24 Gennaio 2024

Il datore di lavoro, ponendo in essere dei comportamenti che ledono l'esercizio di diritti connessi alla libertà e all'attività sindacale o ostacolano il libero esercizio del diritto di sciopero, potrà essere assoggettato alla procedura ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300.

Inquadramento

Il datore di lavoro, ponendo in essere dei comportamenti che ledono l'esercizio di diritti connessi alla libertà e all'attività sindacale o ostacolano il libero esercizio del diritto di sciopero, potrà essere assoggettato alla procedura ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300. Infatti, a tutela di dette posizioni giuridiche il legislatore ha introdotto uno strumento processuale volto a garantire una tutela giurisdizionale effettiva (inibitoria e ripristinatoria) contro il datore di lavoro che, con propria decisione unilaterale, ponga in essere condotte atte a impedire o ostacolare l'esercizio dei diritti costituzionalmente tutelati.

Tale strumento è quello di cui all'art. 28, comma 1, della L. 20 maggio 1970, n. 300 il quale stabilisce che “qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.

Le particolarità di questo tipo di azione sono riassumibili: a) nell'uso di una particolare tecnica normativa per l'identificazione della fattispecie; b) nell'attribuzione dell'azione a un soggetto collettivo, il sindacato; c) nella specialità delle regole processuali che prevedono uno speciale e sommario procedimento dinanzi al giudice che decide con decreto; d) nell'adozione di un particolare strumento sanzionatorio, la sanzione penale, per il datore di lavoro che non ottemperi al decreto con cui il pretore abbia disposto la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.

Nozione

L'art. 28, comma 1, L. 20 maggio 1970, n. 300 definisce la condotta antisindacale come quel comportamento del datore di lavoro volto “ad impedire o limitare l'esercizio della libertà sindacale nonché del diritto di sciopero.

La disposizione è formulata dal legislatore in termini di “norma in bianco”, cioè quale norma che non individua tassativamente le condotte datoriali ricomprese nella fattispecie le quali, dunque, devono essere valutate dall'interprete ai fini della loro sussunzione nella definizione offerta dal legislatore. In ragione della tecnica legislativa utilizzata, dottrina e giurisprudenza hanno escluso una nozione “analitica” di condotta antisindacale accogliendo invece una nozione “teleologica” (v. Treu infra Bibliografia essenziale), al fine di ricomprendervi ogni e qualsiasi ostacolo al libero svolgimento della dialettica sindacale (la volontà del legislatore di evitare una qualsiasi predeterminazione delle condotte sanzionabili emerge anche dalla relazione all'art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 ad opera di Giacomo Brodolini a cura del Segretario Generale del Senato, Roma, 1974, 59 secondo la quale “predeterminare le caratteristiche strutturali frustrerebbe l'obiettivo perseguito dal legislatore, che è di perseguire tutte quelle pratiche limitative, tanto più insidiose quanto più difficilmente definibili, che possono essere attuate dal datore di lavoro per ledere i beni tutelati”).

Ciò sta a significare che sono qualificati come antisindacali tutti quei comportamenti finalizzati più o meno marcatamente a ledere i diritti tutelati dalla norma, indipendentemente da una loro illegittimità intrinseca. Tanto ciò è vero che possono essere ricompresi nella fattispecie non solo quei comportamenti posti in violazione di norme imperative, rivolti più o meno intenzionalmente a ostacolare o limitare l'attività sindacale, ma anche quei comportamenti del datore di lavoro che, ancorché astrattamente legittimi, siano espressamente finalizzati ad impedire l'esercizio della libertà sindacale. Del resto sarebbe stato impossibile codificare tutte la azioni potenzialmente idonee a configurare un comportamento antisindacale.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sentenza 8 maggio 1992, n. 5454 l'art. 28 cit. nell'attribuire al giudice civile il potere di ordinare la cessazione nonché la rimozione degli effetti del comportamento del datore di lavoro diretto ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale, pone una fattispecie tipizzata solo dal punto di vista dei beni protetti (appunto, la libertà e l'attività sindacale) ma non anche dal punto di vista dei comportamenti.

Da qui sorge la necessità di qualificare di volta in volta la condotta del datore di lavoro che si assume antisindacale per cercare di comprendere se le finalità di detto comportamento siano idonee a ledere i beni tutelati dalla previsione al fine di attivare la tutela giurisdizionale ad hoc predisposta dal legislatore. Sarà dunque il sindacato che promuove il ricorso a dover identificare la condotta che si asserisce essere antisindacale e a dover dimostrare che tale comportamento sia finalizzato proprio a ledere il libero esercizio dei diritti sindacali. Si noti, in ogni caso, che la locuzione “comportamento” utilizzata dalla norma è volta a comprendere sia le attività materiali poste in essere dal datore di lavoro sia i comportamenti omissivi quali, ad esempio, il rifiuto di concedere assemblee o di riconoscere diritti a lavoratori che si contraddistinguano per la propria attività sindacale.

In alcune circostanze è il legislatore a individuare espressamente fattispecie tipiche di condotta antisindacale, quali:

  • l'omessa informazione e consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali nelle procedure di licenziamento collettivo (art. 24, L. 23 luglio 1991, n. 223);
  • la violazione delle clausole del CCNL concernenti i diritti e le attività del sindacato che disciplinano il rapporto di lavoro nel pubblico impiego (art. 47, comma 3, L. 29 dicembre 1990, n. 428).

In ragione della genericità e indeterminatezza della nozione di condotta antisindacale la giurisprudenza ha elaborato una casistica di comportamenti del datore di lavoro, anche omissivi, rientranti nella fattispecie di cui all'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300. Di seguito si propongono alcune fattispecie che, per giurisprudenza costante, sono stati ritenute idonee a configurare ipotesi di condotte antisindacali.

CASISTICA

Cass., 7 marzo 2012 n. 3546

“il rifiuto datoriale di eseguire i pagamenti al sindacato delle quote di retribuzione cedute dai lavoratori costituisce inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, si configura anche quale condotta antisindacale ex art. 28 St. lav., ledendo il diritto del sindacato di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività”

Cass., 19 luglio 2011 n. 15782

Il comportamento antisindacale del datore di lavoro, in relazione ad uno sciopero indetto dai lavoratori, è configurabile allorché il contingente affidamento delle mansioni svolte dai lavoratori in sciopero al personale rimasto in servizio, nell'intento di limitarne le conseguenze dannose, avvenga in violazione di una norma di legge o del contratto collettivo

Cass., 11 luglio 2008 n. 19275

“il rifiuto del datore di lavoro di effettuare i versamenti dei contributi sindacali trattenuti sulla retribuzione, qualora sia ingiustificato, configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività”

Cass., 20 marzo 2008 n. 7604

“integra gli estremi di una condotta antisindacale qualsiasi provvedimento adottato dall'amministrazione datrice di lavoro in ordine alla composizione della rappresentanza unitaria; pertanto, è lesivo delle prerogative sindacali l'intervento con cui il direttore amministrativo di un'Università provvede alla sostituzione dei componenti di una r.s.u. a causa della decadenza dalla carica verificatasi per incompatibilità con l'associazione d'appartenenza, anche se la sostituzione dei membri è stata fatta in buona fede, per far fronte alla necessità di partecipare alla contrattazione decentrata”

Cass., 30 ottobre 1995, n. 11352

“costituisce condotta antisindacale il divieto opposto dal datore di lavoro ai dipendenti di tenere assemblee non retribuite all'interno dei locali dell'azienda nel corso di uno sciopero”

Cass., 5 luglio 1997, n. 6080

“è antisindacale il comportamento del datore che minacci la trattenuta della retribuzione di un lavoratore nel caso di partecipazione ad un assemblea

Non tutti i comportamenti del datore di lavoro che siano antagonistici nei confronti del sindacato possono essere qualificati come antisindacali ai sensi dell'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300. Ciò perché l'ordinamento giuridico ritiene legittimo e anzi, in certi casi, presuppone il conflitto di interessi tra il datore di lavoro e l'organizzazione sindacale. Sul punto, come rilevato dalla dottrina (v. Giugni infra Bibliografia essenziale), non tutti gli atteggiamenti conflittuali del datore di lavoro nei confronti dell'organizzazione sindacale sono “antisindacali da un punto di vista giuridico, cioè sono antigiuridici; se così fosse, non avremmo più lotta sindacale, non avremmo più neanche contrattazione”.

In questo senso, volendo procedere sistematicamente, il datore di lavoro non commetterà un comportamento antisindacale nelle ipotesi in cui la propria condotta:

  • costituisca una reazione a comportamenti illeciti dei lavoratori;
  • vada a ledere diritti riferibili ai singoli lavoratori rispetto ai quali non si pone un concreto interesse sindacale tutelato dall'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300;
  • rappresenti esercizio di diritti espressamente riconosciuti dalla legge o dal CCNL;
  • non ostacoli diritti espressamente riconosciuti al sindacato dalla legge e/o dal CCNL (si pensi al rifiuto di trattare con una organizzazione sindacale).

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sentenza 1 maggio 1999, n. 13383, la condotta del datore di lavoro non può qualificarsi come antisindacale se dovuta all'esercizio del non contestabile diritto del datore di lavoro al quale non si contrapponga un opposto diritto dei lavoratori o discendente dall'adempimento di un dovere.

Attualità del comportamento e/o degli effetti

Questione controversa è quella relativa al rapporto temporale che deve intercorrere tra il momento il cui è stato posto in essere il comportamento che si assume essere antisindacale e quello in cui viene proposta l'azione di cui all'art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300. In particolare, da più parti ci si è chiesto se fosse necessaria la contestualità tra i due momenti (condotta e proposizione dell'azione).

La giurisprudenza, in un primo periodo, ha seguito un atteggiamento più rigoristico considerando l'attualità della condotta antisindacale e il perdurare dei suoi effetti quali condizioni necessarie per l'esperibilità dell'azione ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 e, dunque, escludendo l'ammissibilità dell'azione in caso di comportamenti dei tutto esauriti e privi di effetti da rimuovere.

Nel corso degli anni, tuttavia, si è diffuso un orientamento meno rigoroso secondo il quale l'attualità del comportamento antisindacale, quale condizione della domanda ex art. 28 legge n. 300 del 1970, non è esclusa dall'esaurirsi del singolo comportamento, atteso che la lesione dell'attività sindacale, che segna l'interesse del sindacato, permane qualora il comportamento denunciato sia suscettibile di produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell'attività sindacale.

CONDOTTA ANTISINDACALE: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Cass., SS.UU, 13 giugno 1977, n. 2443

Il procedimento disciplinato per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro, tende al conseguimento di pronunce costitutive, idonee a far cessare il comportamento illecito del datore di lavoro, ed a rimuoverne le conseguenze pregiudizievoli. Pertanto, l'esperibilità di detto procedimento, pur non essendo soggetta a termini di decadenza, decorrenti dall'inizio del comportamento antisindacale, postula che il comportamento medesimo sia ancora in atto, o, quantomeno, che siano ancora in atto i suoi effetti lesivi della libertà ed attività del sindacato.

Cass., 5 febbraio 2003, n. 1684

In tema di repressione della condotta antisindacale, ex art. 28 L. n. 300 del 1970, il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può costituire preclusione dell'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale.

In ragione di quest'ultimo orientamento giurisprudenziale, dunque, è possibile rinvenire alcune pronunce che assumendo una prospettiva “dilatata” (v. Lunardon infra Bibliografia essenziale) del requisito dell'attualità della condotta e degli effetti, a fronte di comportamenti datoriali già esauriti, contengano l'ordine diretto al datore di lavoro da astenersi per il futuro dalla reiterazione degli stessi comportamenti.

Nella sostanza, sulla base di detta interpretazione, appare possibile ottenere una condanna cd. “per il futuro” (v. Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu infra Bibliografia essenziale) in considerazione del fatto che il comportamento ritenuto antisindacale possa rivelarsi non episodico ma destinato a ripetersi nel tempo. L'effetto di una siffatta pronuncia sarebbe quello di inibire al datore di lavoro la possibilità di tenere in futuro dei comportamenti analoghi a quello che ha dato origine al ricorso ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300.

Si badi bene, tuttavia, che in tali ipotesi non si tratta di investire il giudice sulla cognizione di comportamenti futuri del datore di lavoro al fine di ottenere un titolo giudiziale di condanna ancor prima che l'adempimento si sia verificato ma, bensì, di ottenere un provvedimento giudiziale che, in ragione di una condotta antisindacale già verificatasi, sia idoneo a prevenire ulteriori comportamenti dello stesso tipo.

Rilevanza dell'elemento soggettivo

Altra questione particolarmente dibattuta in dottrina e giurisprudenza è quella relativa alla necessità o meno dell'intento lesivo da parte del datore di lavoro per ritenere antisindacale una condotta ai sensi dell'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300. Ci si è chiesto, dunque, se ai fini della qualificazione di una condotta come antisindacale sia necessario accertare la presenza dell'elemento psicologico da parte del datore di lavoro.

Secondo un primo orientamento (Cass., 30 luglio 1993, n. 8518 e Cass., 19 luglio 1995, n. 7833), cd. “teoria volontaristica”, la condotta del datore di lavoro poteva ritenersi antisindacale allorquando, oltre ad essere causalmente idonea a ledere l'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300, fosse stata intenzionalmente volta a ostacolare i diritti ivi tutelati.

A fronte di tale orientamento se ne è affermato un altro (Cass., 22 luglio 1992, n. 815 e Cass., 5 dicembre 1991, n. 13085), c.d. “teoria oggettiva” secondo la quale la condotta antisindacale deve essere valutata esclusivamente sulla base del cd. “requisito oggettivo” con la conseguenza che, una volta accertata la lesione del diritto tutelato dalla disposizione non sarà necessario alcun accertamento sulla reale intenzione del datore di lavoro. Sulla base di tale orientamento, per la qualificazione della condotta come antisindacale, rileva esclusivamente l'oggettiva idoneità del comportamento a determinare gli effetti che l'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 intende evitare.

Nel tempo si è poi affermata una terza linea interpretativa (Cass., 5 settembre 1995, n. 9501) che ha proposto una soluzione di compromesso tra le due precedenti distinguendo quelle ipotesi in cui la condotta antisindacale si ponga in aperto contrasto con norme imperative di legge e quelle in cui il comportamento del datore di lavoro sia astrattamente lecito ma presenti dei caratteri che consentano di ricondurlo alla nozione di abuso del diritto. Solo in tale ultime ipotesi si renderebbe necessaria una indagine sull'elemento soggettivo del datore di lavoro.

Su tale incertezza interpretativa sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., SS. UU., 12 giugno 1997, n. 5295) le quali hanno stabilito che per integrare gli estremi della condotta antisindacale è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, in quanto tale intento lesivo non può considerarsi necessario, atteso che un errore di valutazione del datore di lavoro che non si sia reso conto della portata causale della sua condotta non fa venir meno l'esigenza di una tutela della libertà sindacale e dell'inibizione dell'attività oggettivamente lesiva di tale libertà; né può considerarsi sufficiente poiché l'intento del datore di lavoro non può far considerare antisindacale una attività che non appaia obiettivamente diretta a limitare la libertà sindacale.

Questo orientamento sembra quello attualmente applicato dalla giurisprudenza nell'analisi di casi simili con la conseguenza che, allo stato, ai fini della configurazione della condotta antisindacale sembra superflua ogni indagine relativa all'elemento soggettivo del datore di lavoro.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sentenza 17 giugno 2014 n. 13726, il comportamento che leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali integra gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, senza che sia necessario - né, comunque, sufficiente - uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro poiché l'esigenza di una tutela della libertà sindacale può sorgere anche in relazione a un'errata valutazione del datore di lavoro circa la portata della sua condotta, così come l'intento lesivo del datore di lavoro non può di per sé far considerare antisindacale una condotta che non abbia rilievo obbiettivamente tale da limitare la libertà sindacale.

Plurioffensività della condotta

La condotta antisindacale del datore di lavoro può anche travalicare i confini dei rapporti con le organizzazioni sindacali e andarsi ad intrecciare con i diritti individuali dei prestatori di lavoro. Infatti, accanto alle ipotesi nelle quali un atto “formalmente” legittimo del datore di lavoro costituisca comportamento antisindacale e un inadempimento di diritti del lavoratore non configuri condotta antisindacale possono verificarsi delle ipotesi in cui l'atto sia qualificabile come condotta sindacale e, al contempo, come inadempimento del contratto individuale di lavoro. In questi casi il comportamento del datore di lavoro può rivelarsi “plurioffensivo”, nel senso che colpisce contemporaneamente i diritti individuali del prestatore di lavoro e gli interessi collettivi del sindacato. I primi vengono lesi in via immediata e diretta, il secondo in via riflessa.

La plurioffensività comporta la possibilità per il singolo lavoratore di agire in giudizio per la sua tutela individuale e, nel contempo, la facoltà dell'organizzazione sindacale di proporre ricorso ex art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 a tutela del proprio interesse collettivo. Il primo potrà avvalersi degli strumenti di tutela ordinaria mentre il secondo della speciale tutela offerta dal procedimento di repressione della condotta antisindacale. L'art. 28 della L. 20 maggio 1970, n. 300, dunque, introduce una tutela non già sostitutiva ma, bensì, suppletiva rispetto a quella riconosciuta in via ordinaria al lavoratore.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sentenza 6 dicembre 2003 n. 18690, atteso che in tema di comportamento antisindacale possono configurarsi sia comportamenti lesivi delle sole situazioni soggettive delle organizzazioni sindacali, sia comportamenti "plurioffensivi", cioè lesivi delle situazioni giuridiche tanto del sindacato che dei lavoratori, come nel caso in cui il comportamento lesivo delle prerogative del sindacato sia consistito nell'attuazione di assetti negoziali dei rapporti di lavoro, la pronuncia emanata ai sensi dell'art. 28 Statuto dei lavoratori può interferire anche sulla regolazione dei contratti di lavoro.

Tra i comportamenti che, a titolo esemplificativo, sono stati considerati lesivi sia di interessi individuali protetti da norme di legge sia dell'interesse collettivo si possono annoverare:

  • il licenziamento del lavoratore per motivi antisindacali, vietato dagli artt. 15 e 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300 (Cass., 12 maggio 2005, n. 9950);
  • il trasferimento del lavoratore per motivi antisindacali o in violazione di un accordo sindacale sul mantenimento dei livelli occupazionali in azienda (Cass., 9 marzo 2004, n. 4771);
  • la concessione di trattamenti economici di maggior favore ai sensi dell'art. 16 . 20 maggio 1970, n. 300 per motivi di discriminazione sindacale (Cass., 11 marzo 2005, n. 5343);
  • il licenziamento collettivo effettuato per impedire o limitare l'esercizio dell'attività sindacale o del diritto di sciopero o effettuato senza le prescritte procedure sindacali.

Dunque nel caso di azione ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 l'organizzazione sindacale agisce in via autonoma e a tutela del proprio interesse collettivo e non a rappresentanza dei lavoratori eventualmente colpiti dalla condotta antisindacale. Ne consegue che l'azione esercitabile dalle organizzazioni sindacali è distinta e autonoma rispetto a quella che i lavoratori possono esercitare a tutela dei diritti singolarmente colpiti dai comportamenti dei datore di lavoro. In sostanza, come rilevato dalla giurisprudenza (Cass., 9 ottobre 2000, n. 13456), “l'esperimento di una di queste azioni non può incidere sulle vicende e sulle sorti dell'altra” essendo le stesse distinte per legittimazione attiva, petitum e causa petendi.

Tale impostazione, del resto, è stata confermata dalla Corte Costituzionale la quale, con ordinanza del 21 luglio 1988, n. 860, emessa con riferimento alla idoneità dell'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 a determinare un contrasto tra giudicati nei casi in cui la pronuncia resa nei confronti del sindacato e quella resa nei confronti del prestatore di lavoro fossero di segno diverso, ha escluso che le medesime potessero essere anche potenzialmente idonee a determinare un contrasto di giudicati, in ragione della diversa struttura delle due tipologie di azioni.

Procedura per la repressione della condotta antisindacale

La procedura per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 è impostata secondo due fasi ben delineate, una a cognizione sommaria ed una a cognizione piena.

La fase sommaria prende le mosse dalla presentazione del ricorso. Il ricorso deve essere proposto dall'organismo locale dell'organizzazione sindacale nazionale al giudice del luogo dove si è verificato il comportamento denunciato. Dunque, in tale tipologia di giudizio non assumono rilievo i generali principi di attribuzione della competenza per territorio relativi alle controversie in materia di lavoro. Ciò perché il procedimento è azionato a tutela dell'interesse del sindacato e non del lavoratore, non la conseguenza che non sarebbe stato opportuno applicare le medesime regole di competenza stabilite per quest'ultimo. Inoltre, l'attribuzione della competenza al giudice del luogo dove si è verificata la condotta oggetto di impugnazione appare del tutto coerente rispetto alla eventuale sanzione applicabile che, concretizzandosi nella inibizione del comportamento e nella rimozione dei suoi effetti, appare strettamente correlata con il luogo dove il comportamento si è verificato.

A seguito della proposizione del ricorso il giudice, entro due giorni, convoca le parti presso di se, eventualmente assume sommarie informazioni ed emette decreto immediatamente esecutivo.

Tuttavia, il termine di due giorni stabilito dall'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 nella pratica è difficilmente rispettato sia per i tempi tecnici di notifica sia per dare la possibilità al datore di lavoro di rivolgersi ad un legale e di predisporre una difesa scritta.

Si è detto che si tratta di una fase a cognizione sommaria. Ciò perché l'eventuale istruttoria non viene svolta mediante l'espletamento dei mezzi di prova ordinari ma, bensì, esclusivamente mediante l'assunzione di sommarie informazioni. Tuttavia il procedimento ex art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 presenta delle sostanziali differenze rispetto ai procedimenti cautelari (tipici procedimenti a cognizione sommaria). In particolare, mentre nel procedimento per la repressione della condotta antisindacale il giudice non può decidere con decreto emesso inaudita altera parte e l'organizzazione sindacale ricorrente non è tenuta a provare la presenza di un periculum in mora, nei procedimenti sommari il ricorrente oltre alla presenza del fumus boni iuris deve dimostrare anche la presenza del periculum in mora e che, in alcune limitate ipotesi, possono essere concessi anche inaudita altera parte.

Terminata la fase sommaria il giudice decide con decreto immediatamente esecutivo. Il soccombente ha quindici giorni di tempo per proporre opposizione al suddetto decreto; il termine decorre dalla comunicazione del decreto da parte della cancelleria o dalla sua notifica ad istanza di parte. In assenza di opposizione il decreto acquista efficacia di cosa giudicata.

L'opposizione deve essere proposta al medesimo ufficio giudiziario che ha deciso la fase a cognizione sommaria. Il giudizio in questa fase sarà a cognizione piena e seguirà le regole di cui agli artt. 413 e ss. c.p.c. relative al rito speciale del lavoro.

Legittimazione attiva

La nozione di organismo locale

La legittimazione attiva nel procedimento ex art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 spetta agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali”. La norma, dunque, individua quali soggetti legittimati a proporre l'azione ex art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 gli “organismi locali” delle organizzazioni sindacali intendendosi per tali le strutture periferiche dei sindacati nazionali, per l'individuazione delle quali occorre rifarsi agli statuti delle associazioni stesse.

La titolarità della legittimazione attiva ai sensi dell'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300, esclusivamente in capo alle organizzazioni locali di associazioni aventi rilevanza nazionale è stata anche confermata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza 21 dicembre 2005, n. 28269.

Detta giurisprudenza chiarisce come per organismi locali delle associazioni sindacali nazionali si debbano intendere le articolazioni più periferiche delle strutture sindacali nazionali, e cioè di norma dai sindacati provinciali di categoria dotati di una soggettività distinta, in quanto autonomi titolari di interessi collettivi.

In evidenza: (nello stesso senso) Cassazione

Per la Cassazione, sentenza 6 marzo 1987 n. 2392, in tema di procedura repressiva della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori la legittimazione ad agire è riconosciuta (…) soltanto agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, dovendo intendersi per tali gli organismi nella cui competenza territoriale rientri il luogo in cui si assume che sia stata posta in essere dal datore di lavoro la condotta antisindacale, senza che a questi ultimi possono sostituirsi i diversi organismi di livello intermedio tra essi e quello nazionale.

Orbene, la dizione “organismi locali” cui fa riferimento l'art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 porta ad escludere da un lato la legittimazione attiva dell'organismo nazionale e dall'altro la legittimazione attiva anche degli organismi sindacali cd. intermedi, ad esempio regionali.

Con riferimento alla legittimazione attiva dell'organismo nazionale, infatti, la giurisprudenza (Pretura Roma, 9 gennaio 1979) ha già avuto modo di rilevare come l'art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 “attribuisce la legittimazione esclusiva ad avvalersi del particolare procedimento per la repressione della condotta antisindacale agli organismi locali delle associazioni nazionali, con ciò volendo escludere (…) le associazioni sindacali nazionali in quanto tali, allo scopo di privilegiare quegli organismi che, per la propria collocazione, assicurano la migliore ponderazione della realtà locale nel quadro degli interessi più generali del sindacato”. È pertanto da ritenersi improponibile, per carenza di legittimazione, il ricorso proposto dal segretario nazionale dell'organizzazione sindacale, non rappresentando egli l'articolazione più periferica del sindacato nel senso richiesto dalla legge.

Con riferimento agli organismi cd. intermedi vale il medesimo ragionamento. Infatti, se dallo statuto dell'associazione avente “dimensione nazionale” (nel senso che si spiegherà di seguito) è possibile dedurre che il sindacato è organizzato su base provinciale, l'unico organismo legittimato a proporre l'azione per la repressione della condotta antisindacale è proprio l'organismo provinciale e non già, ad esempio, quello regionale. Ciò perché, come rilevato dalla giurisprudenza, la legittimazione esclusiva degli organismi periferici serve a mantenere "l'azione dei maggiori sindacati aderente alle concrete esigenze delle situazioni locali" (Cass., 8 agosto 1997, n. 7368).

Inoltre, nessuna legittimazione attiva può essere riconosciuta agli organismi (locali o nazionali) delle confederazioni sindacali, perché le stesse, oltre a non essere incardinate nel sindacato nazionale, difettano dell'interesse ad agire non rientrando nei loro compiti istituzionali la tutela di una specifica categoria. Lo stesso è a dirsi in caso di organizzazione sindacale che sia rappresentativa di una categoria di lavoratori diversa da quella per la quale si agisce. Infatti, la legittimazione attiva ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 presuppone che vi sia una corrispondenza immediata tra la categoria, o le categorie, per le quali l'associazione sindacale ha assunto una valenza nazionale e la categoria di appartenenza del datore di lavoro del quale si assume l'antisindacalità della condotta.

Dalla nozione di organismo locale restano escluse le rappresentanze sindacali aziendali costituite ad iniziativa dei lavoratori nell'ambito delle organizzazioni sindacali di cui all'art. 19, L. 20 maggio 1970, n. 300 come da intendersi alla luce della nota pronuncia della Corte Costituzionale 23 luglio 2013 n. 231 e le rappresentanze sindacali unitarie le quali possono essere istituite in luogo della rappresentanze sindacali aziendali. La ratio dell'esclusione sta nella particolare natura di dette rappresentanze le quali, per l'essere inserite all'interno dei meccanismi aziendali, non possederebbero il giusto distacco per valutare la condotta datoriale ai fini dell'attivazione della tutela giurisdizionale ex art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300.

Sulla base di un indirizzo interpretativo oramai costante (Cass., 8 agosto 1997, n. 7368 e, nello stesso senso, Cass., 6 marzo 1987 n. 2392, Cass. 29 marzo 1979 n. 1826, e Cass., 17 marzo 1995 n. 310), inoltre, l'interpretazione della lettera della disposizione in esame da un lato porta a escludere le legittimazione a proporre ricorso ex art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 a entità che, seppure qualificabili come sindacali per gli scopi perseguiti e per gli interessi tutelati, non si presentano come organismi locali, stabili e permanenti, dei sindacati nazionali di categoria, quali ad esempio: commissioni interne, comitati unitari di base, consigli di fabbrica.

La dimensione nazionale dell'organizzazione

Come accennato, titolari della legittimazione a agire sono gli organismi locali delle “associazioni sindacali nazionali”. Mediante tale specificazione il legislatore detta un criterio di selezione basato sul necessario carattere nazionale delle organizzazioni, escludendo la legittimazione sia dei singoli lavoratori sia di forme di autotutela collettiva non organizzate su base nazionale.

Ai fini della valutazione della sussistenza del requisito della nazionalità, non assumono rilevanza circostanze meramente soggettive, cioè fondate su elementi formali e autoreferenziali che possono essere tratte, ad esempio, dagli statuti dei sindacati agenti, soprattutto ove queste siano sconfessati dalla realtà dei fatti.

Infatti, tale impostazione, precedentemente seguita dalla giurisprudenza è stata fortemente criticata e, infine, accantonata (Cass. 4 marzo 2010 n. 5209), perché non si fonda sulla valutazione obiettiva della realtà, ma su una sorta di giudizio prognostico, fornendo ai sindacati che se ne avvantaggiano una patente di presunta rilevanza nazionale desumibile dalla carta degli statuti e non guadagnata sul campo, che garantisce loro maggiore forza nelle relazioni sindacali, fino a favorirne pro futuro l'effettiva diffusione nazionale.

In questo senso, la Corte di Cassazione, con sentenza 17 febbraio 2012, n. 2314 ha avuto modo di insegnare che il carattere nazionale non può desumersi da dati meramente formali quali la definizione nello statuto di una struttura articolata su base nazionale ma è necessaria anche una effettiva attività diffusa a tale livello.

La giurisprudenza sembra dunque ora attribuire maggiore importanza a dati di tipo sostanziale. Tali dati possono sostanziarsi nel numero di deleghe sindacali rilasciate, nel numero di iscritti, nella descrizione delle azioni di lotta svolte in favore dei lavoratori appartenenti ad un dato settore merceologico, nella partecipazione verbalizzata ad incontri sindacali negoziali o di consultazione o di informazione e nella stipulazione di contratti collettivi.

Al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell'organizzazione sindacale è, dunque, necessaria una indagine sulla concreta diffusione del sindacato sul territorio nazionale e sul tipo di attività svolta al fine di comprendere se tale organizzazione svolga una reale ed effettiva attività di rappresentanza degli interessi dei lavoratori almeno su gran parte del territorio nazionale.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sentenza 9 febbraio 2015 n. 2375, in tema di repressione della condotta antisindacale, la legittimazione a promuovere l'azione prevista dall'art. 28 Statuto dei lavoratori va riconosciuta agli organismi locali delle "associazioni sindacali nazionali", per la cui identificazione è necessario e sufficiente lo svolgimento di un'effettiva azione sindacale non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale, senza che sia indispensabile che l'associazione faccia parte di una confederazione o sia maggiormente rappresentativa.

In aggiunta si consideri che nell'attuale giurisprudenza l'indice relativo alla stipula di contratti collettivi di livello nazionale è considerato indice particolarmente rilevante, se non essenziale, della sussistenza del requisito della nazionalità.

In evidenza: Cassazione

Per la Cassazione, sentenza 9 giugno 2014, n. 12885, ai fini della legittimazione a promuovere l'azione prevista dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, per "associazioni sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali che rimane, comunque, un indice tipico - ma non l'unico - rilevante ai fini della individuazione del requisito della "nazionalità".

Legittimazione passiva

Legittimato passivo del ricorso ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 è il datore di lavoro. Infatti, la disposizione stabilisce che i comportamenti volti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà o di attività sindacale devono essere attuati dal datore di lavoro il quale, pertanto, appare essere l'unico soggetto legittimato dal punto di vista passivo.

La disposizione si applica tutti i datori di lavoro non assumendo alcuna rilevanza l'elemento dimensionale dell'impresa né quello relativo alla natura imprenditoriale o meno dell'attività svolta. Tuttavia, ai fini dell'applicazione della norma non è necessario che le condotte antisindacali siano concretamente poste in essere dal datore di lavoro potendo quest'ultimo essere chiamato a rispondere anche per comportamenti posti in essere da dirigenti o di coloro che, nell'organizzazione aziendale, siano delegati ad esercitare il potere del datore di lavoro o, comunque, svolgano attività direttamente riferibili al datore di lavoro.

Devono essere invece ritenute carenti di legittimazione passiva le associazioni dei prestatori di lavoro le quali possono tuttavia essere chiamate in giudizio a titolo di concorso con il datore di lavoro. Nemmeno può riconoscersi legittimazione passiva a gruppi di lavoratori o a organizzazioni sindacali diverse da quella che promuove il ricorso.

Considerazioni a parte possono essere svolte con riferimento ai committenti nel lavoro autonomo e nelle collaborazioni coordinate a progetto nonché alle cooperative di lavoro. Nella prima ipotesi ci troviamo di fronte a dei soggetti che non possono essere qualificati alla stregua di veri e propri datori di lavoro e pertanto non sono dotati della legittimazione passiva a per essere convenuti nel giudizio ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300.

Con riferimento invece alle cooperative di lavoro, prima della legge di riforma del 2001 si era diffuso un orientamento giurisprudenziale che riteneva inammissibile l'azione per la repressione della condotta antisindacale nei confronti delle cooperative di produzione e lavoro sul presupposto che sulla medesima prestazione lavorativa non potessero innestarsi sia un rapporto che associativo che un rapporto di lavoro. A seguito dell'entrata in vigore della L. 3 aprile 2001, n. 142, la quale ha sancito la compatibilità tra i predetti rapporti, le cooperative di lavoro sono state ritenute legittimate passive rispetto all'azione ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 nella misura in cui intrattengano con i proprio soci anche un rapporto di lavoro subordinato.

Rilevanza del decreto del giudice e sanzione penale

L'ordine del giudice, sia esso impartito con decreto immediatamente esecutivo emanato all'esito della fase sommaria o con sentenza emessa all'esito della fase di opposizione, è espressione da un lato di una tutela inibitoria volta alla cessazione del comportamento ritenuto antisindacale e da altro lato di una tutela di tipo ripristinatorio diretta alla rimozione degli effetti del comportamento lesivo.

La tutela inibitoria, a seconda dell'atteggiarsi della condotta antisindacale può essere di due tipi. Quando il comportamento antisindacale consiste in una omissione l'inibitoria avrà ad oggetto la sua cessazione e, dunque, l'ordine del giudice concernerà un fare. Nel caso, invece, la condotta antisindacale consista in un comportamento attivo l'inibitoria si risolverà in un ordine di non fare.

Con riferimento alla tutela ripristinatoria, la finalità ultima deve essere quella di porre in essere ogni attività necessaria al fine di consentire che sia ripristinata la situazione antecedente al verificarsi del comportamento del datore di lavoro.

In caso in cui il datore di lavoro non si conformi all'ordine inibitorio e ripristinatorio del giudice è prevista l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 650 c.p. La ratio sottesa a detta previsione è rinvenibile nel fatto che la condanna del giudice, nel caso di specie, avrebbe ad oggetto un obbligo di fare infungibile rispetto al quale l'esatta conformazione all'ordine del datore di lavoro (debitore) costituirebbe l'unico adempimento possibile per il debitore, il quale non potrebbe avvalersi dell'esecuzione in forma specifica. Tale tipo di azione, infatti, è incompatibile con gli obblighi infungibili essendo questi incoercibili per definizione.

Condotta antisindacale nel pubblico impiego

La tutela dei diritti sindacali nel pubblico impego è anch'essa garantita mediante il procedimento ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300. In particolare, l'art. 37, L. 20 maggio 1970, n. 300 ha espressamente stabilito l'applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 20 maggio 1970, n. 300 ai lavoratori dipendenti degli enti pubblici non economici.

Sino all'inizio degli anni '90, in assenza di una specifica disposizione che regolasse i rapporti di pubblico impiego presso la pubblica amministrazione la giurisprudenza (ex multis Cass., 26 luglio 1984, n. 4386) era solita distinguere tra enti pubblici non economici e lo Stato.

Nel primo caso si riteneva applicabile il procedimento ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300. Tuttavia, c'erano delle differenze con riferimento alla giurisdizione, infatti, nel caso in cui il comportamento antisindacale avesse inciso esclusivamente nei rapporti tra organizzazione sindacale e datore di lavoro la giurisdizione sarebbe stata del Tribunale civile in funzione di giudice del lavoro mentre in caso di condotte plurioffensive che, dunque, avessero inciso anche su diritti individuali dei lavoratori la giurisdizione sarebbe stato del Tribunale amministrativo. Nel caso, invece, di rapporti di lavoro intercorrenti con la pubblica amministrazione non sarebbe stata esperibile l'azione per la repressione della condotta antisindacale e all'organizzazione sindacale sarebbe stato consentito esclusivamente di agire in via ordinaria.

Un passo in avanti verso l'applicabilità dell'azione ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 a tutto il pubblico impiego si è avuto con la L. 12 giugno 1990, n. 146 che ha inserito il sesto e settimo comma. Il nuovo comma 6 dell'art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300 ha stabilito l'esperibilità dell'azione per la repressione della condotta antisindacale anche nei confronti dello Stato mentre il comma 7 della medesima disposizione ha disciplinato il riparto di giurisdizione devolvendo al giudice del lavoro la cognizione delle azioni ex art. 28 L. 20 maggio 1970, n. 300 ma riservando al giudice amministrativo la decisione nel caso in cui, in ipotesi di condotta plurioffensiva, l'organizzazione sindacale abbia richiesto di rimuovere provvedimenti lesivi di situazioni giuridiche soggettive individuali dei lavoratori.

I due commi appena descritti sono però venuti meno a seguito della “privatizzazione” del pubblico impiego avvenuta con il D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

La materia è attualmente regolata dall'art. 63 del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 il quale ha devoluto alla cognizione del giudice del lavoro tutte le controversie relative a condotte antisindacali.

Attualmente, dunque, l'unico elemento che presenta qualche criticità è rappresentato dalle ipotesi di condotta antisindacale plurioffensiva. Infatti, nelle ipotesi in cui tali comportamenti siano relativi a rapporti di lavoro non privatizzati, ferma l'esperibilità dell'azione per la repressione della condotta antisindacale, la tutela delle posizioni individuali è riservata alla possibile cognizione del giudice amministrativo, con il possibile effetto di pronunce contrastanti sulla medesima situazione di fatto.

Riferimenti

Normativa:

Art. 24, L. 23 luglio 1991, n. 223

Art. 47, L. 29 dicembre 1990 , n. 428

Art. 19, L. 20 maggio 1970, n. 300

Art. 28, L. 20 maggio 1970, n. 300

Giurisprudenza:

Per i recenti orientamenti sul tema, v. Tribunale Firenze, sez. lav., 26 dicembre 2023, con commento di R. Maraga,  Anti-delocalizzazioni: in caso di omissione della preventiva procedura al licenziamento collettivo, si profila la condotta antisindacale

Cassazione, sentenza 17 giugno 2014 n. 13726

Cassazione, sentenza 9 giugno 2014, n. 12885

Cassazione, sentenza 1 maggio 1999, n. 13383

Cassazione, sentenza 8 maggio1992, n. 5454

Cassazione, sentenza 6 marzo 1987 n. 2392

Bibliografia essenziale

Treu, Condotta antisindacale e atti discriminatori, Milano, 1975, 100

Giugni, Il nuovo assetto sindacale. L'applicazione dello statuto dei lavoratori – Tendenze e orientamenti, Milano, 1973, 212

Lunardon (a cura di), Conflitto, concertazione e partecipazione, CEDAM, Roma, 2011, 3, 759

Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro. Il diritto sindacale, Torino, 2002, 144 e nello stesso senso si veda anche Scogniamiglio, Condotta antisindacale (I disciplina sostanziale), in Enc. Giur., Roma, 1988, 17

Sommario