L'art. 19, L. n. 300/1970, quale norma di sostegno e promozione dell'attività sindacale, individua gli organi rappresentativi dei lavoratori nelle rappresentanze sindacali aziendali (RSA). Si tratta di organismi attraverso i quali è garantita la presenza del sindacato in azienda, che possono essere costituiti ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro, anche non di livello nazionale o provinciale, applicati nell'unità produttiva o che, pur non essendo firmatarie, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda (Corte Cost. n. 231/2013). Le RSA sono costituite per iniziativa dei lavoratori dell'azienda e non delle associazioni sindacali di cui all'art. 19, L. n. 300/1970. Le RSA, quali associazioni non riconosciute, hanno una propria soggettività giuridica,come si evince dalle varie disposizioni dello Statuto dei Lavoratori che prevedono la loro legittimazione all'esercizio di diritti e facoltà (artt. 9, 20, 21, 22, 25 e 27). In particolare, va precisato che non sono organi dei sindacati, né sono con gli stessi in una relazione di immedesimazione organica, capace di determinare l'imputabilità giuridica degli atti da loro compiuti ai sindacati; si tratta piuttosto di in un rapporto di natura politica, di parziale coincidenza di interessi collettivi e di obiettivi di tutela (Cass. sez. lav., n. 14686/1999). Come chiarito dalla Corte Costituzionale, l'art. 14 della L. n. 300/70 garantisce a tutti i lavoratori, in conformità al precetto di cui all'art. 39 Cost., il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacali all'interno dei luoghi di lavoro. Mentre l'art. 19 stabilisce che determinate funzioni, inerenti alla rappresentanza sindacale aziendale, particolarmente incisive nella vita e nell'attività dell'unità produttiva, siano affidate dagli stessi prestatori d'opera a quei sindacati che conseguano i requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento di tali funzioni. Invero, l'art. 19 non incide sulla possibilità di costituire RSA, ma si limita a definire i requisiti che le RSA devono possedere per poter fruire dei diritti sindacali previsti dal titolo III (Corte Cost. n. 54/1974).
L'art. 19, L. n. 300/1970, quale norma di sostegno e promozione dell'attività sindacale, individua gli organi rappresentativi dei lavoratori nelle rappresentanze sindacali aziendali (RSA). Si tratta di organismi attraverso i quali è garantita la presenza del sindacato in azienda, che possono essere costituiti ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro, anche non di livello nazionale o provinciale, applicati nell'unità produttiva o che, pur non essendo firmatarie, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda (Corte Cost. n. 231/2013). Le RSA sono costituite per iniziativa dei lavoratori dell'azienda e non delle associazioni sindacali di cui all'art. 19, L. n. 300/1970. Le RSA, quali associazioni non riconosciute, hanno una propria soggettività giuridica,come si evince dalle varie disposizioni dello Statuto dei Lavoratori che prevedono la loro legittimazione all'esercizio di diritti e facoltà (artt. 9, 20, 21, 22, 25 e 27). In particolare, va precisato che non sono organi dei sindacati, né sono con gli stessi in una relazione di immedesimazione organica, capace di determinare l'imputabilità giuridica degli atti da loro compiuti ai sindacati; si tratta piuttosto di in un rapporto di natura politica, di parziale coincidenza di interessi collettivi e di obiettivi di tutela (Cass. sez. lav. n. 14686/1999). Come chiarito dalla Corte Costituzionale, l'art. 14 della L. n. 300/70 garantisce a tutti i lavoratori, in conformità al precetto di cui all'art. 39 Cost., il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacali all'interno dei luoghi di lavoro. Mentre l'art. 19 stabilisce che determinate funzioni, inerenti alla rappresentanza sindacale aziendale, particolarmente incisive nella vita e nell'attività dell'unità produttiva, siano affidate dagli stessi prestatori d'opera a quei sindacati che conseguano i requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento di tali funzioni. Invero, l'art. 19 non incide sulla possibilità di costituire RSA, ma si limita a definire i requisiti che le RSA devono possedere per poter fruire dei diritti sindacali previsti dal titolo III (Corte Cost. n. 54/1974).
Le Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU), introdotte sulla base dell'Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 (preceduto dal Protocollo di Intesa del 23 luglio 1993), sono definite dalla dottrina (Rosselli) come organizzazioni attraverso cui il sindacato è presente in azienda, purché derivino dall'iniziativa dei lavoratori ed abbiano qualificazione sindacale.
In proposito la Suprema Corte ha affermato che le RSU rispondono ad un diverso criterio di rappresentatività sindacale in azienda, cioè a quello elettivo con soglia di sbarramento, ma privo di esclusività in quanto aperto ad ogni associazione sindacale che abbia anche solo aderito all'Accordo interconfederale (Cass. sez. lav. n. 10001/2013).
La giurisprudenza ne ha affermato la piena legittimità, nonostante costituiscano una deviazione dal criterio di rappresentatività negoziale posto dall'art. 19 St. Lav., fondato sulla sottoscrizione di un contratto collettivo applicabile nell'unità produttiva, che peraltro non può considerarsi esclusivo (Cass. sez. lav. n. 1307/2006).
In definitiva, si tratta di organismi del tutto autonomi, protetti dagli strumenti di garanzia stabiliti dal titolo III St. Lav. per la tutela della libertà ed attività sindacale, rispetto ai quali il datore di lavoro non può esercitare alcun potere di ingerenza e controllo sul loro funzionamento e sulla loro composizione (Cass. sez. lav. n. 7604/2008).
Va aggiunto che il Protocollo del 2013 ed il relativo accordo interconfederale del 2014, di cui si dirà nel prosieguo, hanno previsto che le elezioni delle RSU avvengano in base al metodo proporzionale, procedendo all'assegnazione dei seggi alle singole liste in proporzione ai voti ottenuti.
Ai sensi dell'art. 4, comma 1, dell'Accordo interconfederale 20 dicembre 1993, i componenti delle RSU subentrano ai dirigenti delle RSA nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti, per effetto delle disposizioni di cui al titolo terzo della L. n. 300/1970.
In proposito la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l'autonomia contrattuale collettiva può prevedere organismi di rappresentatività sindacale in azienda (quali, nella specie, le RSU) diversi rispetto alle RSA di cui all'art. 19, L. n. 300/1970, e alle prime può assegnare prerogative sindacali - quale il diritto di indire l'assemblea sindacale - non necessariamente identiche a quelle delle RSA, con il limite, previsto dall'art. 17, St. Lav., del divieto di riconoscere ad un sindacato un'ingiustificata posizione differenziata che lo collochi quale interlocutore privilegiato del datore di lavoro.
Delle RSU non è predicata la natura di organismi a funzionamento collegiale, sicché non vi è ragione per non ritenere che alle RSU siano state pattiziamente riconosciute le prerogative sindacali delle RSA tutte, cioè sia quelle riferibili alla singola RSA, sia quelle attribuite ai suoi dirigenti; e tra queste prerogative sindacali è compreso anche il diritto di indire l'assemblea sindacale (Cass. sez. lav. n. 15437/2014).
In evidenza: Tribunale di Ravenna |
Le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto gli accordi intercategoriali e di categoria istitutivi e regolamentari della rappresentanza sindacale unitaria (RSU) e comunque quelle che hanno partecipato alle elezioni della RSU non possono costituire autonome rappresentanze sindacali aziendali (RSA) ex art. 19 St. Lav. fino alla decadenza della RSU eletta, né i datori di lavoro che hanno aderito agli accordi possono riconoscere una RSA, ove risulta già presente una RSU (Trib. Ravenna 27 luglio 2005). |
Al fine di definire le regole generali sulle forme di rappresentanza in azienda, all'originario accordo interconfederale del 1993 è seguito quello del 10 gennaio 2014, “Testo unico della rappresentanza”, preceduto dal relativo Protocollo d'intesa del 31 maggio 2013, in base ai quali si è stabilito che in ogni unità produttiva deve essere adottata una sola forma di rappresentanza.
Alla scadenza delle RSA, le organizzazioni sindacali che rappresentano la maggioranza del settore a livello nazionale (50% + 1) concordano la costituzione delle RSU.
È previsto che i sindacati di categoria aderenti alle confederazioni firmatarie dei riformati accordi rinuncino formalmente ed espressamente a costituire RSA, impegnandosi altresì a non costituire RSA nelle unità produttive in cui sono state o vengono formate le RSU.
Sul punto, la dottrina (F. Carinci) rileva che tale clausola di salvaguardia lascia aperta una questione delicata, cioè se anche le organizzazioni sindacali aderenti alle confederazioni sindacali firmatarie possano costituire RSA nelle unità produttive in cui non preesista alcuna forma di rappresentanza sindacale, perché, in base alla sua prima parte, sembrerebbe di no, mentre, in base alla seconda, risulterebbe possibile. La risposta positiva sembra ricavabile dalla parte in cui il Testo Unico prevede che le organizzazioni sindacali firmatarie possono optare a favore delle RSA, ove non siano mai state costituite forme di rappresentanza sindacale.
Nell'ipotesi in cui fosse costituita una RSA, l'accordo stabilisce che deve essere comunque garantita “l'invarianza dei costi aziendali rispetto alla situazione che si sarebbe determinata con la costituzione delle RSU”.
Al fine di costituire le rappresentanze sindacali aziendali, risulta indispensabile l'iniziativa dei lavoratori, con la conseguenza che si rivela inidonea una autoritativa derivazione delle stesse dal sindacato. A riguardo la Corte di Cassazione ha precisato che la mera comunicazione da parte del sindacato non costituisce prova dell'effettiva e regolare costituzione delle rappresentanze, in mancanza della prova concernente l'iniziativa dei lavoratori. Invero, le associazioni sindacali non possono limitare in alcun modo la facoltà dei lavoratori, restando solo libere di accogliere o meno le predette rappresentanze. A ciò consegue che i dirigenti delle RSA possono non essere iscritti al sindacato o appartenere a categorie professionali da questo non rappresentate (Cass. sez. lav. n. 1582/2008).
Giova sottolineare come l'interpretazione del requisito costituito dall'iniziativa dei lavoratori non sia particolarmente restrittiva, potendosi sostanziare lo stesso in una qualsiasi forma di collegamento fra lavoratori ed RSA. Pertanto è ammissibile sia un formale atto propulsivo dei lavoratori, così come una richiesta degli stessi alle organizzazioni esterne, o ancora, l'appropriazione delle attività provenienti da un sindacato. Il collegamento non risulta escluso dal mancato ricorso al sistema elettorale e la designazione dei rappresentanti sindacali aziendali da parte delle organizzazioni sindacali (Trib. Roma, 13 giugno 2003).
Sotto il profilo del riconoscimento, va evidenziato che, per poter essere legittimati quali RSA statutarie, gli organismi promossi dai lavoratori devono ricevere l'accettazione del sindacato e poter così essere ricompresi nel suo ambito (Trib. Milano, 10 novembre 1993).
Ne consegue che la revoca del riconoscimento di un delegato da parte del sindacato, dovuta all'espulsione del delegato dall'associazione sindacale, comporta il venir meno della qualifica di RSA (Trib. Milano, 23 maggio 1993).
In evidenza: Corte di Cassazione |
In senso contrario va rilevato che, in un un caso riguardante le RSU, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che i lavoratori, una volta eletti, non sono più legati al sindacato nelle cui liste si sono presentati alle elezioni, ma fondano la loro carica sul voto, universale e segreto, dell'intera collettività dei dipendenti aziendali. Tale fondamento permane anche se il lavoratore di dimette dal sindacato nelle cui liste si è presentato e quali che siano le successive decisioni. Pertanto siffatta scelta del lavoratore non ne comporta la decadenza dalla carica e il venire meno dei diritti connessi alla stessa (Cass. sez. lav. n. 3868/2012). |
Secondo la dottrina (Maresca) e la giurisprudenza prevalenti, il contratto collettivo cui fa riferimento l'art. 19, L. n. 300/70, deve avere contenuto normativo e generalizzato e deve essere finalizzato alla stabile regolamentazione delle condizioni di lavoro all'interno dell'azienda. Ne consegue l'impossibilità di attribuire rilievo agli accordi dal tenore gestionale, come quelli conclusi dalle associazioni sindacali nell'ambito delle procedure di cassa integrazione o di licenziamento collettivo, o ancora, quelli la cui efficacia è destinata ad esprimersi all'interno di singoli reparti.
Come osservato da autorevole dottrina (Dell'Olio), la legittimazione alla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali risponde alla funzione di consentire la gestione del contratto.
La ratio dell'art. 19 St. Lav. si rinviene nella selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività. La rappresentatività del sindacato non deriva da un riconoscimento del datore di lavoro espresso in forma pattizia, né è sufficiente la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto. Del resto neppure sufficiente risulta la stipulazione di un contratto qualsiasi, ma deve trattarsi di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale di un contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva (Corte Cost. n. 244/1996).
Come osservato da autorevole dottrina (Giugni), storicamente l'art. 19 St. Lav. ebbe l'obiettivo di conferire sostegno alle grandi confederazioni (CGIL, CISL e UIL), richiedendo per la costituzione delle RSA il requisito dell'appartenenza a confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Infatti, si voleva conferire espressione normativa agli organismi sorti sul posto di lavoro, facendoli confluire nel sindacato organizzato. Il criterio della maggior rappresentatività, inteso quale reale capacità di rappresentare gli interessi sindacali, era volto alla verifica dell'effettiva forza rappresentativa dell'associazione sindacale e non presupponeva alcuna comparazione rispetto alle altre confederazioni (Cass. n. 4218/1984).
A seguito del referendum dell'11 giugno 1995, il criterio previsto per la costituzione delle RSA subisce una prima modifica, poiché da un lato, alla sottoscrizione del contratto collettivo nazionale o provinciale si affianca la sottoscrizione del contratto collettivo aziendale e, dall'altro, viene meno la necessaria affiliazione alle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative.
In evidenza: Corte di Cassazione |
“Il riferimento dell'art. 19 dello Statuto dei Lavoratori alle associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi riguarda le organizzazioni firmatarie di contratti collettivi normativi e non anche di contratti gestionali, che non rientrano nella previsione di cui all'art. 39 Cost. e non sono, per loro natura, atti a comprovare la rappresentatività richiesta dalla norma” (Cass. sez. lav. n. 19275/2008). |
Per quanto concerne la partecipazione alle trattative per la realizzazione del contratto applicato in azienda, la giurisprudenza precisa che tale partecipazione deve essere effettiva, non essendo sufficiente la sola sottoscrizione dei contratti per adesione (Cass. sez. lav. n. 8585/2007).
In proposito giova sottolineare che la giurisprudenza si è interrogata sulle conseguenze della mancata sottoscrizione del contratto collettivo da parte di un'associazione sindacale che abbia partecipato alle trattative.
Secondo l'orientamento precedente alla pronuncia della Corte Costituzionale sul tema, al dato formale della mancata sottoscrizione, interpretato quale requisito fondamentale, seguiva la carenza di attribuzione delle prerogative e dei diritti in capo all'associazione. In tal modo si privilegiava il tenore letterale dell'art. 19 St. Lav., designando come firmatario colui che appone la propria firma su un documento e che, in tal modo, vi aderisce facendolo proprio (Trib. Torino, Decreto 13 aprile 2012).
In evidenza: Corte Costituzionale |
Sul punto è intervenuta la Consulta stabilendo che “È costituzionalmente illegittimo l'art. 19, comma 1, lett b), L. n. 300/70, nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda. La disposizione censurata, la quale prevede il criterio della sottoscrizione dell'accordo applicato in azienda ai fini della costituzione della rappresentanza sindacale aziendale, nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività e, per una sorta di eterogenesi dei fini, si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, si pone in collisione con i precetti di cui all'art. 3 Cost. sotto il duplice profilo della irragionevolezza intrinseca di quel criterio, e della disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare tra sindacati, i quali, nell'esercizio della loro funzione di autotutela dell'interesse collettivo – che, in quanto tale, reclama la garanzia di cui all'art. 2 Cost. - sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l'azienda, per il rilievo condizionale attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa; e con l'art. 39 Cost., atteso che se il modello disegnato dall'art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l'impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale” (Corte Cost. n. 231/2013). |
L'intervento additivo della Corte Cost. non riafferma la vecchia nozione di rappresentatività presunta, ma individua un nuovo criterio selettivo idoneo testimoniare un dato di rappresentatività effettiva: la partecipazione alle trattative, svincolata dalla stipulazione del contratto.
Ne consegue che la partecipazione alle trattative, costituendo un criterio autonomo, assurge a condizione necessaria e sufficiente per essere ammessi al godimento dei diritti sindacali di cui al titolo III St. Lav., a prescindere dal dato formale della sottoscrizione del contratto.
Formulazione originaria dell'art. 19, L. n. 300/1970 |
A seguito del Referendum dell'11 giugno 1995 |
A seguito della pronuncia additiva Corte Cost. n. 231/2013 |
adesione alle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale oppure sottoscrizione di contratti collettivi nazionali o provinciali applicati nell'unità produttiva |
sottoscrizione di contratti collettivi nazionali, provinciali o aziendali applicati nell'unità produttiva |
sottoscrizione di contratti collettivi nazionali provinciali o aziendali applicati nell'unità produttiva oppure partecipazione alle trattative |
Con riferimento al numero di membri per costituire la RSA, la giurisprudenza appare divisa, sostenendo, da un lato, la natura necessariamente plurisoggettiva (Cass. n. 5842/1985), dall'altro, che anche l'unicità sul piano soggettivo sia idonea a dar vita ad una rappresentanza sindacale aziendale (Cass. sez. lav. n. 6524/1996).
Alla luce del primo orientamento consegue che l'assunzione di iniziative sindacali spetti all'organo collegiale, e non al singolo componente della RSA, così come la legittimazione ad agire in giudizio (Cass. sez. lav. n. 12467/1995).
Il diritto di assemblea
Tra i poteri che le RSA sono legittimate ad esercitare, particolare importanza riveste quello di indire l'assemblea, definito dalla dottrina (R. Scognamiglio) quale strumento di democrazia diretta volto a favorire l'effettiva partecipazione dei lavoratori alla discussione ed alla decisione di tematiche sindacali.
Giova ricordare che, a seguito dell'entrata in vigore delle RSU, il diritto di indire l'assemblea è stato riconosciuto altresì a questi organismi, e che, in proposito, una parte della giurisprudenza ha precisato che il riconoscimento del potere di indire l'assemblea spetta ai singoli componenti, non già alle RSU nel loro complesso (Cass. sez. lav. n. 15437/2014).
Sul punto è opportuno rilevare che il datore di lavoro è privo del potere di indire l'assemblea e che, data la possibile contemporanea sussistenza di diverse assemblee, il datore non può autorizzare un'assemblea per volta, poiché tale comportamento assumerebbe portata antisindacale.
In evidenza: Tribunale di Milano |
È stata ritenuta antisindacale la condotta del datore di lavoro che non consente lo svolgimento di un'assemblea indetta da un singolo componente della RSU, dal momento che alla luce dell'interpretazione letterale e sistematica dell'Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993 e dell'art. 20 St. Lav., i singoli rappresentanti esercitano disgiuntamente i poteri e i diritti previsti dagli artt. 20 e ss. St. Lav., laddove la RSU viene in considerazione unitariamente solo nella fase negoziale (Trib. Milano, 4 luglio 2006). |
L'indizione dell'assemblea è legittima ove oggetto della stessa sia una materia di interesse sindacale e del lavoro. A riguardo, la dottrina (G. Pera) adotta un'interpretazione estensiva in virtù della quale può trattarsi di tutti quei temi che il sindacato assume come propri in relazione ai suoi fini istituzionali, e quindi non necessariamente afferenti a problemi del sindacato. In ogni caso, l'oggetto deve risultare dall'ordine del giorno che va inviato ad datore di lavoro, il quale non ha diritto di partecipare all'assemblea, salvo che sia stato espressamente invitato.
Per quanto concerne lo svolgimento dell'assemblea, deve osservarsi che possono parteciparvi tutti coloro che sono destinatari di un rapporto di lavoro subordinato (Cass. n. 3038/1985), anche se scioperanti (Cass. sez. lav. n. 11352/1995), o collocati in cassa integrazione (Cass. sez. lav. n. 7859/1986).
I lavoratori possono riunirsi in assemblea nell'unità produttiva in cui prestano la propria attività sia durante l'orario di lavoro, che fuori dallo stesso.
In evidenza: Corte di Cassazione |
Con particolare riferimento alla partecipazione in assemblea, la giurisprudenza ha recentemente precisato che “In tema di diritto dei lavoratori a riunirsi in assemblea durante l'orario di lavoro, il limite temporale di dieci ore annue retribuite, previsto dall'art. 20, comma 1, L. n. 300/1970, con salvezza delle migliori condizioni previste dalla contrattazione collettiva, va riferito alla generalità dei lavoratori dell'unità produttiva e non ai singoli lavoratori” (Cass. n. 25/2015). |
Ne consegue che l'interesse del datore di lavoro è unicamente diretto a salvaguardare la sicurezza degli impianti ed eventualmente la continuazione dell'attività lavorativa da parte di coloro che non partecipano all'assemblea, mentre avviare procedimenti disciplinare nei confronti di coloro che prendano parte all'assemblea costituisce condotta antisindacale (Trib. Milano, 31 luglio 2006).
In evidenza: Corte di Cassazione |
Con riferimento al luogo dell'assemblea, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l'esercizio del diritto di riunione di cui all'art. 20, L. n. 300/1970 può essere esercitato in piena libertà di luogo, sia all'interno che all'esterno del luogo di lavoro, con i soli limiti prescritti dalla legge e dalla eventuale contrattazione collettiva e del divieto di atti emulativi (Cass. sez. lav. n. 24670/2014). |
Sempre con riferimento al luogo, va rilevato che il datore di lavoro ha l'obbligo di apprestare un locale idoneo ad ospitare l'assemblea e quello di vigilare sulla effettiva disponibilità dello stesso da parte di tutte le RSA che abbiano il diritto di fruirne.
Il diritto di affissione
Solo la RSA, e non anche il sindacato, è legittimata ad esercitare il diritto di affissione di comunicazioni e documenti attinenti a materie di interesse sindacale e del lavoro, laddove invece i gruppi spontanei di lavoratori o le associazioni prive dei requisiti di cui all'art. 19 St. Lav., possono svolgere attività di proselitismo e informazione ex art. 26 St. Lav.
Autorevole dottrina (Giugni) rileva che il datore di lavoro non ha il diritto di impedire l'affissione né di rimuovere testi, anche qualora questi integrino gli estremi di un reato, poiché la responsabilità per il contenuto delle affissioni grava esclusivamente sulle persone che agiscono per conto delle RSA e non anche sul datore di lavoro. Ne consegue, secondo parte della dottrina (Bellomo), che il datore di lavoro è privo della legittimazione di procedere materialmente alla defissione, dal momento che un tale comportamento, potendo atteggiarsi ad esercizio arbitrario delle proprie ragioni, potrebbe essere qualificato come condotta antisindacale.
In evidenza: Corte di Cassazione |
Nello stesso senso, la Suprema Corte ha chiarito che il datore di lavoro non ha il diritto di impedire le affissioni, manomettere le bacheche o rimuovere dalle stesse documenti in base ad una propria valutazione sulla qualità degli stessi (Cass. sez. lav. n. 2808/1994), ma può procedere alla defissione solo dei testi che siano stati affissi al di fuori degli appositi spazi previsti dall'art. 25 St. Lav. |
Per ciò che concerne il materiale da affiggere, la giurisprudenza ha evidenziato che la scelta di tale materiale consegue ad una decisione assunta dall'organizzazione sindacale, la quale può considerare di interesse sindacale qualsiasi argomento, purché lo abbia posto ad oggetto della sua azione (Cass. sez. lav. n. 2808/1994).
Giova altresì precisare come il datore di lavoro possa mutare l'ubicazione dello spazio di affissione, con la conseguenza che, non potendo parlarsi di detenzione qualificata delle bacheche da parte delle RSA, non è antisindacale il comportamento del datore che si limita a spostare le bacheche in luoghi ugualmente idonei, senza manometterne il materiale affisso (Cass. sez. lav. n. 1199/2000).
Il referendum
Ai sensi dell'art. 21 St. Lav., il datore ha l'obbligo di consentire, nell'ambito aziendale e fuori dall'orario di lavoro, lo svolgimento di referendum, generali o di categoria, su materie concernenti l'attività sindacale.
Il referendum, pur condividendo con l'assemblea la natura di istituto di democrazia diretta, se ne differenzia sotto il profilo funzionale, dovendo necessariamente essere indetto da tutte le RSA, non solo da una di esse. Tutti i lavoratori appartenenti all'unità produttiva e alla categoria interessata hanno il diritto di partecipare al referendum, i cui effetti non sono specificati dal legislatore. A riguardo, la giurisprudenza ha rilevato come questo istituto non esplichi la sua efficacia al di fuori del rapporto che lega i lavoratori alle organizzazioni sindacali (Cass. sez. lav. n. 10119/1994).
Come chiarito dalle Sezioni Unite, la scelta del lavoratore di farsi trattenere una quota della retribuzione da versare, da parte del datore di lavoro, al sindacato di appartenenza, configura non già una delegazione di pagamento, bensì una cessione di credito, per la cui efficacia non è richiesto il consenso del datore di lavoro (Cass. SS.UU. n. 28269/2005).
Ne consegue che il rifiuto del datore di lavoro di effettuare i versamenti non solo costituisce un inadempimento sul piano civilistico, ma configura anche una condotta antisindacale doppiamente pregiudizievole, da un lato, del diritto dei lavoratori di scegliere il sindacato cui aderire, dall'altro, del diritto del sindacato a percepire i mezzi di finanziamento per la propria attività (Cass. sez. lav. n. 6905/2009).
In evidenza: Corte di Cassazione |
In tema di riscossione di quote associative sindacali dei dipendenti pubblici e privati a mezzo di trattenuta ad opera del datore di lavoro, l'art. 52, D.P.R. n. 180/1950, come modificato dall'art. 13-bis, D.L. n. 35/2005, convertito in L. n. 80/2005 nel disciplinare tutte le cessioni di credito da parte dei lavoratori dipendenti, non prevede limitazioni al novero dei cessionari, in ciò differenziandosi da quanto stabilito dall'art. 5 del medesimo D.P.R., per le sole ipotesi di cessioni collegate all'erogazione di prestiti. Ne consegue che è legittima la suddetta trattenuta del datore di lavoro, attuativa della cessione del credito in favore delle associazioni sindacali, atteso altresì, che una differente interpretazione sarebbe incoerente con la finalità legislativa antiusura posta a garanzia del lavoratore che, altrimenti, subirebbe un'irragionevole restrizione della sua autonomia e libertà sindacale (Cass. n. 2314/2012). |
Ai sensi dell'art. 23 St. Lav. i dirigenti delle RSA hanno un diritto soggettivo pieno ed incondizionato alla fruizione di permessi retribuiti per l'espletamento del loro mandato.
Pertanto, sussistendo il presupposto della qualifica dirigenziale ex art. 22 St. Lav., i dipendenti che svolgono tale ruolo all'interno delle RSA possono astenersi dall'esercizio dell'attività lavorativa, senza che a ciò consegua un pregiudizio del loro trattamento retributivo, ededicarsi alla tutela degli interessi dei lavoratori.
L'abbandono o l'espulsione dal sindacato nel cui ambito si era stati eletti comporta il venir meno del diritto ai permessi retribuiti (Trib. Milano 23 maggio 1993).
Il dirigente deve esercitare il suo diritto comunicando al datore di lavoro, almeno 24 ore prima, la richiesta del permesso e la natura sindacale dello stesso, senza la necessità di descrivere dettagliatamente l'attività sindacale che verrà espletata (Cass. sez. lav. n. 10593/1991). Nell'ipotesi in cui il dipendente utilizzi il permesso sindacale per i propri interessi personali, il provvedimento disciplinare irrogato dal datore di lavoro non integra gli estremi della condotta antisindacale (Trib. Milano 22 dicembre 1992).
In evidenza: Tribunale di Milano |
In ossequio al principio di insindacabilità da parte del datore di lavoro circa le attività del mandato del dirigente delle RSA, costituisce condotta antisindacale il licenziamento di un delegato RSU, il quale si sia avvalso dei permessi sindacali di cui all'art. 23 St. Lav. per attività di generica consulenza per l'O.S. di categoria, in quanto le modalità di espletamento del mandato sindacale sono sottratte a qualsiasi potere discrezionale di valutazione, da parte del datore di lavoro (Trib. Milano 23 novembre 2004). |
Come osservato dalla dottrina (Grandi, Pera) l'art. 22 St. Lav., è una norma volta a rendere effettiva la presenza sindacale sul luogo di lavoro attraverso la limitazione del potere direttivo del datore di lavoro. La tutela offerta dall'articolo in esame esplica i suoi effetti, non solo sotto il profilo collettivo, ma anche sotto quello individuale, poiché mira ad evitare le discriminazioni a causa dell'attività sindacale svolta. A riguardo, come rilevato da parte della dottrina (Bellomo), la tutela non si limita ai dirigenti delle RSA, ma concerne anche i candidati e i membri della Commissione interna, nonché i membri delle RSU.
La garanzia posta dall'art. 22 St. Lav. riguarda il dirigente della RSA, ossia colui che, designato da parte del sindacato ad iniziativa dei lavoratori, svolga concretamente ed effettivamente attività sindacale nell'unità produttiva di appartenenza; essa trova applicazione quando si verifichi un trasferimento in senso tecnico, ovvero lo spostamento e l'inserimento stabile (e non solo temporaneo) del dirigente sindacale in un'articolazione organizzativa dell'impresa diversa da quella di originaria appartenenza (Trib. Catania 26 marzo 2010).
In evidenza: Corte di Cassazione |
A seguito del referendum parzialmente abrogativo dell'art. 19 St. Lav., per il trasferimento dei dirigenti delle RSA appartenenti ad organizzazioni che non abbiano sottoscritto contratti collettivi non è più necessario il nulla osta (Cass. sez. lav. n. 8725/2009). |
Come osservato dalla giurisprudenza di merito, è antisindacale il licenziamento del rappresentante sindacale unitario posto in essere dal datore di lavoro attraverso l'uso discriminatorio e strumentale del proprio potere disciplinare e con il chiaro scopo di ostacolare l'attività sindacale all'interno dell'azienda (Trib. Milano, 27 settembre 2001).
La natura antisindacale del licenziamento disciplinare intimato a un componente della RSU, a seguito di un addebito estraneo all'esercizio concreto dell'attività sindacale, può essere verificata attraverso indici sintomatici quali la legittimità e la proporzionalità della sanzione, le modalità con cui è stato esercitato il recesso, nonché valutando altre circostanze esterne e concomitanti (Trib. Milano 11 agosto 2007).
Invero, l'antisindacalità può essere ricavata dalla fragilità delle motivazioni addotte nelle relative contestazioni nonché dall'adozione, da parte del datore di lavoro, di provvedimenti ingiustificati, tali da svilire il ruolo sindacale del lavoratore (Trib. Milano 23 luglio 2007).
Particolare interesse assume la tematica dell'irrogazione del licenziamento al rappresentante sindacale aziendale in relazione all'esercizio del diritto di critica dello stesso. Sul punto la Suprema Corte ha precisato che l'esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale, del diritto di critica delle decisioni aziendali (manifestata, nella specie, attraverso la diffusione di alcuni volantini all'esterno dell'azienda), sebbene sia garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, anche quando la critica venga espressa nella forma della satira; ne consegue che, ove tali limiti siano superati, con l'attribuzione all'impresa datoriale o ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione. (Cass. sez. lav. n. 7091/2001).
Nello stesso senso si è espressa anche la giurisprudenza di merito affermando che il diritto di critica del lavoratore sindacalista nei confronti di un proprio superiore trova un limite insuperabile nel carattere denigratorio delle accuse rivolte, rispetto alle quali è legittima l'irrogazione di sanzioni disciplinari da parte del datore di lavoro e tali sanzioni non possono essere considerate alla stregua di una condotta antisindacale.
Nel caso di specie, la Corte d'Appello ha ritenuto gravemente denigratoria l'accusa formulata da un sindacalista nei confronti di un dirigente, di avere deliberatamente tenuto un comportamento volto a boicottare la società datrice di lavoro a favore di altre imprese concorrenti (Corte d'Appello di Milano, 4 maggio 2001).
Coerente con tale ordine di idee è l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento in tronco di un rappresentante sindacale aziendale che ha esercitato il proprio diritto di critica sulle scelte datoriali e sull'organizzazione aziendale senza violare il limite posto al legittimo esercizio di tale diritto, limite consistente nella falsità delle dichiarazioni e nella volgarità delle espressioni usate (Pret. Milano, 9 gennaio 1999).
In evidenza: Corte di Cassazione |
“Nel caso in cui il licenziamento di un dirigente sindacale venga dichiarato illegittimo, con conseguente diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, dal comportamento del datore di lavoro che – pur erogando la retribuzione e permettendo al lavoratore di entrare in azienda per svolgere attività sindacale – non gli consenta tuttavia di riprendere l'attività lavorativa vera e propria, deriva l'obbligo di versare all'INPS la sanzione amministrativa prevista dall'art. 18, ultimo comma, L. n. 300/1970” (Cass. sez. lav. n. 17372/2014). |
L'art. 51, co. 2, D.Lgs. n. 165/2001 dispone che la L. n. 300/1970, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle P.A. a prescindere dal numero dei dipendenti.
La giurisprudenza ha precisato che, in tema di impiego pubblico, rappresentanze sindacali e diritto di indire assemblee dei lavoratori, non trovano sempre applicazione le disposizioni della L. n. 300/1970 in quanto le norme raccolte, prima nel D.Lgs. n. 29/1993, e poi nel D.Lgs. n. 165/2001, rivestono carattere di specialità sotto diversi profili rispetto al modello dello Stat. Lav., al quale pure sono ispirate nel riprendere le forme di tutela delle libertà e dell'attività sindacale, dando luogo ad un sistema a sé stante.
Ne consegue che l'art. 2, secondo comma, del contratto collettivo nazionale quadro sulle modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative e permessi, e delle altre prerogative sindacali, per il personale dei comparti della P.A. stipulato il 7 agosto 1998, in relazione a quanto stabilito dall'art. 10 dello stesso contratto e dagli artt. 5 e 8 dell'accordo collettivo quadro per la costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie per il personale dei comparti delle P.A. e per la definizione del relativo regolamento elettorale stipulato in pari data, si interpreta nel senso che il diritto di indire assemblee dei dipendenti spetta alla RSU quale organismo elettivo unitariamente inteso e a struttura collegiale, che assume ogni decisione secondo il regolamento eventualmente adottato o, in mancanza, a maggioranza dei componenti e non per volontà dei singoli componenti della stessa RSU (Cass. sez. lav. n. 3072/2005).
Dunque, in base al D.Lgs. n. 165/2001 e all'accordo collettivo quadro 7 agosto 1998 relativo alla costituzione delle RSU nei comparti della P.A., la RSU ha il carattere di organismo autonomo, protetto dagli strumenti di garanzia stabiliti dal titolo III dello St. Lav..
L'unica regola prevista dall'accordo quadro implica che le decisioni vengono assunte dalla stessa RSU a maggioranza dei componenti, per cui, ai fini dell'autonomia attribuita alla RSU nella realizzazione della sua funzione di rappresentanza dei lavoratori, nessun provvedimento può essere adottato dall'amministrazione datrice di lavoro in ordine alla composizione della RSU, pena l'illegittimità ai sensi dell'art. 28 St. Lav. (Cass. sez. lav. n. 7604/2008).
Nella medesima pronuncia la Suprema Corte ha anche precisato che, indipendentemente dalle fattispecie di incompatibilità e dal contenuto della previsione relativa alla sostituzione di componenti della RSU, ogni ingerenza dell'amministrazione nella composizione di tale rappresentanza è lesiva della libertà sindacale, in quanto, per la configurabilità della fattispecie vietata dall'art. 28 St. Lav., non è necessario l'accertamento di uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, ma è sufficiente che il comportamento denunciato leda oggettivamente in maniera illegittima gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali.
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