L'Avvocato Luca Crotti, prendendo spunto dall'ordinanza in oggetto, ha elaborato un quadro di sintesi sulle divisioni, nel dualismo tra fattispecie ed effetto giuridico. Ha, inoltre, approfondito alcuni aspetti di diritto sostanziale e sintetizzato alcune considerazioni di ordine processuale.
Premessa
Dispone, prima facie, Cass. 2 marzo 2023 n. 6228, in massima, che “la divisione non” opera “alcun trasferimento di diritti dall'uno all'altro condividente”.
In realtà, tale provvedimento, se analizzato anche in parte motivazionale, lungi dal prendere le distanze dalla Cass. SU 7 ottobre 2019 n. 25021, secondo cui la divisione avrebbe tipicamente “efficacia costitutivo-traslativa” (sulla base di un distorto metodo decisionale, desumibile dall'artificiosità dell'argomentazione, in cui la statuizione ha preceduto l'individuazione delle motivazioni), aderisce a tale recente posizione giudiziale al dichiarato scopo di soddisfare l'esigenza di applicare pure alla divisione ereditaria i divieti stabiliti dalla disciplina edilizio-urbanistica in materia di immobili abusivi.
Tuttavia, la decisione assunta dalle citate Sezioni Unite non è stata in grado di convincere gli stessi giudici di legittimità se è vero che, successivamente ad esse, è intervenuta Cass. 24 novembre 2020 n. 26692 la quale, andando ad arricchire il già consistente novero di precedenti giudiziari che formano il consolidato approdo tradizionale dell'efficacia dichiarativa del “tipico” atto divisorio in natura, ha stabilito che “Anche secondo il sistema tavolare, la pubblicità della divisione […] non è sottoposta al regime predisposto per gli atti traslativi, ma è imposta ai fini del principio di continuità” (ossia, non agli effetti dell'art. 2644 c.c. ma a quelli di cui all'art. 2650 c.c.).
Le divisioni: fattispecie ed efficacia giuridica
È approdo sicuro, presso la più autorevole dottrina civilistica di settore, quello per cui la divisione produce un risultato di apporzionamento, contrario alla condizione di comunione, che può essere raggiunto attraverso una varietà di mezzi e operazioni strumentali, anche a carattere impeditivo di effetti legali.
Difatti, la divisione, intesa come fattispecie, può derivare da una sentenza, da un atto unilaterale del testatore (con cui si previene, impedendolo sin dall'origine, l'insorgenza di uno stato di comunione) ovvero da un contratto socialmente tipico (c.d. divisione in natura) o (funzionalmente ad essa) equiparato ai sensi dell'art. 764 c.c. (c.d. divisione impropria, che si realizza mediante l'impiego di beni estranei alla dividenda massa comune).
Invece, riguardata come effetto giuridico, la divisione produce un'efficacia puramente distributiva, poiché lo scioglimento di una preesistente comunione non è un coelemento di efficacia necessario alla caratterizzazione della vicenda riguardata nei suoi connotati essenziali.
La natura dell'effetto divisionale e il titolo della divisione ereditaria
In un recentissimo saggio, abbiamo messo in luce, dopo aver prestato adesione alla teoria che inquadra la comunione nel fenomeno della proprietà plurima integrale (tesi di matrice romanistica per la quale la comproprietà rappresenta un fascio di diritti solitari compressi solo soggettivamente dal concorso di più titolari, per cui il concetto della contitolarità esprime l'idea di un limite reciproco ai sensi dell'art. 832 c.c.), che “il dividere” in natura, per il profilo economico collegato alla relativa funzione contrattuale (che si esaurisce nella “distribuzione proporzionale” della massa in comune, quale minima unità effettuale del negozio divisorio), non è vicenda diretta a produrre, per i condividenti, un “acquisto” ma, sul piano reale, una “perdita” rispetto a quegli specifici beni in ordine ai quali non sussiste più, per il singolo, alcun “interesse alla conservazione” (oppure è vicenda idonea a produrre, ai sensi dell'art. 734 c.c., il “mancato acquisto” di quei beni che, altrimenti, sarebbero divenuti, ex lege, comuni).
A conferma dell'etimo (che racchiude un'accezione in termini di “distacco” o di “allontanamento”) del verbo “dividere”, depone anche la lettera dell'art. 757 c.c., la quale, se si assegna l'ordine proprio ai periodi che la formano, si esprime in negativo: “Ogni coerede […] si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari” (perché riconosciuti nell'altrui titolarità esclusiva) e, per differenza, “è reputato solo e immediato successore di tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione”.
Quanto a dire che il primo e decisivo passo per sciogliersi contrattualmente dal gruppo è, per ciascun comunista, quello di soddisfare le aspettative di mero fatto degli altri condividenti alla singola specifica assegnazione, dichiarando il proprio disinteresse in proposito.
Del resto, proprio per consentire la riespansione dell'esclusività del dominio, il legislatore riconosce al proprietario il diritto potestativo (non di appropriarsi di un bene comune a esclusione degli altri ma) di dividere (ossia di separarsi dal gruppo perdendo la titolarità di beni prima in comune): si è quindi in presenza di un fenomeno che, come crediamo, appare assai difficilmente giustificabile con la tesi della proprietà plurima parziaria la quale postula, in modo scarsamente persuasivo, la creazione di un ‘diritto reale speciale' mal tollerato, per le sue fisiologiche modalità di esercizio, dallo stesso legislatore che lo istituisce. Vero è, quindi, che la divisione rappresenta un atto contro la conservazione o la formazione di un gruppo di contitolari di omogenee situazioni giuridiche soggettive attive e reali riferite ai medesimi beni.
In particolare, sul piano della dinamica negoziale, abbiamo messo in luce che il contratto di divisione in natura si perfeziona con l'adesione impegnativa dei condividenti ad un dato assetto di interessi distributivo, riguardato sotto il profilo del suo regolamento.
Dall'esame di tale regolamento, è emerso che il “tipico” contratto di divisione consta di reciproci riconoscimenti definitivi tra comproprietari dell'altrui godimento esclusivo su una data res o su una sua parte, che, nell'apporzionare, producono, economicamente, la cessazione della comunione (art. 832 c.c.), ossia del concorso tra soggetti, sulla sostanza prima in contitolarità mediante la necessaria e contestuale estinzione delle situazioni soggettive attive divenute incompatibili con la realizzazione del programma divisionale. È come se ciascun condividente dichiarasse: “Acconsento a che l'altro condividente trattenga in assegnazione il dato bene comune [contra se pronuntiatio] in quanto tale cespite non mi interessa in un'ottica di apporzionamento (ossia di maturare, in ordine a esso, un godimento esclusivo)”.
L'effetto divisionale è, perciò, “dichiarativo” (perché non si dà al condividente nulla di diverso da ciò che già aveva) ma non nel senso di “che produce un accertamento”, l'unico sinora considerato dalla dogmatica. Difatti, non esiste alcuna res dubia perché l'interesse riconosciuto in testa al condividente come meritevole di tutela giuridica non è quello di decidere da sé che cosa gli sarà assegnato ma è quello di liberarsi unilateralmente dal vincolo del gruppo (o di prevenirne la formazione), qualunque sarà il bene destinato al suo godimento esclusivo, privo di compressioni esterne, e con il solo limite della rescindibilità dell'assegnazione.
Resta così confermato, con la teoria classica, che l'atto di divisione in natura “non fa provenienza”, come pure testimoniato dalla concordanza normativa riscontrabile, in tal senso, tra gli artt. 757, 521, 2646 e 2825 c.c.
E resta, inoltre, confermato che, al fine di attrarre la divisione ereditaria (se mai la si intendesse, come noi non crediamo, produttiva di effetti traslativi) nei divieti posti dalla disciplina urbanistica in materia di immobili abusivi, sarà ancora necessario dimostrare che tale fattispecie (al di là degli indiscutibili casi previsti dagli artt. 733 e 734 c.c.) non rappresenta l'atto conclusivo della vicenda successoria, colorato, come ritiene (e, secondo noi, a ragione) la maggioranza dei giudici di merito e legittimità, da una prevalente funzione causa mortis (così è per Cass. 1 febbraio 2010 n. 2313 e Cass. 28 novembre 2001 n. 15133, App. Firenze 23 marzo 2010, Trib. Padova 26 agosto 2019, Trib. Cuneo 14 marzo 2018, Trib. Roma 9 giugno 2012, Trib. Nola 28 luglio 2010).
Vero è, come ci appare, che la natura mortis causa della divisione ereditaria è desumibile dalrapporto, procedimentalmente unitario e funzionalmente immutabile nel titolo (perché deputato, sin dall'origine, a garantire finalisticamente all'erede il godimento esclusivo dei beni trasmessigli), che intercorre fra successione ereditariae (il medium del diritto potestativo alla) divisione ereditaria in natura (strumento conformativo coessenziale alla condizione di comunione ereditaria e sorto con questa proprio perché diretto ad assicurare al singolo il mezzo per distaccare il gruppo da sé).
Mentre l'eventuale differente sbocco del procedimento di scioglimento della comunione in una sussidiaria vendita all'incanto del bene comune nei confronti di terzi estranei al gruppo dei coeredi divisionisti, risolvendosi in un attopubblico di trasferimento coattivo, inter vivos, oneroso e corrispettivo, non implica alcuna “contraddittorietà o illogicità di sistema” (come erroneamente paventato dalle cit. Sezioni Unite), trattandosi di fattispecie autonoma, del tutto differente dalla “tipica” divisione in natura, che, producendo una c.d. divisione invece “civile”, vale a spezzare ogni nesso di derivazione dall'originaria vicenda causa mortis, come pure comprovato dal fatto che detta vicenda giudiziale è ritenuta incompatibile con il diritto di prelazione e con il retratto ai sensi dell'art. 732 c.c. (App. Genova 18 novembre 2005).
Per l'autonomia, invece, di tali vicende (successione e divisione ereditarie), riguardate strutturalmente in se stesse e per i differenti tempi in cui ciascuna interviene, e, perciò, per la natura di atto inter vivos della divisione d'eredità, si è finora espressa solo una minoranza di giudici territoriali: Trib. Benevento 28 ottobre 2009, Trib. Marsala 14 dicembre 2006, Trib. Termini Imerese 12 maggio 2003 e Trib. Napoli 16 ottobre 2002.
L'incompatibilità tra il tipico contratto di divisione e la stipulazione ex art. 1411 c.c. - La diversa soluzione percorribile per gli "atti equiparati"
La citata Cass SU 7 ottobre 2019 n. 25021, affermando che il contratto di divisione produce alienazione, potrebbero ingenerare il dubbio, nell'operatore pratico, della possibile innestabilità, nell'atto di divisione in natura, della clausola di deviazione degli effetti dell'assegnazione (o meglio, nell'ottica delle Sezioni Unite dell'attribuzione) in favore di un terzo, estraneo ai condividenti, ai sensi dell'art. 1411 c.c.
In realtà, tale ipotesi ricostruttiva sarebbe giuridicamente destituita di fondamento.
La dottrina migliore ha già da tempo evidenziato che l'art. 1411 c.c. è schema di struttura, privo di autosufficienza causale, che si deve necessariamente innestare in una fattispecie (rapporto di provvista) solo sinallagmatica in quanto l'obbligo del promittente verso il terzo trova giustificazione causale in ciò che lo stipulante dà o promette al promittente (arg. ex art. 1413 c.c. che disciplina il regime delle eccezioni opponibili dal promittente al terzo: “il promittente può opporre al terzo le eccezioni fondate sul contratto dal quale il terzo deriva il suo diritto” - ciò significa che questo contratto contiene la clausola di deviazione, e che, quindi, è tale contratto a giustificare causalmente l'insorgenza del rapporto obbligatorio tra stipulante e promittente: l'interesse dello stipulante non giustifica il rapporto obbligatorio che nasce tra stipulante e promittente, ma giustifica solo l'attribuzione al terzo del lato attivo di questo rapporto obbligatorio: lo stipulante vuole, con un unico atto, concludere un contratto e fare un'attribuzione al terzo -).
Devono, infatti, intendersi attualmente superate quelle immature posizioni primigenie che ricostruivano l'art. 1411 c.c. come nudo patto o come un contratto tipico: Cass. 24 febbraio 1955 n. 566 (nel decidere un caso di contratto a favore di terzo gratuito, con cui il promittente si obbligava verso il terzo senza ricevere alcun corrispettivo dallo stipulante). Oggi è fuori discussione che solo nella corrispettività, e quindi nella prestazione che lo stipulante deve fare al promittente, si può trovare la causa che giustifica l'obbligazione del promittente ancorché verso il terzo.
Fatta questa indispensabile premessa, abbiamo altresì chiarito che la divisione non esprime un interesse corrispettivo (secondo il quale “lo stipulante deve dar qualcosa affinché il promittente gli dia qualcosa”) ma contempla un programma che realizza, in assenza di prestazioni (tant'è vero che il condividente non può offrire da solo l'apporzionamento), quel rapporto di proporzionalità intercorrente tra le parti in relazione al tutto mediante l'assegnazione impegnativa a ciascun condividente del godimento esclusivo sulla singola res in funzione distributiva: si tratta, come ci appare chiaro, di un unitario rapporto complesso e inscindibile perché non tollera una separazione (non successoria) tra lato attivo e lato passivo.
Si può, quindi, affermare, senza tema di smentita, che l'effetto divisorio non è scindibile dal “tipico” contratto di divisione in quanto le parti della fattispecie devono necessariamente coincidere con le parti del rapporto giuridico originatosi divisionis causa.
Difatti, se l'apporzionamento non è una prestazione corrispettiva deviabile verso un terzo estraneo al gruppo, l'effetto distributivo non può che essere immanente all'interno del ceto dei condividenti e non può esserne proiettato al di fuori di esso perché l'assegnazione fatta dal promittente verso il terzo sarebbe priva di alcuna giustificazione oggettiva per la mancanza di una controprestazione in relativo favore (dato il carattere non corrispettivo del contratto di divisione: da Cass. 9 ottobre 2013 n. 22977).
In proposito, merita di essere ulteriormente precisato che, nel caso di un contratto non corrispettivo in cui si prevede solo una prestazione del promittente allo stipulante (senza quella dello stipulante al promittente), si sta disponendo traslativamente del diritto in modo autonomo perché la causa del contratto originario non riesce a giustificare la deviazione al terzo, ma è richiesta una causa ulteriore, per spostare il diritto al terzo, che è una comune causa traslativa. Con altre parole ancora, nei contratti onerosi non corrispettivi questa apparente deviazione al terzo non si regge sulla causa del contratto di cui la stipulazione è clausola ma richiede una causa attributiva nuova e ulteriore dal disponente al terzo (ciò che, con ogni probabilità, consente di affermare l'incompatibilità, con la divisione in natura, dell'art. 1411 c.c. anche per la tesi che sostiene il carattere costitutivo-traslativo della fattispecie distributiva, elaborata sulla scorta della ricostruzione della situazione di comunione in termini di proprietà plurima parziaria: Cass. SU 24 agosto 2007 n. 17952).
Ne discende che l'attribuzione in favore del terzo in senso proprio è esclusa, in tema di divisione in natura, dalla fisionomia causale del contratto perché inidonea a sorreggere la struttura dell'art. 1411 c.c., ossia la clausola di deviazione al terzo.
A differente conclusione si può invece pervenire con riguardo agli “atti equiparati” di cui all'art. 764 c.c., disposizione che si occupa di quei casi in cui un condividente riceve in apporzionamento della propria quota di diritto l'attribuzione di una res non ricompresa nella massa dividenda.
Infatti, in tali ipotesi, la causa in concreto, che è sempre quella divisoria, si attua, ad esempio, per mezzo del tipo vendita, ossia di una fattispecie a struttura corrispettiva.
Si pensi al caso di un solo immobile comune a due comproprietari contitolari, rispettivamente, nei limiti del 30% e del 70% dell'intero: quest'ultimo comunista vende al primo il suo diritto di proprietà, nei limiti della quota del 70%, e gli viene corrisposto un prezzo dalla provenienza estranea alla massa comune (trattandosi di denaro, per es., ricevuto in prestito dal compratore) proporzionale a quanto di spettanza del trasferente e che funge, concretamente, da conguaglio in denaro (strumento con funzione correttiva o compensativa causa divisionis).
Se, in atto, non si dichiara la proporzionalità dell'attribuzione (perché, per es., il compratore è disposto a pagare più del dovuto pur di assicurarsi l'assegnazione di un bene che altrimenti, in giudizio, sarebbe improbabile ottenere visto l'art. 720 c.c.), l'operazione non integra una divisione ma costituisce, tout court, una compravendita che realizza un mero scioglimento non divisorio della pregressa comunione.
Ebbene, nel caso di atto equiparato, venendo in gioco una struttura corrispettiva colorata da una causa in concreto divisoria, pare possibile ipotizzare che il trasferimentodel diritto di proprietà nei limiti della quota del 70% sia deviato dallo stipulante (il compratore già titolare della quota del 30%) in favore un terzo ai sensi dell'art. 1411 c.c.
Nella vicenda appena rappresentata, la prestazione del promittente, deviata nel patrimonio del terzo in forza dell'interesse dello stipulante, trova la sua giustificazione causale nella controprestazione assunta dallo stipulante nel rapporto di provvista costituito ai sensi dell'art. 1470 c.c.
In tale evenienza, pertanto, se si divide la res comune tra promittente e stipulante, si crea anche, contestualmente, un nuovo titolo di comunione, sul medesimo bene, tra soggetti diversi: lo stipulante, comproprietario nei limiti del 30%, e il terzo, nuovo comunista, comproprietario nei limiti del 70%.
Un accenno ai profili del rito dopo la c.d. riforma Cartabia
In chiusura di esposizione, merita di essere fatto un rapido cenno all'operazione divisionale riguardata nella dimensioneprocessale ai sensi dell'art. 784 e s. c.p.c.
A tal riguardo, è d'uopo sottolineare che la c.d. riforma Cartabia non ha inciso sul giudizio divisorio, che può quindi continuare a essere introdotto dal singolo condividente mediante atto di citazione e, perciò, con rito ordinario.
Tuttavia, è anche possibile instaurare il processo divisionale mediante il deposito di un ricorso (nell'adozione di una forma della domanda senz'altro più consona alla natura non contenziosa o di volontaria giurisdizione del procedimento) avvalendosi così dell'impiego del rito semplificato (art. 791 bis c. 1 c.p.c.); scelta adottabile, in particolare, qualora non sussistano questioni da definire a monte (attinenti, per es., al piano sostanziale dell'esistenza di una comunione su dati beni, tra determinati soggetti, posti tra loro in una certa relazione o, ancora, derivanti da domande pregiudiziali di riduzione, ecc.).
Conclusivamente, è opportuno segnalare che, in ipotesi di adozione del rito semplificato, se il giudice, di contro, dovesse ritenere non adatto, in concreto, il modulo utilizzato dal ricorrente, tramuterà il giudizio in ordinario, fissando, alla prima udienza, i termini per le memorie.
Guida all'approfondimento
GIURISPRUDENZA
1) per l'effetto dichiarativo della divisione:
Cass. 24 novembre 2020 n. 26692
Cass. 7 novembre 2017 n. 26351
Cass. 10 gennaio 2014 n. 406
Cass. 5 agosto 2011 n. 17061
Cass. 29 marzo 2006 n. 7231
Cass. 30 giugno 2005 n. 13948
Cass. 15 giugno 2010 n. 14398
Cass. 24 luglio 2000 n. 9659
Cass. 10 dicembre 1996 n. 10977
Cass. 13 aprile 1987 n. 3669
Cass. 26 luglio 1983 n. 5133
2) per l'effetto traslativo della divisione:
Cass SU 7 ottobre 2019 n. 25021
Cass. 2 marzo 2023 n. 6228
Cass. 13 agosto 1998 n. 7954 (larvatamente; ravvisa una “trasformazione [“del diritto di ciascun condividente ad una quota ideale dell'asse ereditario”, n.d.a.] in un diritto di proprietà esclusiva”).
DOTTRINA
L. Crotti, La divisione d'eredità (spunti tratti da Cassazione civ. S.U., 7 ottobre 2019, n. 25021), in Riv. dir. priv. 3, 2023, 457, ss.
U. La Porta, Il trasferimento del bene comune da parte del singolo contitolare, in Liber amicorum per Biagio Grasso, Napoli, 2015, 417, ss.
U. La Porta, Alcune questioni in tema di donazione modale e stipulazione a favore di terzo, in Riv. dir. civ., I, 2007, 15, ss.
L.V. Moscarini: Il contratto a favore di terzi, in Comm. Schlesinger, sub artt. 1411-1413, Milano, 2012, 97, ss.
E. Minervini, Divisione contrattuale ed atti equiparati, Napoli, 1990, 135 e 136
A. Luminoso, Divisione e sistema dei contratti, in Riv. dir. civ., 2009, I, 1 ss.
G. Amadio, Divisione ereditaria, Divisione ereditaria ed efficacia costitutiva: la fine del dogma della dichiaratività, in Nuova giur. comm., 3, 2020, 696, ss.
G. Amadio, L'efficacia costitutiva della divisione, in Riv. dir. civ., 1, 2020, 13, ss.
P. Forchielli, L'effetto << dichiarativo >> della divisione, in Studi in onore di F. Santoro Passarelli, II, Napoli, 1972, 333, ss.
C.A. Graziani, Il riconoscimento dei diritti reali, Padova, 1979, 272
P. Schlesinger, Complessità del procedimento di formazione del consenso ed unità del negozio contrattuale, in R.T.D.P.C., 1964, 1354, ss.
M. Bove, Le preclusioni nel procedimento di divisione, in Foro it., Problemi attuali di diritto proc. civ., Gli speciali, 2021, 1, 157
E. Fazzalari, Giurisdizione volontaria, E.D., XIX, Milano, 1970, 368, ss.
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Sommario
La natura dell'effetto divisionale e il titolo della divisione ereditaria
L'incompatibilità tra il tipico contratto di divisione e la stipulazione ex art. 1411 c.c. -
La diversa soluzione percorribile per gli "atti equiparati"