in materia di famiglia, con effetto dal 28 febbraio 2023, anticipata di qualche mese rispetto alla data inizialmente prevista del 30 giugno 2023 da applicarsi alle cause dal 1 marzo 2023, con l'introduzione nell'ottobre 2024, del tribunale della famiglia. Detto nuovo organo viene istituito proprio per questo tipo di procedimenti e costituito da una sezione distrettuale nella sede della corte di appello e varie sezioni circondariali coincidenti, per territorio, con i relativi tribunali e formato da giudici specializzati. Si noti come il d.lgs. 149/2022 abbia introdotto il nuovo titolo nel libro secondo del codice di rito, dedicato al processo di cognizione, assoggettando il procedimento sulle persone, minorenni e famiglie, salvo che non esistano disposizioni ad hoc nel suddetto Titolo IV bis, alla disciplina generale del rito di cognizione. Per il riflesso sull'istituto in esame, segnatamente in ordine allo scioglimento del regime della comunione legale, viene in rilievo, a seguito della riforma, la questione giuridica afferente all'ammissibilità del cumulo, in via consensuale, delle domande di separazione e divorzio. La disciplina dei procedimenti su domanda congiunta è regolata dall'articolo 473-bis.51 c.p.c. che non richiama l'articolo 473-bis.49 c.p.c., Cumulo di domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, inserito dall'art. 3, comma 33, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n.197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti"). Il legislatore ha provveduto a disciplinarne l'eventualità in sede contenziosa, senza disporre per l'ipotesi in cui i coniugi presentino, cumulativamente, le stesse domande, ma in via consensuale. Si rileva la difficoltà di un'interpretazione univoca, nella giurisprudenza di merito ma anche in dottrina, ove da un lato, si ammette il cumulo delle domande di separazione e divorzio in procedimenti non contenziosi, facendo leva sul principio di economia processuale e dall'altra si esclude, con argomenti di carattere sia letterale, sia sistematico, sia sostanziale, non facendo la legge delega riferimento al cumulo nei procedimenti non contenziosi (cfr. in argomento, per l'ammissibilità della domanda congiunta e cumulata di separazione e di divorzio, Trib. Terni 22 giugno 2023, ove indicato, tra gli altri, l'argomento letterale, oltre a considerazioni generali relative a celerità ed economia processuale, per la definizione in un solo contesto, con l'ausilio dell'unico difensore o dei rispettivi difensori, dell'intera fase dissolutiva del matrimonio tra coniugi).
Natura e oggetto della comunione de residuo
In riferimento alla natura giuridica della comunione de residuo, discussa ne appare l'individuazione: reale, quale situazione di reale contitolarità circa i diritti in oggetto, nel momento in cui si scioglie la comunione legale, per lo più a seguito di vicenda separatizia, quando si dovrebbero attenuare i vincoli patrimoniali tra i coniugi, o obbligatoria, intesa come natura creditizia delle pretese dei coniugi. Sembra preferibile la seconda tesi: il coniuge, al momento dello scioglimento della comunione, diventa titolare di un credito, pari alla metà dei beni oggetto della comunione (si v. infra). Si parla di beni «propri», di esclusiva titolarità del coniuge percettore, in relazione ai quali non è consentito applicare il fenomeno della surrogazione descritto nella lett. f dell'art. 179 c.c., per cui i beni acquistati col prezzo del trasferimento dei beni personali elencati alle lett. a, b, c, d ed e dell'art. 179, 1 comma, c.c. o con il loro scambio, assumono anch'essi natura personale purché «ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto» (cfr. Cass. 23 settembre 1997, n. 9355, in Notariato, 1998, 4, 317; Cass. 12 settembre 2003, n. 13441, in Guida al Diritto, 2003, 42, 40, ove si evidenzia, precisandola, la differenza tra comunione immediata e comunione de residuo, nel senso che i beni oggetto della seconda rimangono «propri» del coniuge titolare sino al momento dello scioglimento, momento nel quale entreranno a far parte di una situazione di contitolarità; nella giurisprudenza tributaria di legittimità, cfr. Cass. 9 maggio 2007, n. 10608, in Fisco on line, 2007), per la natura obbligatoria, e non reale, del diritto del coniuge sui beni dell'azienda gestita dall'altro). In argomento si segnala l'ordinanza interlocutoria, Cass. sez. II ord. 19 ottobre 2021 n. 28872, sull'indicato contrasto che ha condotto la Suprema Corte a disporre, trattandosi di questione di massima di particolare importanza, la remissione al Primo Presidente, per l'assegnazione alle Sezioni Unite, in ordine alla decisione circa la natura, reale o personale, del diritto insito nella comunione de residuo, in conseguenza dello scioglimento del regime patrimoniale della comunione dei beni tra coniugi. Nell'ordinanza vi sono cenni ad alcune pronunce di legittimità, in riferimento alla natura giuridica dell'istituto, con il rilievo dei due diversi orientamenti giurisprudenziali: tra le altre, Cass. 20 marzo 2013, n. 6876; Cass, pen. sez. III, 29 novembre 2010, n. 42182; ma anche Cass. sez. trib. 16 luglio 2008, n. 19567. Con la pronuncia Cass. civ. sez. un., 17 maggio 2022, n. 15889, di stringente attualità, la Corte è intervenuta in materia, fornendo precisazioni e chiarimenti. Nella motivazione, si evidenzia la già segnalata ricognizione dei precedenti giurisprudenziali, una parte dei quali, a sostegno della natura creditizia (tra le altre, Cass. 29 novembre 1986, n. 7060, le cui osservazioni, già espresse dai giudici di legittimità, vengono richiamate nelle argomentazioni dalle Sezioni Unite; Tribunale Camerino 5 agosto 1988); l'altra parte, a sostegno della natura reale del diritto in esame (Cass. 14 aprile 2004, n. 7060; Cass. 16 luglio 2008, n. 19567; Cass. 13 luglio 2015, n. 13760, che richiama Cass. 23 febbraio 2011, n. 4393). La sentenza sottolinea come “il panorama della dottrina e della giurisprudenza” consenta “di affermare che la questione oggetto dell'ordinanza di rimessione” è tra quelle maggiormente dibattute “ed è priva ancora di una risposta soddisfacente” “ancorché siano decorsi oltre quaranta anni dalla novella del 1975, emergendo proprio dalla giurisprudenza segnalata come le soluzioni sinora date siano spesso prive di una adeguata ponderazione e vedano raggiunti esiti evidentemente contrapposti, senza che lo sviluppo cronologico delle decisioni possa far propendere per una evoluzione consapevole della giurisprudenza verso l'una o l'altra soluzione.” Al riguardo, viene evidenziato come la stessa individuazione dei beni oggetto della comunione de residuo testimoni lo sforzo del legislatore di raggiungere un bilanciamento tra il principio solidaristico, che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall'altro (artt. 35, 41, 42 Cost., tra questi, il diritto di liberamente scegliere la propria attività lavorativa, diritto effettivo se la scelta di ciascuno non è condizionata da interferenze del coniuge). In rilievo poi, in motivazione, l'osservazione sulla conflittualità tra coniugi, che frequentemente caratterizza alcune fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, nonché sull'esigenza di approntare validi strumenti, anche dal punto di vista legislativo, per assicurare la sopravvivenza delle imprese a fronte di vicende potenzialmente destabilizzanti (a titolo esemplificativo, si indica la previsione del patto di famiglia, artt. 768-bis e ss.c.c., introdotti dalla legge n. 55/2006). Alla luce dei rilievi esposti, la Corte ritiene preferibile propendere per la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, “tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l'aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l'altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell'autonomia gestionale, quanto all'impresa, in capo all'altro coniuge, nelle ipotesi previste dall'art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell'impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.” Si sottolinea, tra l'altro, come risulterebbe priva di razionalità la tesi che ne afferma la natura reale, in quanto determinante un incremento dei legami economici fra i coniugi proprio quando sono in essere vicende che ne dovrebbero invece implicare la cessazione, oltre che in considerazione dei rischi che essa è in grado di arrecare alla stessa sopravvivenza dell'impresa del coniuge. I Giudici di legittimità, pronunciandosi a Sezioni Unite, superano pertanto i discordanti orientamenti di dottrina e giurisprudenza e decidono la questione, oggetto dell'ordinanza di rimessione, optando per la natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo e riconoscendo un diritto di compartecipazione sul piano appunto creditizio, pari alla metà dell'ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività. Con soluzione che per la Corte è rispettosa del principio “secondo cui il fondamentale canone di cui all'art. 12, co 1, delle Preleggi, impone all'interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione, costituendo la lettera della norma, infatti un limite invalicabile dell'interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis.” . Quanto all'oggetto della comunione de residuo, ai sensi dell'art. 177 lett. b) c.c., esso comprende i frutti dei beni propri (personali ex art. 179 c.c., ma pure gli stessi beni in comunione de residuo) dei coniugi, percepiti e non consumati. Si tratta dei frutti naturali e civili (art. 820 c.c.). Tra i primi, si distinguono quelli organici (es. i prodotti e i raccolti agricoli, le parti staccate di cose principali, come legna tagliata dai boschi cedui) ed inorganici (prodotti delle miniere, cave e torbiere). Nella categoria dei frutti civili, si ricomprendono gli interessi dei capitali, i canoni di locazione e gli affitti dei fondi rustici, oltre alle rendite vitalizie. Per quanto attiene all'art 177 lett. c) c.c., l'oggetto della comunione de residuo è costituito dai proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi, se non consumati: vi rientrano non solo stipendi e salari da lavoro dipendente, ma anche i redditi da lavoro autonomo di artigiani, imprenditori, professionisti. Mancando una definizione, generalmente si fa riferimento al denaro, ma potrebbe essere ogni altra forma di corrispettivo, mobili o crediti, qualsiasi utilità o entrata che derivi dall'attività di lavoro svolta dal coniuge in qualunque forma, subordinata o autonoma, professionale, pure esercitata per hobby (non del tutto occasionale e saltuaria), potendosi ritenere compresi i diritti ed i redditi correlati all'esercizio del diritto patrimoniale d'autore, o di altre opere dell'ingegno. Per il trattamento di fine rapporto e considerata la relativa natura di retribuzione differita, si discute se cada in comunione de residuo se non ancora percepito al momento dello scioglimento della comunione (per una disamina della dottrina in riferimento ai proventi ex art. 177, lett. c), c.c., v. SESTA M. (a cura di), cit.,799 s., ove l'indicazione del richiamo normativo alla necessità che i beni non siano già stati consumati all'atto dello scioglimento, richiamo che sembra postulare che solo i proventi già esigibili vengano ivi in considerazione; in generale, cfr. Trib. Padova, 26 settembre 1985, in Nuova Giur. Civ., 1986, I, 438, secondo cui, in seguito allo scioglimento della comunione legale per effetto della separazione giudiziale, il giudice può assegnare al coniuge metà dell'indennità di fine rapporto di lavoro, percepita dall'altro coniuge). In giurisprudenza, si è osservato che il saldo attivo di un conto corrente, intestato ad uno dei coniugi, nel quale sono confluiti i suoi proventi, diviene di titolarità dei coniugi, alla morte del titolare, sicché il coniuge superstite ha un diritto autonomo e non jure ereditario sulla metà del saldo (Cass. 6 maggio 2009, n. 10386, in Boll. Trib., 2009, 14, 1142; cfr. Trib. Cassino, 27 ottobre 2011, pronuncia relativa invece a somme sul conto corrente cointestato); in altra fattispecie giurisprudenziale si è affermato che costituiscono oggetto di comunione de residuo le quote di società di persone acquistate da un coniuge (Cass. 20 marzo 2013, n. 6876, in Notariato, 2013, 3, 248). In ordine al requisito della non consumazione dei beni in comunione de residuo allo scioglimento della comunione, viene in evidenza il problema dell'onere della prova, da parte del coniuge creditore, non solo della percezione da parte dell'altro coniuge di frutti e proventi, ma anche della dimostrazione che tali somme erano ancora nel patrimonio del coniuge percipiente al momento della cessazione della comunione. La Corte di Cassazione, intervenendo sul tema, ha avuto ad affermare che costituiscono oggetto della cd. comunione "de residuo", tutti i redditi percetti e percipiendi, exart. 177 lett. b) e c) c.c., rispetto ai quali il titolare degli stessi non riesca a dare la prova che o sono stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione; così argomentando, il coniuge percipiente i redditi, su cui incombe l'onere di dimostrare il loro mancato reimpiego, non li potrebbe utilizzare liberamente, pur fatto salvo il dovere di contribuzione, ma li dovrebbe destinare ai bisogni della famiglia, pena il dovere di rimborsarli alla comunione stessa al momento del suo scioglimento (cfr. Cass. 10 ottobre 1996, n. 8865, in Vita Notar., 1996, 1200; Cass. 23 settembre 1997, n. 9355, cit.; Cass. 17 novembre 2000, n. 14897). Secondo l'orientamento della giurisprudenza più recente, la comunione de residuo si realizza al momento dello scioglimento della comunione limitatamente a quanto effettivamente esistente nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi ritenendo ad essa destinati ex lege i proventi personali che non si dimostri essere stati investiti per la famiglia o per l'acquisto di beni comuni; si ribadisce il principio che l'art. 177 , lett. c) c.c. esclude dalla comunione legale i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento, precisandosi che la comunione de residuo non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della medesima ed a carico del singolo coniuge, ma una semplice aspettativa di fatto (si v. Cass. 8 febbraio 2006, n. 2597, in Corr. Giur., 2006, 6, 807, ove in rilievo le ragioni del revirement giurisprudenziale, con il riferimento al dato normativo di cui al sistema della comunione legale tra coniugi varato dalla riforma del 1975, nel quale non risulta traccia di strumenti concessi al partner per sindacare o impedire l'utilizzo delle disponibilità individuali dell'altro coniuge; conf. Cass. 21 ottobre 2010, n. 21648; Trib. Bari 30 marzo 2010;v. pure Cass. 12 settembre 2003, n. 13441, cit.). Il coniuge titolare dei beni destinati alla comunione de residuo ha il godimento esclusivo e può disporne liberamente. In relazione a detti beni, l'altro coniuge non ha potere di disposizione o di amministrazione, né gli è riconosciuto il diritto al rendiconto, essendo i medesimi non ancora individuati e incerti nella loro venuta a sussistenza;in proposito, si potrà aver riguardo alla norma di cui all'art. 217 c.c. relativa all'amministrazione e godimento in regime di separazione dei beni (cfr. Cass. 8 febbraio 2006, n. 2597, cit.; Trib. Trani 12 maggio 1997, Dir. Fam., 1998, 1472). Quanto alla necessità di tutelare il coniuge in caso di occultamenti dei risparmi da parte dell'altro coniuge, sono state proposte, in giurisprudenza, varie ipotesi interpretative che individuano potenziali strumenti di tutela, quali la richiesta di anticipata separazione dei beni (ex art. 193 c.c., prevista in caso di cattiva amministrazione della comunione, ritenendosi sottintesa, nel concetto, l'aspettativa inerente la comunione residuale), o altri mezzi, per lo più di carattere generale spettanti ad ogni creditore, del genere delle azioni revocatoria e surrogatoria, nonché delle domande di risarcimento dei danni(v. Cass. 12 settembre 2003, n. 13441, cit.; cfr., sul punto, Trib. Trani, 25 luglio 1995, in Gius, 1995, 3586,in In riferimento alla posizione dei creditori personali al momento della cessazione del regime e alle problematiche connesse alle garanzie per gli stessi in vista della caduta dei beni in comunione de residuo, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che il fallimento di uno dei coniugi, in comunione legale, determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all'esercizio di impresa, soltanto rispetto a quelli eventualmente residui dopo la chiusura della procedura (al riguardo Cass. 9 marzo 2000, n. 2680, in Foro It., 2000, I; Cass. 14 aprile 2004, n. 7060, in Fallimento, 2005, 2, 146). Da segnalare, per i riflessi normativi generali in materia, la recente l. 20 maggio 2016 n. 76 in vigore dal 5 giugno 2016, di regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e di disciplina delle convivenze. In particolare, si evidenzia il comma 60, art. 1, per la previsione ivi contenuta, secondo cui la risoluzione del contratto di convivenza determina lo scioglimento della comunione legale, per quella coppia che abbia ritenuto di vincolarsi pattiziamente a detto regime; risulta pertanto rilevante il momento in cui interviene lo scioglimento, anche ai fini dell'accertamento della comunione de residuo.
Orientamenti a confronto
Si è detto che, per le fattispecie prese in considerazione dall'art. 178 c.c., la ratio dell'istituto viene individuata in motivi di opportunità riferiti al mancato coinvolgimento, nella posizione di responsabilità illimitata del coniuge imprenditore, dell'altro coniuge, in un'ottica generale di contemperamento delle istanze solidaristiche e individualistiche, comprensive della libertà di gestione dell'attività del soggetto imprenditore. Tale disposizione riguarda specificamente i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente. Per le aziende relative ad imprese gestite da entrambi, la fattispecie rientra nel disposto dell'art. 177 c.c. (lett. d e cpv.). Mentre il criterio della gestione fonda la distinzione tra comunione immediata e de residuo (se comune, comunione immediata, se individuale, de residuo),quello dell'anteriorità o meno al matrimonio (ossia il momento in cui l'azienda, intesa come strumento per l'esercizio di un'attività imprenditoriale, è stata costituita) attiene all'oggetto: se precedente il matrimonio, oggetto della comunione(vuoi immediata, vuoi residuale, a seconda dei casi di cui sopra) sarà l'intero complesso aziendale, altrimenti la comunione, immediata o de residuo, riguarderà gli utili e gli incrementi, ex art. 177 cpv. c.c. e gli incrementi ex art. 178 c.c.. I beni destinati all'esercizio dell'impresa rimangono, fino allo scioglimento della comunione, nell'esclusiva disponibilità dell'imprenditore. Può trattarsi di beni mobili, ovvero immobili (al riguardo,cfr., per quanto attiene all'art. 177 lett. b), c), Cass. 8 maggio 1996, n. 4273, in Riv. Notar., 1996, ove il riferimento esclusivamente a beni mobili o diritti di credito verso terzi). Si è evidenziato in giurisprudenza che, nel regime della comunione legale, i beni, inclusi quelli immobili, che vengano acquistati da uno dei coniugi e destinati all'esercizio, da parte sua, dell'impresa costituita dopo il matrimonio, fanno parte della comunione de residuo e non possono esserne esclusi(Cass. 19 settembre 2005, n. 18456, in Nuova Giur. Civ., 2006, 9, 933; v. anche Cass. 29 novembre 1986, n. 7060, in Foro It., 1987, I). Per quanto attiene alla effettiva «destinazione» di uno o più beni a far parte di un'azienda gestita da uno solo dei coniugi, ex art. 178 c.c., ci si chiede come tale destinazione possa essere fatta risultare verso i terzi. Nella giurisprudenza, si è precisato che è sufficiente, perché i benefici acquistati da uno dei coniugi cadano in comunione de residuo, che i beni siano destinati all'esercizio dell'impresa, ancorché di tale destinazione non si faccia menzione nell'atto di acquisto; con la conseguenza, tra l'altro, che tali beni, destinati all'uso predetto, sono liberamente aggredibili, prima di tale evento, da parte dei creditori del coniuge acquirente (Cass. 21 maggio 1997, n. 4533; cfr. anche Cass. 29 novembre 1986, n. 7060, cit.; Cass. 19 settembre 2005, n. 18456, cit.; v. però Cons. Stato Sez. II, 7 maggio 1986, n. 979, in Foro It., 1989, III, 84; cfr., nella giurisprudenza di merito, Trib. Napoli, 19 dicembre 2001, in Gius, 2002, 21, 2108, ove il riferimento al dato obiettivo della qualità di imprenditore del coniuge acquirente e l'inerenza dell'acquisto all'impresa di quest'ultimo; Trib. Piacenza, 9 aprile 1991, in Dir. Famiglia, 1991, 1033, secondo cui la dichiarazione circa l'esclusione dalla comunione, necessaria, invece, nella diversa ipotesi contemplata dall'art. 179 c.c., dove egualmente resa nell'atto notarile di acquisto, è improduttiva di effetti, sicché i coniugi che intendano escludere dalla comunione de residuo il bene destinato all'impresa di uno di essi hanno l'onere di modificare, nelle forme di rito ex lege, il regime patrimoniale che li governa; Trib. Camerino 5 agosto 1988, in Foro It., 1990, I, 2333, anche per il riferimento alla natura della comunione de residuo di mero diritto di credito), su cui si veda supra. Casistica
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