Atti discriminatori
06 Marzo 2024
Inquadramento
La discriminazione consiste in una ingiustificata differenza di trattamento dovuta ad un determinato fattore (c.d. fattore di rischio) tipizzato dalla legge e preso in considerazione con specifico riferimento al rapporto di lavoro. I fattori di rischio indicati dal legislatore rispondono ad esigenze di tutela di libertà fondamentali o caratteristiche proprie della persona. Vengono in rilievo, nel panorama giuridico nazionale, in conformità alle direttive comunitarie in materia, le discriminazioni per ragioni sindacali, politiche, religiose, e poi razziali, etniche, di lingua, di genere, di handicap, di età, di orientamento sessuale, di convinzioni personali, per infezione da HIV, per ragioni nazionali o di cittadinanza. Ogni altra differenza di trattamento per ragioni atipiche, anche se arbitrarie e non riconducibili ad un concreto esercizio dei poteri di impresa, non può essere definita discriminazione in senso tecnico e resta, quindi, estranea alla relativa disciplina. Ad esempio, un licenziamento intimato al lavoratore per essersi iscritto ad un sindacato è discriminatorio, mentre un licenziamento intimato perché lo stesso lavoratore ha un aspetto trasandato, pur essendo evidentemente arbitrario e quindi ingiustificato, non è qualificabile come tale. La discriminazione opera obiettivamente, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta (fattore di rischio) e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. In tale contesto, la legislazione antidiscriminatoria, la quale, anche all'interno dei rapporti di lavoro, mira a realizzare la parità di trattamento, eliminando l'incidenza negativa dei fattori di rischio, sancisce il divieto di porre in essere atti idonei a diversificare in senso sfavorevole il trattamento di soggetti che versano in uno stato di particolare debolezza, determinato dall'esistenza o dall'appartenenza ad uno determinato di tali fattori. Gli atti discriminatori
Il principio di non discriminazione trova esplicito riconoscimento nelle fonti di diritto primario dell'Unione Europea. L'art. 19 del Trattato sul funzionamento dell'UE attribuisce al Consiglio europeo – previa approvazione del Parlamento - il potere di prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni. L'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE, a sua volta, vieta tassativamente ogni discriminazione. In entrambe le fonti, ci si riferisce alle discriminazioni di soggetti che siano interessati da fattori di rischio, ovvero che possiedano almeno uno di quegli elementi di differenziazione in presenza dei quali sorge, per il diritto dell'Unione, la necessità di approntare una tutela contro possibili trattamenti deteriori rispetto a quelli riservati alla generalità degli individui. Il legislatore europeo, chiamato a fornire un quadro comune di tutele sul piano antidiscriminatorio, si è concentrato soprattutto sulla predisposizione di un apparato normativo volto a tutelare la parità di trattamento in presenza di fattori di rischio quali la razza o l'origine etnica (Direttiva 2000/43/CE), in materia di occupazione e condizioni di lavoro (Direttiva 2000/78/CE), in materia di pari opportunità tra uomo e donna nel mondo del lavoro (Direttiva 2006/54/CE).
Nell'ordinamento interno, il divieto di porre in essere atti o comportamenti discriminatori, declinazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, trova una prima realizzazione con lo Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970), il quale introduce il divieto di discriminazione dei lavoratori per motivi sindacali, politici e religiosi, attraverso la generale previsione degli artt. 15 e 16. In particolare, la sanzione della nullità degli atti o patti realizzati a fini discriminatori in ragione dell'appartenenza o dell'attività sindacale, è stata estesa, attraverso successivi interventi di legislazione speciale di recepimento della normativa sovranazionale, alle discriminazioni politiche e religiose, nonché alle discriminazioni per ragioni di razza, di lingua e di sesso, per le situazioni di handicap, legate all'età, all'orientamento sessuale e alle convinzioni personali (D.Lgs. n. 215/2003 e D.Lgs. n. 216/2003). La L. n. 135/1990 ha introdotto una specifica tutela antidiscriminatoria a favore dei lavoratori infetti da HIV. Il D.Lgs. n. 286/1998 (Testo Unico in materia di immigrazione) ha disposto uno specifico divieto di discriminazioni per ragioni nazionali o di cittadinanza, ribadendo il divieto di discriminazione per ragioni di razza e religione. In tale contesto si inserisce il D.Lgs. n. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità), il quale ha raccolto e riorganizzato la normativa antidiscriminatoria esistente in Italia, connotando del carattere della discriminatorietà anche le molestie di genere e sessuali sul luogo di lavoro (si rimanda circa le discriminazioni di genere, alla Scheda d'autore Pari opportunità). L'art. 25 del Codice delle Pari Opportunità fornisce la definizione di discriminazione diretta e indiretta, integrandosi la prima nel caso in cui una persona sia trattata, in base al genere, meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra persona in situazione analoga; la discriminazione indiretta, invece, si realizza in presenza di quelle situazioni nelle quali una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una condizione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso rispetto a persone dell'altro (salvo che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il conseguimento della finalità stessa siano appropriati e necessari). I singoli fattori di rischio: Ragioni sindacali e politiche
All'alba dell'introduzione dello Statuto dei Lavoratori, la discriminazione sul posto di lavoro era ricollegata all'attività politica e/o sindacale dei lavoratori, in stretta connessione. Nel secondo dopoguerra, in particolare, non furono pochi i licenziamenti a causa dell'orientamento politico, dell'appartenenza sindacale e dell'esercizio di forme di lotta per assicurare migliori condizioni di lavoro da parte dei lavoratori, in un contesto caratterizzato da una forte contrapposizione, anche di stampo ideologico, tra mondo delle imprese e mondo dei lavoratori.
Nello specifico, le discriminazioni per motivi sindacali consistono in comportamenti, posti in essere dal datore di lavoro, che pregiudicano il lavoratore in ragione della sua affiliazione sindacale o della sua partecipazione alle attività sindacali. La genericità di tale definizione permette di qualificare come discriminatori una gamma assai ampia di comportamenti, che vanno dal rifiuto di assumere fino al licenziamento, interessando qualsiasi vicenda intermedia che può caratterizzare il rapporto di lavoro, come l'inquadramento, l'adibizione a mansioni diverse o inferiori e il trasferimento. Le discriminazioni sindacali possono avvenire non solo privando il lavoratore di particolari benefici o arrecandogli un danno, ma anche attribuendo specifici vantaggi a coloro che tengano un determinato comportamento, gradito all'imprenditore, condizionando così, indebitamente, il singolo nell'esercizio della sua libertà sindacale. Sono da considerarsi discriminatori tutti i comportamenti del datore di lavoro finalizzati a subordinare l'impiego alla condizione che il lavoratore non aderisca ad un sindacato o smetta di farne parte ovvero si risolvano in un pregiudizio, perpetrato attraverso qualsiasi mezzo, a causa della sua affiliazione sindacale o della sua partecipazione alle attività sindacali al di fuori dell'orario di lavoro o, nei casi consentiti, durante l'orario di lavoro.
La sanzione della nullità degli atti discriminatori posti in essere per ragioni sindacali (v. artt. 15 e 16 L. n. 300/1970) viene ulteriormente rafforzata dalla previsione del procedimento specifico per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro previsto al successivo art. 28 L. n. 300/1970, che si applica anche con riferimento ai comportamenti plurioffensivi, parimenti lesivi dell'interesse sindacale e dell'interesse del singolo lavoratore. Tipico esempio è costituito dal trasferimento di un rappresentante sindacale interno in assenza del nulla osta dell'associazione sindacale di appartenenza, da cui derivano una limitazione alla presenza del sindacato in azienda e una contestuale violazione del diritto del lavoratore a non subire il mutamento della propria sede di lavoro.
Religione e convinzioni personali
Nel rapporto di lavoro subordinato, i comportamenti ascrivibili al concetto di discriminazione religiosa sono quelli che si verificano in presenza di un comportamento del datore di lavoro diretto a penalizzare il lavoratore esclusivamente in ragione delle sue opinioni religiose, in contrapposizione al diritto, spettante al soggetto/lavoratore, di non subire conseguenze pregiudizievoli di carattere materiale e/o patrimoniale in ragione della fede professata (o non professata) o delle opinioni religiose manifestate. Il legislatore nazionale ha espresso un giudizio di disvalore nei confronti della discriminazione religiosa, sia in fase preassuntiva (art. 8 L. n. 300/1970) che durante lo svolgimento del rapporto di lavoro (art. 4 L. n. 604/1966). Il nostro ordinamento vieta al datore di lavoro di assumere quali criteri di assunzione, licenziamento, di inquadramento e/o differenziazione di trattamento dei lavoratori le convinzioni in materia religiosa, a discapito della discrezionalità – sia pure limitata – di cui generalmente gode nell'esercizio dei suoi poteri. In tale contesto, la definizione di “convinzione personale” ricomprende il concetto di “religione”, ma ha un senso ancora più ampio nella misura in cui si estende alla libera espressione del pensiero della persona/lavoratore.
Con riferimento alla razza e all'origine etnica, non si rinviene una nozione condivisa dei suoi elementi identificativi con riferimento ad una determinata categoria di persone accomunata dal medesimo fattore di rischio. Sul piano giuridico, non è stato possibile individuare una distinzione oggettiva, né scientificamente sostenibile. Anche la direttiva 2000/43/CE non fornisce nozione alcuna, consentendo di poter includere nella relativa tutela antidiscriminatoria comportamenti che, all'epoca, non erano ancora emersi nella loro dimensione antigiuridica.
La tutela contro la discriminazione razziale è assistita da penetranti garanzie, che si aggiungono a quelle di carattere giuslavoristico. In particolare, l'art. 43, secondo comma, lettera e) del Testo Unico sull'immigrazione (D.Lgs. n. 286/1998) dispone che compie un atto di discriminazione “il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'art. 15 della legge 20.5.1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9.12.1977, n. 903 e dalla legge 11.5.1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza”. L'illegittimità dell'atto, in questi casi, è già determinata dalle leggi giuslavoristiche citate nell'articolo, di talché le conseguenze in caso di violazione della legge saranno non solo quelle previste da tale legislazione, ma anche quelle previste dall'art. 44 del T.U. richiamato, che legittima la proposizione dell'azione civile per il risarcimento del danno contro la discriminazione.
Handicap
La nozione di handicap – fattore di rischio menzionato espressamente nella direttiva 2000/78/CE - va intesa come un fattore di debolezza che risulta, in particolare, da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola, in misura più o meno elevata, la partecipazione della persona alla vita professionale. La sentenza della Corte di Giustizia n. 302/2011, definisce tale fattore di rischio come “il risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. Per tale motivo, il “considerando” n. 16 della direttiva citata enuncia che l'implementazione di misure che non siano dirette a salvaguardare i bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull'handicap. Va rimarcato che è esclusa l'assimilazione tra handicap e malattia, posto che, per rientrare nella nozione di handicap, la limitazione del soggetto deve essere, con ogni ragionevole probabilità, di lunga durata.
Con riferimento all'età, sono ritenute legittime le sole disparità di trattamento previste dalle legislazioni nazionali per ragioni di politiche dell'occupazione, alla duplice condizione che i mezzi specifici utilizzati siano appropriati e necessari, ovvero proporzionali alla finalità perseguita. Nell'ordinamento interno questi principi sono richiamati dal D.Lgs. n. 216/2003 attuativo della direttiva 2000/78/CE.
Orientamento e tendenze sessuali
Con “orientamento sessuale” si intende la capacità di ogni persona di provare una profonda attrazione emotiva, affettiva e sessuale verso persone dell'altro sesso, dello stesso sesso o di più di un sesso, e di intrattenere relazioni intime con loro (così nei “Principi di Yogyakarta sull'applicazione del diritto internazionale in materia di diritti umani in relazione con l'orientamento sessuale e l'identità di genere” del marzo 2007). I casi più comuni di discriminazione dovuta all'orientamento sessuale riguardano situazioni in cui una persona è trattata in modo sfavorevole perché non rientra nei canoni ordinari della eterosessualità, ma la discriminazione a motivo di tale fattore di rischio è evidentemente vietata in tutti i casi in cui una persona subisce un trattamento pregiudizievole per effetto delle proprie tendenze nella sfera sessuale.
Infezione da HIV
Il licenziamento di un lavoratore sieropositivo a causa della sua condizione di salute è sicuramente illegittimo. Il lavoratore sieropositivo non può essere licenziato, infatti, neanche adducendo motivi di inabilità al lavoro. Il dipendente può, eventualmente, insorgendo la malattia, risultare temporaneamente inabile al lavoro e, quindi, rientrare nelle normali procedure di copertura assistenziale previste in materia, tra l'altro, di assenza per malattia e di conservazione del posto di lavoro. In queste situazioni, la malattia si manifesta ciclicamente, permettendo al dipendente, all'esito di un periodo di riposo forzato, la ripresa regolare dell'attività lavorativa. In tal caso, inoltre, non sussiste nessun pericolo di contagio nei normali rapporti di scambio e interrelazione sul luogo di lavoro e nei confronti del pubblico.
Riferimenti Giurisprudenza Per i recenti orientamenti sul tema, v. Cass. Civ. sez. lav., 17 gennaio 2024, n. 1788, Tribunale Ravenna, sez. lav. ord. 4 gennaio 2024, n. 732, con commento di T. Zappia, Tutela antidiscriminatoria del caregiver familiare e del lavoratore disabile assente per malattia: le questioni rimesse alla Corte di Giustizia UE; Tribunale Roma, 18 dicembre 2023, con commento di M. Polato, Diritto antidiscriminatorio nel rapporto di lavoro: protezione del lavoratore portatore di handicap e lavoro agile
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