Giulia Busin
06 Marzo 2024

La discriminazione consiste in una ingiustificata differenza di trattamento dovuta ad un determinato fattore (c.d. fattore di rischio) tipizzato dalla legge e preso in considerazione con specifico riferimento al rapporto di lavoro.I fattori di rischio indicati dal legislatore rispondono ad esigenze di tutela di libertà fondamentali o caratteristiche proprie della persona. Vengono in rilievo, nel panorama giuridico nazionale, in conformità alle direttive comunitarie in materia, le discriminazioni per ragioni sindacali, politiche, religiose, e poi razziali, etniche, di lingua, di genere, di handicap, di età, di orientamento sessuale, di convinzioni personali, per infezione da HIV, per ragioni nazionali o di cittadinanza.

Inquadramento

La discriminazione consiste in una ingiustificata differenza di trattamento dovuta ad un determinato fattore (c.d. fattore di rischio) tipizzato dalla legge e preso in considerazione con specifico riferimento al rapporto di lavoro.

I fattori di rischio indicati dal legislatore rispondono ad esigenze di tutela di libertà fondamentali o caratteristiche proprie della persona. Vengono in rilievo, nel panorama giuridico nazionale, in conformità alle direttive comunitarie in materia, le discriminazioni per ragioni sindacali, politiche, religiose, e poi razziali, etniche, di lingua, di genere, di handicap, di età, di orientamento sessuale, di convinzioni personali, per infezione da HIV, per ragioni nazionali o di cittadinanza.

Ogni altra differenza di trattamento per ragioni atipiche, anche se arbitrarie e non riconducibili ad un concreto esercizio dei poteri di impresa, non può essere definita discriminazione in senso tecnico e resta, quindi, estranea alla relativa disciplina. Ad esempio, un licenziamento intimato al lavoratore per essersi iscritto ad un sindacato è discriminatorio, mentre un licenziamento intimato perché lo stesso lavoratore ha un aspetto trasandato, pur essendo evidentemente arbitrario e quindi ingiustificato, non è qualificabile come tale.

La discriminazione opera obiettivamente, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta (fattore di rischio) e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. In tale contesto, la legislazione antidiscriminatoria, la quale, anche all'interno dei rapporti di lavoro, mira a realizzare la parità di trattamento, eliminando l'incidenza negativa dei fattori di rischio, sancisce il divieto di porre in essere atti idonei a diversificare in senso sfavorevole il trattamento di soggetti che versano in uno stato di particolare debolezza, determinato dall'esistenza o dall'appartenenza ad uno determinato di tali fattori.

Gli atti discriminatori

Il principio di non discriminazione trova esplicito riconoscimento nelle fonti di diritto primario dell'Unione Europea. L'art. 19 del Trattato sul funzionamento dell'UE attribuisce al Consiglio europeo – previa approvazione del Parlamento - il potere di prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni. L'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE, a sua volta, vieta tassativamente ogni discriminazione. In entrambe le fonti, ci si riferisce alle discriminazioni di soggetti che siano interessati da fattori di rischio, ovvero che possiedano almeno uno di quegli elementi di differenziazione in presenza dei quali sorge, per il diritto dell'Unione, la necessità di approntare una tutela contro possibili trattamenti deteriori rispetto a quelli riservati alla generalità degli individui. Il legislatore europeo, chiamato a fornire un quadro comune di tutele sul piano antidiscriminatorio, si è concentrato soprattutto sulla predisposizione di un apparato normativo volto a tutelare la parità di trattamento in presenza di fattori di rischio quali la razza o l'origine etnica (Direttiva 2000/43/CE), in materia di occupazione e condizioni di lavoro (Direttiva 2000/78/CE), in materia di pari opportunità tra uomo e donna nel mondo del lavoro (Direttiva 2006/54/CE).

Nell'ordinamento interno, il divieto di porre in essere atti o comportamenti discriminatori, declinazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, trova una prima realizzazione con lo Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970), il quale introduce il divieto di discriminazione dei lavoratori per motivi sindacali, politici e religiosi, attraverso la generale previsione degli artt. 15 e 16. In particolare, la sanzione della nullità degli atti o patti realizzati a fini discriminatori in ragione dell'appartenenza o dell'attività sindacale, è stata estesa, attraverso successivi interventi di legislazione speciale di recepimento della normativa sovranazionale, alle discriminazioni politiche e religiose, nonché alle discriminazioni per ragioni di razza, di lingua e di sesso, per le situazioni di handicap, legate all'età, all'orientamento sessuale e alle convinzioni personali (D.Lgs. n. 215/2003 e D.Lgs. n. 216/2003). La L. n. 135/1990 ha introdotto una specifica tutela antidiscriminatoria a favore dei lavoratori infetti da HIV. Il D.Lgs. n. 286/1998 (Testo Unico in materia di immigrazione) ha disposto uno specifico divieto di discriminazioni per ragioni nazionali o di cittadinanza, ribadendo il divieto di discriminazione per ragioni di razza e religione.

In tale contesto si inserisce il D.Lgs. n. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità), il quale ha raccolto e riorganizzato la normativa antidiscriminatoria esistente in Italia, connotando del carattere della discriminatorietà anche le molestie di genere e sessuali sul luogo di lavoro (si rimanda circa le discriminazioni di genere, alla Scheda d'autore Pari opportunità).

L'art. 25 del Codice delle Pari Opportunità fornisce la definizione di discriminazione diretta e indiretta, integrandosi la prima nel caso in cui una persona sia trattata, in base al genere, meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra persona in situazione analoga; la discriminazione indiretta, invece, si realizza in presenza di quelle situazioni nelle quali una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una condizione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso rispetto a persone dell'altro (salvo che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il conseguimento della finalità stessa siano appropriati e necessari).

I singoli fattori di rischio: Ragioni sindacali e politiche

All'alba dell'introduzione dello Statuto dei Lavoratori, la discriminazione sul posto di lavoro era ricollegata all'attività politica e/o sindacale dei lavoratori, in stretta connessione. Nel secondo dopoguerra, in particolare, non furono pochi i licenziamenti a causa dell'orientamento politico, dell'appartenenza sindacale e dell'esercizio di forme di lotta per assicurare migliori condizioni di lavoro da parte dei lavoratori, in un contesto caratterizzato da una forte contrapposizione, anche di stampo ideologico, tra mondo delle imprese e mondo dei lavoratori.

Nello specifico, le discriminazioni per motivi sindacali consistono in comportamenti, posti in essere dal datore di lavoro, che pregiudicano il lavoratore in ragione della sua affiliazione sindacale o della sua partecipazione alle attività sindacali. La genericità di tale definizione permette di qualificare come discriminatori una gamma assai ampia di comportamenti, che vanno dal rifiuto di assumere fino al licenziamento, interessando qualsiasi vicenda intermedia che può caratterizzare il rapporto di lavoro, come l'inquadramento, l'adibizione a mansioni diverse o inferiori e il trasferimento. Le discriminazioni sindacali possono avvenire non solo privando il lavoratore di particolari benefici o arrecandogli un danno, ma anche attribuendo specifici vantaggi a coloro che tengano un determinato comportamento, gradito all'imprenditore, condizionando così, indebitamente, il singolo nell'esercizio della sua libertà sindacale. Sono da considerarsi discriminatori tutti i comportamenti del datore di lavoro finalizzati a subordinare l'impiego alla condizione che il lavoratore non aderisca ad un sindacato o smetta di farne parte ovvero si risolvano in un pregiudizio, perpetrato attraverso qualsiasi mezzo, a causa della sua affiliazione sindacale o della sua partecipazione alle attività sindacali al di fuori dell'orario di lavoro o, nei casi consentiti, durante l'orario di lavoro.

La sanzione della nullità degli atti discriminatori posti in essere per ragioni sindacali (v. artt. 15 e 16 L. n. 300/1970) viene ulteriormente rafforzata dalla previsione del procedimento specifico per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro previsto al successivo art. 28 L. n. 300/1970, che si applica anche con riferimento ai comportamenti plurioffensivi, parimenti lesivi dell'interesse sindacale e dell'interesse del singolo lavoratore. Tipico esempio è costituito dal trasferimento di un rappresentante sindacale interno in assenza del nulla osta dell'associazione sindacale di appartenenza, da cui derivano una limitazione alla presenza del sindacato in azienda e una contestuale violazione del diritto del lavoratore a non subire il mutamento della propria sede di lavoro.

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità - discriminazione per motivi sindacali e mobbing

La condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata a isolare o espellere il dipendente dal contesto lavorativo (cosiddetto "mobbing") si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria per motivi sindacali: richiedendosi, nel primo caso, una pluralità di atti e comportamenti (eventualmente anche leciti, in sé considerati) unificati dall'intento di intimorire psicologicamente il dipendente e funzionali alla sua emarginazione, attuandosi, invece, la discriminazione per motivi sindacali anche attraverso un unico atto o comportamento e connotandosi di illiceità di per sé, in quanto diretta a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere da un intento di emarginazione. Pertanto, la domanda con cui si deduce, quale autonomo motivo di illegittimità della condotta datoriale, il "mobbing", ha una "causa petendi" differente rispetto alla domanda diretta alla repressione di atti discriminatori per ragioni sindacali. (Cass. civ. Sez. lavoro, sent. 9.9.2008 n. 22893)

In evidenza: Giurisprudenza di merito – discriminazioni realizzate attraverso forme di dequalificazione

Costituisce violazione dell'art. 2103 c.c. l'adibizione di un vice direttore vicario a mansioni inferiori, quali quelle di conduttore o di inviato speciale, per meri motivi di scelta politica al di fuori di ogni giustificazione di natura organizzativa, con conseguente diritto del giornalista alla reintegrazione nelle mansioni e al risarcimento del danno. La medesima sostituzione, inoltre, in quanto adottata per rimuovere un giornalista non allineato con gli orientamenti politici del Consiglio di Amministrazione dell'azienda, configura violazione del divieto di discriminazione di cui all'art. 15, ultimo comma, L. n. 300/1970 con conseguente nullità del provvedimento stesso. (Pretura Roma, 19.7.1995)

Religione e convinzioni personali

Nel rapporto di lavoro subordinato, i comportamenti ascrivibili al concetto di discriminazione religiosa sono quelli che si verificano in presenza di un comportamento del datore di lavoro diretto a penalizzare il lavoratore esclusivamente in ragione delle sue opinioni religiose, in contrapposizione al diritto, spettante al soggetto/lavoratore, di non subire conseguenze pregiudizievoli di carattere materiale e/o patrimoniale in ragione della fede professata (o non professata) o delle opinioni religiose manifestate. Il legislatore nazionale ha espresso un giudizio di disvalore nei confronti della discriminazione religiosa, sia in fase preassuntiva (art. 8 L. n. 300/1970) che durante lo svolgimento del rapporto di lavoro (art. 4 L. n. 604/1966). Il nostro ordinamento vieta al datore di lavoro di assumere quali criteri di assunzione, licenziamento, di inquadramento e/o differenziazione di trattamento dei lavoratori le convinzioni in materia religiosa, a discapito della discrezionalità – sia pure limitata – di cui generalmente gode nell'esercizio dei suoi poteri. In tale contesto, la definizione di “convinzione personale” ricomprende il concetto di “religione”, ma ha un senso ancora più ampio nella misura in cui si estende alla libera espressione del pensiero della persona/lavoratore.

In evidenza: Giurisprudenza comunitaria

Il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un'impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Può invece costituire una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l'obbligo apparentemente neutro previsto dalla normativa aziendale interna comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare (Corte di Giustizia europea, 14 marzo 2017, C-157/15)

In evidenza: Giurisprudenza di merito – discriminazione in sede preassuntiva

Deve dichiararsi il carattere discriminatorio del comportamento di una società di selezione del personale consistente nel non aver ammesso una lavoratrice alla selezione per la prestazione di lavoro di hostess presso una fiera a causa della sua decisone di non togliere il velo in quanto di religione musulmana, dovendosi condannare detta società a risarcire il danno non patrimoniale patito dall'interessata da liquidarsi in via equitativa. Il hijab, infatti, costituisce un accessorio dell'abbigliamento che connota l'appartenenza alla religione musulmana e dunque il comportamento dell'azienda finisce per violare l'articolo 3 del D.Lgs. n. 261/2003, vale a dire la normativa con cui l'Italia ha recepito i principi UE che garantiscono l'eguaglianza anche fra le varie confessioni. (Corte d'Appello di Milano, Sez. Lav., sent. 20.5.2016 n. 579)

In evidenza: Dottrina – discriminazione fondata sulla negazione del pluralismo politico

Con riferimento al divieto di molestie nell'ambito lavorativo e fondate sulle convinzioni personali (direttiva 2000/78), si segnala l'ordinanza del Tribunale di Brescia del 29.11.2010, poi confermata in sede di reclamo in data 7.2.2011, la quale ha assimilato alla fattispecie vietata delle molestie in ambito lavorativo, fondate sulle convinzioni personali, l'esposizione ripetuta di simboli partitici (nel caso in questione si trattava del simbolo stilizzato del ... quale simbolo partitico della ...) all'interno di una scuola pubblica. Secondo i giudici bresciani, infatti, la libertà di insegnamento, quale diritto fondamentale avente protezione costituzionale per effetto dell'art. 33 della Costituzione, presuppone che gli insegnanti abbiano diritto, sia all'interno che all'esterno degli istituti scolastici, ad un ambiente neutrale, che non ponga coloro che non condividano una convinzione personale, anche se dominante, in posizione svantaggiata rispetto agli altri, e ancor di più allorché l'apposizione di simboli partitici in un ambiente scolastico è suscettibile di condizionare pesantemente i giovani, i quali invece vanno educati ai valori del pluralismo, con conseguente interferenza nell'attività pedagogica del corpo insegnante. (W. Citti e P. Bonett, La tutela civile contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose. Guida alla normativa e alla giurisprudenza, scheda pratica dell'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione, 2012)

Razza, cittadinanza e origine etnica

Con riferimento alla razza e all'origine etnica, non si rinviene una nozione condivisa dei suoi elementi identificativi con riferimento ad una determinata categoria di persone accomunata dal medesimo fattore di rischio. Sul piano giuridico, non è stato possibile individuare una distinzione oggettiva, né scientificamente sostenibile. Anche la direttiva 2000/43/CE non fornisce nozione alcuna, consentendo di poter includere nella relativa tutela antidiscriminatoria comportamenti che, all'epoca, non erano ancora emersi nella loro dimensione antigiuridica.

La tutela contro la discriminazione razziale è assistita da penetranti garanzie, che si aggiungono a quelle di carattere giuslavoristico. In particolare, l'art. 43, secondo comma, lettera e) del Testo Unico sull'immigrazione (D.Lgs. n. 286/1998) dispone che compie un atto di discriminazione “il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'art. 15 della legge 20.5.1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9.12.1977, n. 903 e dalla legge 11.5.1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza”. L'illegittimità dell'atto, in questi casi, è già determinata dalle leggi giuslavoristiche citate nell'articolo, di talché le conseguenze in caso di violazione della legge saranno non solo quelle previste da tale legislazione, ma anche quelle previste dall'art. 44 del T.U. richiamato, che legittima la proposizione dell'azione civile per il risarcimento del danno contro la discriminazione.

In evidenza: Giurisprudenza comunitaria – discriminazioni per ragioni di razza

Nella causa Gaygusuz c. Austria, un cittadino turco, che aveva lavorato in Austria, si era visto negare l'indennità di disoccupazione perché non possedeva la cittadinanza austriaca. La CEDU ha ritenuto che questa fosse una situazione paragonabile a quella dei cittadini austriaci, in quanto risiedeva nel paese in via permanente e aveva contribuito al sistema di sicurezza sociale con il versamento delle imposte. La CEDU ha quindi constatato che l'assenza di un accordo bilaterale in materia di sicurezza sociale tra l'Austria e la Turchia non poteva giustificare la differenza di trattamento, in quanto la situazione del ricorrente era di fatto troppo simile a quella dei cittadini austriaci. (CEDU, sent. 16.9.1996, Gaygusuz c. Austria n. 17371/90)

Handicap

La nozione di handicap – fattore di rischio menzionato espressamente nella direttiva 2000/78/CE - va intesa come un fattore di debolezza che risulta, in particolare, da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola, in misura più o meno elevata, la partecipazione della persona alla vita professionale. La sentenza della Corte di Giustizia n. 302/2011, definisce tale fattore di rischio come “il risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. Per tale motivo, il “considerando” n. 16 della direttiva citata enuncia che l'implementazione di misure che non siano dirette a salvaguardare i bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull'handicap. Va rimarcato che è esclusa l'assimilazione tra handicap e malattia, posto che, per rientrare nella nozione di handicap, la limitazione del soggetto deve essere, con ogni ragionevole probabilità, di lunga durata.

In evidenza: Giurisprudenza comunitaria – handicap e obesità

Il diritto dell'Unione Europea deve essere interpretato nel senso che esso non sancisce alcun principio generale di non discriminazione a motivo dell'obesità, in quanto tale, per quanto riguarda l'occupazione e le condizioni di lavoro. La direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che lo stato di obesità di un lavoratore costituisce un “handicap”, ai sensi di tale direttiva, qualora determini una limitazione, risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, durature la quale, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori. È compito del giudice nazionale valutare se tali condizioni ricorrano nel caso specifico. (Corte di Giustizia europea, IV sez, sent. C354/13)

Età

Con riferimento all'età, sono ritenute legittime le sole disparità di trattamento previste dalle legislazioni nazionali per ragioni di politiche dell'occupazione, alla duplice condizione che i mezzi specifici utilizzati siano appropriati e necessari, ovvero proporzionali alla finalità perseguita. Nell'ordinamento interno questi principi sono richiamati dal D.Lgs. n. 216/2003 attuativo della direttiva 2000/78/CE.

In evidenza: Giurisprudenza comunitaria

Il principio generale della non discriminazione in ragione dell'età, come espresso concretamente dalla direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che esso osta, anche in una controversia tra privati, a una normativa nazionale che priva un lavoratore subordinato del diritto di beneficiare di un'indennità di licenziamento allorché ha titolo a una pensione di vecchiaia da parte del datore di lavoro nell'ambito di un regime pensionistico al quale tale lavoratore subordinato abbia aderito prima del compimento del cinquantesimo anno di età, indipendentemente dal fatto che egli scelga di restare nel mercato del lavoro o di andare in pensione (Corte di Giustizia europea, 19 aprile 2016, C-441/14)

In evidenza: Giurisprudenza di merito – discriminazioni sul piano pensionistico per ragioni anagrafiche

È nullo in quanto discriminatorio il licenziamento intimato nei confronti di un dirigente in applicazione dell'art. 22 CCNL Dirigenti aziende industriali, a mente del quale la giustificazione del licenziamento non è richiesta nei confronti del dirigente che sia in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia o che abbia comunque superato il 65mo anno di età. Nel caso in esame, il Tribunale ha ritenuto che il lavoratore fosse stato trattato meno favorevolmente di come, nelle medesime condizioni, sarebbe stato trattato un altro dipendente di età diversa. La datrice di lavoro si era avvalsa, infatti, per licenziare il dipendente, di una norma del contratto collettivo che consente (al di là di qualsiasi valutazione sulla sua intrinseca validità) la risoluzione del rapporto di lavoro del dirigente quando questi sia in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia o abbia superato i 65 anni. La società aveva peraltro ribadito, nel corso del giudizio, che la norma in questione tutelava l'interesse collettivo a “liberare” il posto di lavoro per agevolare l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, confermando così che la ragione fondamentale del licenziamento era stata l'età avanzata del dipendente. (Tribunale Roma, Sez. lav., 14.10.2014)

Orientamento e tendenze sessuali

Con “orientamento sessuale” si intende la capacità di ogni persona di provare una profonda attrazione emotiva, affettiva e sessuale verso persone dell'altro sesso, dello stesso sesso o di più di un sesso, e di intrattenere relazioni intime con loro (così nei “Principi di Yogyakarta sull'applicazione del diritto internazionale in materia di diritti umani in relazione con l'orientamento sessuale e l'identità di genere” del marzo 2007). I casi più comuni di discriminazione dovuta all'orientamento sessuale riguardano situazioni in cui una persona è trattata in modo sfavorevole perché non rientra nei canoni ordinari della eterosessualità, ma la discriminazione a motivo di tale fattore di rischio è evidentemente vietata in tutti i casi in cui una persona subisce un trattamento pregiudizievole per effetto delle proprie tendenze nella sfera sessuale.

In evidenza: Discriminazione nei confronti di soggetti eterosessuali

Il Tribunale di Milano, Sez. lav., con sentenza del 15.12.2009, poi confermata dalla Corte d'Appello in data 29.3.2012, ha preso ferma posizione in merito alla discriminazione per ragioni di orientamento sessuale in materia di diritto di iscrizione del convivente omosessuale alla Cassa Mutua nazionale per il personale delle banche di credito cooperativo. Nel caso in questione il ricorrente, dipendente della Banca di Credito Cooperativo di Cernusco sul Naviglio, aveva chiesto di fruire dell'assistenza per esigenze sanitarie prevista dalla Cassa Mutua Nazionale per il personale della banca in favore del suo convivente, ma la sua richiesta era stata rifiutata, in quanto la banca riteneva che lo statuto della Cassa facesse espresso riferimento ad un istituto, il matrimonio, non ammesso dalla legislazione statale per le coppie dello stesso sesso. In realtà, come ha scritto il Tribunale, la norma dello statuto sopra richiamata fa riferimento alla convivenza more uxorio e tale locuzione, che sta ad esprimere un modo di vivere come conviventi, è conforme sia alla convivenza omosessuale che a quella eterosessuale. Per tali motivi il Tribunale di Milano ordinava alla Cassa Mutua Nazionale per il personale delle Banche di Credito Cooperativo l'iscrizione del convivente del ricorrente. (si veda La discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere, Corso di diritto antidiscriminatorio, Ordine degli Avvocati di Torino, 2013)

Infezione da HIV

Il licenziamento di un lavoratore sieropositivo a causa della sua condizione di salute è sicuramente illegittimo. Il lavoratore sieropositivo non può essere licenziato, infatti, neanche adducendo motivi di inabilità al lavoro. Il dipendente può, eventualmente, insorgendo la malattia, risultare temporaneamente inabile al lavoro e, quindi, rientrare nelle normali procedure di copertura assistenziale previste in materia, tra l'altro, di assenza per malattia e di conservazione del posto di lavoro. In queste situazioni, la malattia si manifesta ciclicamente, permettendo al dipendente, all'esito di un periodo di riposo forzato, la ripresa regolare dell'attività lavorativa. In tal caso, inoltre, non sussiste nessun pericolo di contagio nei normali rapporti di scambio e interrelazione sul luogo di lavoro e nei confronti del pubblico.

In evidenza: Giurisprudenza di legittimità – discriminazione per infezione da HIV

Fermo restando che, per le infezioni da HIV, sono vietate penalmente le indagini (art. 6, co. 1 e 2, L. n. 135/1990) e le discriminazioni (art. 5, co. 5, Legge cit.), devono ritenersi ammessi gli accertamenti del datore di lavoro ove siano necessari ad evitare rischi alla salute collettiva, in relazione al tipo di mansioni svolte dal dipendente.

La Corte Costituzionale, con la sentenza del 2.6.1994 n. 218, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, co. 3, della L. n. 135/1990, nella parte in cui non prevedeva accertamenti sanitari dell'assenza di sieropositività come condizione per l'espletamento di attività che comportasse rischi per la salute di terzi. Nell'occasione, la Corte ha contemperato le varie esigenze contrapposte quali, da un lato, il divieto di sottoporre una persona, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare quel tipo di affezione, nonché il divieto, per i datori di lavoro, di svolgere indagini dirette ad accertare l'esistenza di uno stato di sieropositività nei dipendenti e, dall'altro lato, l'esigenza primaria, dettata dall'art. 32 Cost., di tutela della salute come diritto fondamentale dell'individuo e interesse primario della collettività. Seguendo la stessa ratio, sarebbe certamente contrario a ragionevolezza, oltre che agli obblighi posti dall'art. 2087 c.c., inibire al datore di lavoro la possibilità di sospendere o, comunque, di allontanare il lavoratore sieropositivo dall'azienda, salva la possibilità di utilizzarne aliunde le prestazioni (ad esempio, consentendogli di proseguire l'attività lavorativa a domicilio o, comunque, all'interno di spazi aziendali protetti), senza esporre lui stesso o gli altri al pericolo di ulteriori danni alla salute. (Cass., Sez. lav., sent. 6.8.2002 n. 11798)

Riferimenti

Giurisprudenza

Per i recenti orientamenti sul tema, v. Cass. Civ. sez. lav., 17 gennaio 2024, n. 1788, Tribunale Ravenna, sez. lav. ord. 4 gennaio 2024, n. 732, con commento di T. Zappia, Tutela antidiscriminatoria del caregiver familiare e del lavoratore disabile assente per malattia: le questioni rimesse alla Corte di Giustizia UE; Tribunale Roma, 18 dicembre 2023, con commento di M. Polato, Diritto antidiscriminatorio nel rapporto di lavoro: protezione del lavoratore portatore di handicap e lavoro agile

  • Corte di Giustizia europea, 14 marzo 2017, C-157/15)
  • Corte di Giustizia europea, sent. D.I. c. Successione K.E.R. del 19 aprile 2016 (causa C-441/14)

  • Tribunale di Milano, Sez. lav., sent. 15.12.2009 (conf. Corte d'Appello, 29.3.2012)

  • Tribunale di Brescia, Sez. lav., ord. 29.11.2010 (conf. 7.2.2011)

  • Tribunale di Roma, Sez. lav., 14.10.2014

  • Corte d'Appello di Milano, Sez. lav., 27.12.2010 n. 1070

  • Corte d'Appello di Milano, Sez. lav., sent. 15.4.2014

  • Corte d'Appello di Milano, Sez. Lav. 20.5.2016 n. 579

  • Cass., Sez. lav., sent. 6.8.2002 n. 11798

  • Cass.  Sez. lav, sent. 9.9.2008 n. 2289

    Costituzionale sent. 2.6.1994 n. 218

  • Corte d'Appello del Regno Unito, 12.2.2010 (Islington London Borough Council c. Ladele, EWCA Civ 1357)

  • Corte di Giustizia europea, IV sez., causa C-354/13

  • Corte di Giustizia europea, sent. Mangold del 22.5.2005 (causa C-144/04)

  • Corte di Giustizia europea, sent. Kucukdeveci del 19.1.2010 (causa C-555/07)

Normativi

  • Trattato FUE

  • Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE

  • Direttiva 2000/43/CE

  • Direttiva 2000/78/CE

  • Direttiva 2006/54/CE

  • L. n. 300/1970

  • L. n. 135/1990

  • D.Lgs. n. 286/1998

  • D.Lgs. n. 216/2003

  • D.Lgs. n. 198/2006

Dottrina

  • W. Citti e P. Bonett, La tutela civile contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose. Guida alla normativa e alla giurisprudenza, scheda pratica a cura di, www.asgi.it, 2012
  • G. Giugni, Diritto Sindacale, Bari, 2010

  • M. Mantello, La tutela civile contro le discriminazioni, in Riv. Dir. Civ., 2004

  • V. Pacillo, Il divieto di discriminazione religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, in www.olir.it, 2004

  • G. Scarselli, Appunti sulla discriminazione razziale e la sua tutela giurisdizionale, in Riv. Dir. Civ., 2001

  • R. Staiano, Tutela degli atti discriminatori (

    D.Lgs. 216/2003

    ) e

    L. 101/2008

    , in La riforma del lavoro ed i nuovi contratti, Milano, 2008

  • G. Teat, Breve manuale operativo in materia di licenziamenti, Vicalvi, 2016

  • A. Vallebona, Breviario di diritto del lavoro, Torino, 2015

  • G. Zaccardi, Manuale di diritto del lavoro, sindacale e della previdenza sociale, Roma, 2015

Sommario