Il rapporto fra giustizia penale e mezzi di informazione è da sempre complesso perché crocevia di interessi confliggenti, non facilmente contemperabili. Negli ultimi anni, però, a causa di una degenerazione delle due realtà, tale rapporto ha assunto il volto di un leviatano che nell'uso giornalistico e sociologico viene chiamato “processo mediatico”.
Il processo mediatico e i valori in gioco
La cronaca giudiziaria ha registrato una involuzione dovuta al passaggio dalla stampa fisica a quella virtuale, a cui si è accompagnato un peggioramento qualitativo dell'informazione. Proseguendo un certo modo di fare giornalismo, scandalistico e giustizialista, inaugurato da alcuni programmi televisivi, l'avvento di internet ha peggiorato il fenomeno. Le notizie sono diventate liberamente, costantemente e istantaneamente accessibili a chiunque. Il lettore medio si è dimostrato sempre più acritico e pigro, e i suoi tempi di attenzione sempre più ristretti. Le notizie si sono adeguate ai lettori divenendo facilmente reperibili (spesso raggiungendo il lettore, piuttosto che l'inverso), presentate in termini sintetici e semplici, ma soprattutto spettacolari, capaci di tenere alta la breve e fragile attenzione del lettore. È orami costume, quindi, sposare una tesi, di regola quella accusatoria, fin dal titolo, che deve essere sensazionale, e poi descriverla in modo acritico, quasi come se fosse l'unica verità possibile. In un circolo vizioso inarrestabile, il passo verso chi da un titolo deduce sempre e comunque una verità è stato breve.
Dal canto suo, la giustizia penale sconta una cronica lentezza e una inefficienza dei filtri processuali che negli anni ha prodotto, in una diabolica sinergia negativa, un numero elevatissimo (stimato intorno al 50%) di esiti assolutori, che arrivano ad anni di distanza dall'inizio del procedimento, che, di regola, dà avvio anche alla notizia giornalistica.
È sotto gli occhi di tutti l'effetto perverso derivante dall'interazione dei due fenomeni: alla collettività viene fornita una notizia iniziale, coeva, se non addirittura anticipatrice, rispetto alla notitia criminis, che forma nei lettori un convincimento, spesso non corrispondente alla realtà processuale definitivamente accertata anni dopo.
Qui si innesta un ulteriore fenomeno patologico: la tendenza dei giornalisti a non dare, o a non dare con altrettanto risalto, la notizia dell'esito del processo. Questo principalmente per due motivi: l'incalzante rapidità dell'informazione, che rende le notizie un prodotto a rapidissimo deterioramento e lo scarso interesse per gli esiti assolutori da parte dei lettori.
A questo punto, la lesione della dignità della persona non è solo fatta, ma anche consolidata. Difficile scardinare l'opinione del lettore. Come scrive acutamente Giorgio Spangher, «se la gente si stupisce della sentenza vuol dire due cose: che il suo giudizio è stato precedentemente condizionato e che non ha assistito al dibattimento».
Sullo sfondo di questo desolante scenario non stanno solo i valori dell'identità personale, della dignità, dell'informazione, della cronaca, che riguardano il tema dell'oblio. Il processo mediatico calpesta anche la presunzione di innocenza (che non è solo regola di giudizio, ma è anche regola di trattamento) e rischia di condizionare la neutralità di giudizio dei magistrati.
Sui rapporti fra processo penale e cronaca giudiziaria è dapprima intervenuto il diritto europeo con la direttiva n. 343 del 2016, proprio per il rafforzamento della presunzione di innocenza. Il legislatore interno, poi, con il d.lgs. n. 188/2021, nel dare attuazione alla direttiva, per quanto qui interessa, ha vietato all'autorità pubblica di indicare, nelle dichiarazioni ufficiali, il soggetto sottoposto a procedimento come colpevole prima della sua condanna definitiva, ha stabilito che sia il Procuratore della Repubblica (o un magistrato del suo ufficio da lui delegato) a mantenere i rapporti con gli organi di informazione e ha limitato il potere del Pubblico Ministero di desecretare gli atti di indagine ai soli casi in cui risulti strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini.
La disciplina dell'oblio introdotta dalla riforma Cartabia
Venendo più specificatamente all'oblio, nel senso di legittima aspettativa della persona coinvolta in un procedimento penale ad essere dimenticata dall'opinione pubblica e rimossa dalla memoria collettiva, la legge delega sulla riforma del processo penale (art. 1, comma 25, l. n. 134/2021) aveva autorizzato il Governo a modificare le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale in materia di comunicazione della sentenza prevedendo che «il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l'emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell'Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all'oblio degli indagati o imputati».
La delega è stata attuata con l'art. 41, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 150/2022, che ha inserito nelle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di rito l'art. 64-ter, rubricato «Diritto all'oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini».
In base alla nuova disciplina, la persona nei cui confronti sono stati pronunciati una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero un provvedimento di archiviazione può richiedere (a) che sia preclusa l'indicizzazione o (b) che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, ai sensi e nei limiti dell'art. 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 (GDPR).
Resta fermo quanto previsto dall'art. 52 d.lgs. n. 196/2003 (Codice Privacy) che consente alla parte di chiedere l'oscuramento delle proprie generalità nei provvedimenti giudiziari.
A seguito della richiesta dell'interessato è previsto un obbligo di annotazione da parte della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, il cui contenuto varia a seconda che si tratti di richiesta di preclusione dell'indicizzazione oppure di richiesta di deindicizzazione.
Nel caso di richiesta volta a precludere l'indicizzazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone e sottoscrive la seguente annotazione, recante sempre l'indicazione degli estremi dell'art. 64-ter disp. att. c.p.p.: «Ai sensi e nei limiti dell'articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, è preclusa l'indicizzazione del presente provvedimento rispetto a ricerche condotte sulla rete internet a partire dal nominativo dell'istante».
Nel caso di richiesta volta ad ottenere la deindicizzazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone e sottoscrive la seguente annotazione, recante sempre l'indicazione degli estremi dell'art. 64-ter disp. att. c.p.p.: «Il presente provvedimento costituisce titolo per ottenere, ai sensi e nei limiti dell'articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, un provvedimento di sottrazione dell'indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell'istante».
È bene chiarire subito che (a) rimangono del tutto inalterate le competenze in materia del Garante per la protezione dei dati personali e (b) la tutela contro l'indicizzazione non riguarda il provvedimento o la sentenza in sé, ma i dati personali dell'interessato ivi contenuti.
La disciplina in esame configura, a ben vedere, due forme di tutela del diritto all'oblio. La prima è racchiusa nel divieto di indicizzazione e vale a monte, quale tutela preventiva, di tipo cautelare, mentre la seconda è costituita dalla deindicizzazione e opera a valle, come rimedio successivo, di tipo demolitorio o rimediale.
Va rilevato, però, che il Governo era stato delegato ad introdurre un'unica forma di tutela: la richiesta di delisting dei dati relativi al procedimento penale a cui si riferisce il provvedimento, già eventualmente oggetto di divulgazione.
Il legislatore delegato ha invece previsto anche una tutela di tipo preventivo, cautelare, inibitorio, volta ad impedire la indicizzazione del provvedimento.
Sembra palesarsi, quindi, un possibile eccesso di delega, trattandosi di previsione del tutto autonoma, che peraltro, come spiegherò meglio più avanti, appare estranea alla ratio dell'oblio inteso in senso tradizionale.
I provvedimenti che danno diritto alla tutela
Altro correttivo rispetto alla delega si coglie analizzando i provvedimenti che consentono di attivare le tutele.
In ordine all'archiviazione, il legislatore delegante aveva fatto riferimento al solo decreto, mentre il legislatore delegato ha esteso la tutela a qualsiasi provvedimento di archiviazione, dunque anche le ordinanze.
Si tratta di una scelta condivisibile, non essendo ragionevolmente giustificabile una disparità di trattamento fra le due ipotesi; anzi, l'ordinanza, essendo emessa all'esito di un contraddittorio camerale, può essere un provvedimento più ponderato e quindi più “meritevole” nell'ottica dell'oblio. Dunque, un rispetto pedissequo della delega avrebbe esposto a censure di legittima costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza.
Per quanto riguarda, invece, le sentenze, non ci si è limitati a quelle di assoluzione, ma si è allargato alle sentenze di proscioglimento, categoria che include non solo le prime, che ne costituiscono una species, ma anche quelle di improcedibilità dell'azione penale (mancanza di querela, morte del reo, estinzione del reato).
L'intento, secondo la relazione illustrativa al decreto legislativo, è quello di armonizzare la previsione con le sentenze di non luogo a procedere, che, stando alla delega, dovevano dare diritto alla tutela a prescindere dalla formula terminativa, dunque anche in caso di improcedibilità dell'azione penale. Tuttavia, va rilevato che non per tutte le sentenze di proscioglimento ricorrono ragioni per contrarre il diritto di cronaca (ma anche di informazione) in favore del diritto all'oblio. Dunque, da un lato, sarebbe stato forse più opportuno differenziare, ma, dall'altro, a fronte di una previsione indistinta di tutte le sentenze di non luogo a procedere, una distinzione fra le sentenze epilogative del giudizio avrebbe rischiato di creare un vulnus all'art. 3 Cost.
I contenuti delle tutele
Innanzitutto, occorre rilevare che la nuova disciplina non fornisce indicazioni di tipo procedurale.
Dal tenore della norma va escluso che siano ammissibili iniziative officiose o automatismi da parte della cancellaria. Occorre che la parte interessata (l'indagato destinatario di un provvedimento di archiviazione o l'imputato nei cui confronti sia stata emessa una sentenza di non luogo a procedere o di improcedibilità) formuli una richiesta scritta depositandola (anche in forma telematica) nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento (anche se non vedo motivi per precludere alla parte di formulare la richiesta già in sede di conclusioni).
L'uso dell'imperativo presente non lascia dubbi sul fatto che non vi sia discrezionalità nell'accoglimento dell'istanza.
Il riferimento esclusivo al cancelliere e l'assenza di discrezionalità inducono a ritenere che l'istanza vada indirizzata alla cancelleria e non richieda un vaglio preventivo, né un provvedimento decisionale da parte del giudice.
Per quanto riguarda gli effetti, sembra scorgersi una differenza fra l'inedita tutela preventiva e la tradizionale tutela successiva.
Confrontando il tenore letterale delle due disposizioni («è preclusa l'indicizzazione del presente provvedimento» recita il comma 2; «il presente provvedimento costituisce titolo per ottenere un provvedimento di sottrazione all'indicizzazione», recita il comma 3) sembrerebbe che, rispetto alla prima misura di tipo inibitorio, sia precluso qualsiasi potere decisionale da parte del destinatario, che ha l'obbligo di adottare misure idonee a sottrarre il provvedimento all'indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell'istante. Sul punto ritornerò a breve.
Rispetto al soggetto a cui è destinata l'inibitoria, occorre premettere che di regola la richiesta di delisting è indirizzata al motore di ricerca che ha raccolto e analizzato i dati e li ha indicizzati in base da determinati fattori. È lui il responsabile del trattamento ed è naturale che sia lui a fare la procedura inversa, ossia eliminare dai risultati l'informazione che si vuole oscurare.
Nel caso, invece, di inibizione all'indicizzazione, si interviene in via preventiva, in un momento in cui il dato che si vuole oscurare non è stato ancora posizionato nel motore di ricerca. In questo caso è il titolare della pubblicazione, il sito-sorgente, colui che diffonde l'informazione (il provvedimento liberatorio) a dover impedire il processo di indicizzazione.
Qui non è solo un problema tecnico, di inversione dei compiti, ma la novità è anche concettuale. Per definizione il diritto all'oblio è il diritto ad essere dimenticati e ciò presuppone una previa conoscenza di quello che deve essere dimenticato. Nel caso in esame, invece, si interviene sul diritto di cronaca e di informazione limitando la diffusione su internet della notizia al fine di ridimensionare la visibilità telematica dell'interessato, che rappresenta un aspetto funzionale del diritto all'identità personale, cui pure è riconducibile il diritto all'oblio. Lo stesso Garante della privacy, nel suo parere sullo schema di decreto, pur ritenendo che anche la preclusione all'indicizzazione rientri fra le forme di tutela del diritto all'oblio, ha criticato il richiamo all'art. 17 del codice privacy che disciplina il diritto alla cancellazione del dato, ritenendo tale diritto poco compatibile con una misura a carattere inibitorio e, come tale, preventiva. In effetti, il diritto alla cancellazione presuppone una previa indicizzazione. È evidente, dunque, che la previsione appare poco compatibile con una misura di carattere inibitorio e, come tale, preventivo.
È opportuno rimarcare che l'inibitoria in esame non vieta la pubblicazione della notizia, ma ne limita la visibilità telematica precludendo un accesso ad essa tramite motori di ricerca generalisti.
Lascia perplessi l'assenza di discrezionalità da parte del destinatario dell'inibitoria. L'esperienza dimostra che l'oblio è costantemente monitorato dal garante e dall'autorità giudiziaria e richiede delicati bilanciamenti e contemperamenti di interessi contrapposti. L'obbligo di non indicizzare sempre e comunque, a fronte di una ponderazione degli interessi in gioco che pare rimanere invece per la deindicizzazione (v. infra), desta un dubbio di legittimità costituzionale sia per l'ingiustificata disparità di trattamento fra rimedio ex ante e rimedio ex post, sia perché la tutela preventiva si fonda su una presunzione assoluta di prevalenza del diritto all'oblio sugli interessi contrapposti.
La seconda ipotesi di tutela è meno problematica perché è strutturata secondo il modello classico di tipo rimediale. Essa consiste nella richiesta di deindicizzazione, cioè di togliere dai risultati dei motori di ricerca generalisti i contenuti relativi al procedimento penale conclusosi con il provvedimento favorevole. Scopo della tutela è quello di rendere più difficoltoso il reperimento di notizie precedentemente divulgate e relative a quel procedimento.
Il riferimento all'art. 17 GDPR e il tenore letterale della disposizione (il poter costituire titolo per ottenere un provvedimento di sottrazione dell'indicizzazione) inducono a ritenere che i destinatari del titolo mantengano una discrezionalità nel darvi attuazione, potendo e dovendo bilanciare il diritto all'oblio con gli altri interessi in gioco (diritto all'informazione e diritto di cronaca, in primis). Il Garante, nel suo parere sullo schema di decreto, ha parlato di presunzione relativa di fondatezza dell'istanza. Dunque, l'apposizione dell'annotazione è atto dovuto per la cancelleria, ma non determina necessariamente il risultato della deindicizzazione. Rimangono ferme anche le competenze del Garante e dell'autorità giudiziaria in relazione alla decisione adottata dal destinatario della richiesta di deindicizzazione. In sostanza, poco cambia rispetto all'assetto previgente.
Va detto che la novella non contempla ipotesi che il Garante, nella sua prassi, assume come parametri rilevanti ai fini della decisione in favore dell'oblio. Per esempio, non si è data rilevanza alle sentenze di condanna che abbiano riconosciuto all'imputato il beneficio della non menzione nel certificato del casellario giudiziale. Osserva il Garante che «il beneficio in tal modo riconosciuto, finalizzato a limitare la conoscibilità della condanna subita da un determinato soggetto, verrebbe, di fatto, vanificato ove fosse consentito al gestore di un motore di ricerca di trattare ulteriormente tale dato attraverso la reperibilità in rete di esso in associazione del nominativo dell'interessato, pregiudicando così la sfera giudica di quest'ultimo».
Alcune criticità
Qualche osservazione deve essere fatta in merito all'adeguatezza dello strumento della deindicizzazione.
Come detto, la tutela inibisce la possibilità di trovare, tramite motori di ricerca generalisti, informazioni su un procedimento conclusosi con il provvedimento positivo oggetto di annotazione exart. 64-bis disp. att. c.p.p. «rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell'istante».
La notizia non scompare da internet, ma è più difficile trovarla perché non vi si può risalire digitando il nome dell'interessato in un motore di ricerca generalista. Tuttavia, per accedere a tale notizia sarà sufficiente modificare/estendere le parole chiave di ricerca da inserire nel motore di ricerca oppure andare direttamente sul sito sorgente e usare il motore di ricerca interno inserendo il nominativo dell'interessato.
Tenuto conto che il provvedimento che dà accesso alla tutela in esame ha un contenuto positivo per l'interessato, il suo diritto all'oblio (ma anche quello all'identità personale e alla riservatezza) forse sarebbe più adeguatamente tutelato affiancando alla deindicizzazione, la contestualizzazione e l'aggiornamento della notizia, a meno che il sito-sorgente non vi abbia già provveduto. Così chi si ostinasse a ricercare informazioni su una data vicenda aggirando la deindicizzazione nei modi indicati sopra scoprirebbe anche come si è conclusa.
Va detto che, ad esclusione della sentenza che accoglie la richiesta di riesame, il codice di rito contempla solo la pubblicazione della sentenza di condanna (come pena accessoria o come riparazione del danno). Tuttavia, alcuni autori, come Vittorio Manes, sostengono che dovrebbe essere prevista la possibilità per il giudice di ordinare la pubblicazione della sentenza di assoluzione e di ordinare pure – ai titolari dei siti web, dei giornali e dei relativi archivi, ai blog e forum di informazione, ai motori di ricerca, ecc., eventualmente per il tramite dell'autorità Garante per la protezione dei dati personali che ha precipui poteri in merito – l'adeguata integrazione e/o rettifica del flusso informativo mediatico (magari originariamente “lecito” ma poi non più adeguato o pertinente), del dato storico non più attuale, ad evitare – per quanto possibile – una incessante e reiterata damnatio memoriae dell'assolto.
Per concludere, è opportuno rammentare che il diritto all'oblio nel processo penale, per come declinato e regolato dalla riforma Cartabia, riguarda la tutela di soggetti risultati estranei a fatti criminosi dei quali venivano inizialmente accusati. Vi è però anche un dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, in merito ad una diversa declinazione del diritto all'oblio, quella del diritto ad essere dimenticati delle persone condannate che abbiano scontato la loro pena. Qui, oltre ai valori che tradizionalmente vengono in rilievo nel diritto all'oblio, vi è l'esigenza, costituzionalmente imposta, che la pena tenda alla rieducazione del condannato. Non vi può essere rieducazione senza reinserimento sociale e non vi può essere reinserimento sociale se permane lo stigma della condanna anche dopo che questa ha esaurito i suoi effetti.
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La disciplina dell'oblio introdotta dalla riforma Cartabia