Amministrazione delle società di persone

Tiziana Cappelletti
05 Settembre 2017

All'interno delle società di persone, si distinguono il rapporto sociale e il rapporto di amministrazione: il primo individua tutte le prerogative (diritti, poteri, obblighi) del socio in quanto titolare di una quota sociale, mentre il secondo attribuisce al socio che sia anche amministratore i poteri gestori propriamente detti.
Inquadramento

All'interno delle società di persone, si distinguono il rapporto sociale e il rapporto di amministrazione: il primo individua tutte le prerogative (diritti, poteri, obblighi) del socio in quanto titolare di una quota sociale, mentre il secondo attribuisce al socio che sia anche amministratore i poteri gestori propriamente detti.

Principio generale in materia, derogabile statutariamente o per atto separato (Campobasso, Diritto Commerciale”, II, Diritto delle società, Torino, 2009, 95), è che l'amministrazione della società spetta a ciascun socio disgiuntamente (art. 2257 comma 1 c.c.). A questo principio si ricollega poi quello, anch'esso disponibile, per cui la rappresentanza generale della società spetta a ciascun socio amministratore (art. 2266 c.c.).

Dunque, fermi i principi generali, da un lato è possibile, se pattuito, che vi siano ab origine soci non amministratori e, dall'altro, non necessariamente la conclusione del rapporto di amministrazione comporta la cessazione anche del rapporto sociale, potendo quest'ultimo proseguire il suo corso in capo al socio “ex amministratore”.

Il Codice civile, agli articoli 2257–2260 - dettati per la società semplice e applicabili anche alla società in nome collettivo in mancanza di disposizioni per essa dedicate a questa materia (art. 2293 c.c.) - ha disciplinato il rapporto di amministrazione sotto tre aspetti

(i) il carattere congiunto o disgiunto del rapporto di amministrazione medesimo

(ii) la revoca della facoltà di amministrare

(iii) i diritti e degli obblighi degli amministratori.

Nel successivo capo IV, dedicato alle società in accomandita semplice, l'art. 1318 si occupa in particolare dei diritti e degli obblighi dei soci accomandatari e, quindi, dell'unica tipologia di socio della s.a.s. che può instaurare un rapporto di amministrazione e, all'art. 1319, della nomina e della revoca degli amministratori.

In quanto compatibili con le specifiche norme dettate per le s.a.s., anche a queste ultime sono applicabili i citati articoli 2257-2260 c.c., per il tramite del rinvio effettuato dall'art. 2315 c.c. alle disposizione relative alle s.n.c., a loro volta regolate dall'art. 2293 c.c.

Ciò premesso in via generale, si può esaminare il contenuto del rapporto di amministrazione nelle società di persone, sotto i vari aspetti nei quali si estrinseca l'attività di gestione dell'impresa, dedicando altresì attenzione alle peculiarità che assume nella società in accomandita.

Il rapporto di amministrazione nelle società di persone

Prima di analizzare le diverse modalità attuative della facoltà di amministrare le società di persone, delineate negli artt. 2257 e 2258 c.c. (amministrazione disgiuntiva/congiuntiva), è bene soffermarsi sulle peculiarità dei poteri gestori connessi alla titolarità della qualifica di amministratore, sotto forma di diritti e obblighi.

Innanzitutto, l'art. 2260 c.c. chiarisce che il complesso dei poteri gestori di cui sono titolari gli amministratori si delinea sullo schema del rapporto di mandato, disciplinato agli artt.1703 e ss. c.c..

Il rinvio tra le due fattispecie è stato stabilito dal legislatore, ma non tutte le norme dettate per il mandato sono applicabili tout court al rapporto di amministrazione delle società di persone, caratterizzato da proprie specificità.

Risulta dunque opportuna un'applicazione per estensione, e non diretta, delle norme di cui agli articoli 1703 e ss. c.c. al rapporto di amministrazione sociale (F. Galgano, Trattato di diritto civile, volume V, Padova, 2011, 88 e ss.).Ad esempio,sarà applicabile anche agli amministratori l'art. 1717 c.c., ma non l'art. 1711.

Non bisogna infatti dimenticare che l'attività gestoria degli amministratori si basa sul principio della rappresentanza organica, per cui l'amministratore è organo (anche rappresentativo) della società e ripete i suoi poteri del contratto di società medesimo.

Sulla base degli esempi ora evidenziati, e molti altri se ne potrebbero fare, emerge dunque che, prima di ritenere applicabile al rapporto di amministrazione sociale una norma dettata per il mandato, è opportuno analizzarla calandola nel contesto delle peculiarità dei poteri gestori degli amministratori, infine adattandola, se necessario, a tale contesto (Cass. civ., Sez. I, 19.07.86, n. 4648).

Chiarita quindi la natura giuridica del rapporto di amministrazione, si può individuare la sua fonte.

L'amministratore viene designato attraverso la sua nomina espressa o nel contratto sociale o all'interno di un separato atto. In ogni caso, quindi, la fonte della facoltà di amministrare è contrattuale.

Affinchè il rapporto di amministrazione possa dirsi instaurato, non è necessaria un'accettazione espressa, formale, da parte dell'amministratore designato con la nomina, potendosi il contratto perfezionare anche per fatti concludenti, attraverso l'inizio fattivo dell'esercizio dei poteri gestori.

A seguito della nomina e la sua accettazione, formale o informale, all'amministratore competono dunque poteri, diritti e obblighi.

I poteri e i diritti dei soci amministratori

In primis, viene senz'altro in considerazione la facoltà di amministrare la società, potendo l'amministratore a tal fine compiere tutti gli atti, sia di ordinaria che di straordinaria amministrazione, a ciò necessari.

Poiché, nelle società di persone, gli amministratori sono, in generale, anche soci, il primo contrappeso al loro potere gestorio deriva dal fatto che essi rispondono personalmente ed illimitatamente delle obbligazioni che, come amministratori, contraggono per la società.

Ciò detto, comunque l'amministratore, nel compimento degli atti di gestione sociale, soggiace a limiti tipici di quell'attività:

  • il fine della realizzazione dell'oggetto sociale e, dunque, il limite dell'idoneità e dell'adeguatezza degli atti compiuti a tal fine
  • l'impossibilità di modificare il contratto sociale (art. 2252 c.c.).

Il diritto/potere di amministrare è esercitato dagli amministratori a titolo gratuito, salvo diversa disposizione, qualora l'atto di nomina sia contenuto nel contratto sociale (F. Di Sabato, Diritto delle Società, III ed. agg., Giuffrè 2011, 124). In questo caso, infatti, si presume che con l'atto costitutivo siano stati disciplinati per intero anche gli interessi di contenuto “economico” di tutti i soci (anche amministratori), come ad esempio la misura di partecipazione di ciascuno agli utili (e alle perdite), l'entità dei conferimenti, ecc. Si può allora ragionevolmente ritenere che, nel caso di nomina avvenuta nel contratto sociale, si sia ivi già provveduto, ad esempio, a disciplinare i rispettivi diritti di partecipazione agli utili tenendo conto dell'incarico di amministrazione in ipotesi conferito ad uno o più soci (previsione di una maggiore partecipazione agli utili per i soci amministratori, quale compenso). In questo senso si tratta dunque, in realtà, di una gratuità non effettiva.

Nel caso, invece, di nomina dell'amministratore con separato atto, si presume, analogamente al rapporto di mandato, che sussista un diritto al compenso per l'amministratore, generalmente pattuito nel contratto – autonomo - di nomina. In mancanza di pattuizione, al fine della quantificazione del compenso, può applicarsi l'art. 1709 c.c.

Sempre dalla disciplina sul mandato, è ricavabile un altro diritto del socio amministratore: quello di rinunciare all'incarico,come previsto dall'art. 1727 c.c.

La rinuncia all'incarico di amministratore non fa venir meno la qualifica di socio trattandosi, come si è detto, di rapporti, quello di amministrazione e quello sociale, che corrono paralleli ma si mantengono distinti.

Ci si potrebbe allora domandare se, in caso di rinuncia all'incarico, l'amministratore abbia diritto, ex art. 1720 c.c., al rimborso delle anticipazioni/spese effettuate nell'interesse della società nell'esecuzione dell'incarico, oltre al risarcimento di eventuali danni subiti a causa dello svolgimento dello stesso (oltre al diritto al proprio compenso se previsto).Si ritiene che la previsione di cui all'art. 1720 debba essere coordinata con l'art. 1727 c.c., che prevede invece sia il mandatario che rinuncia all'incarico senza giusta causa a dover risarcire i danni cagionati al mandante con la propria rinuncia immotivata. Interpretando coerentemente tra loro le disposizioni in questione, se ne deduce che il diritto al rimborso delle anticipazioni e delle spese effettuate nell'interesse della società nell'esecuzione dell'incarico, oltre al risarcimento di eventuali danni subiti a causa dello svolgimento del mandato, sorga in capo al socio amministratore che rinuncia all'incarico solo qualora vi sia stata una giusta causa di rinuncia.

Peculiare connotazione del contenuto del rapporto di amministrazione è data dalla discrezionalità nello svolgimento dell'incarico. Infatti, pur conformandosi al rapporto di mandato, con le dovute precisazioni anzidette, la facoltà gestoria dell'amministratore è connotata dalla mancanza di una predeterminazione delle caratteristiche, delle modalità esecutive, dei limiti dell'incarico conferito.

Tale caratteristica persiste anche nel caso di nomina degli amministratori con atto separato dal contratto sociale e, sotto questo aspetto, l'incarico del socio amministratore si differenzia da quello del mandatario rispetto al quale, invece, sono espressamente e rigorosamente regolate nell'atto di conferimento dell'incarico le caratteristiche e i limiti del mandato, oltre i quali il mandatario non può andare pena la propria responsabilità.

Al socio amministratore compete invece un'ampia discrezionalità nell'esercizio delle proprie prerogative gestorie, con il solo limite dell'oggetto e dello scopo sociale.

In merito, il Tribunale di Treviso, con pronuncia del 13 febbraio 2017, n. 315, ha affermato: “Riguardo alla possibilità da parte del giudice di sindacare decisioni imprudenti o addirittura irragionevoli degli amministratori si osserva che all'amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico. Una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell'amministratore, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Donde consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e le circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, e quindi l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità (Cass. n. 3049, 12 febbraio 2013).”

Un altro limite idoneo ad arginare il potere discrezionale del socio amministratore è rappresentato dal diritto/potere di opposizione dei quali sono titolari gli altri soci amministratori, ai sensi dell'art. 2257 c.c., come si dirà meglio nel prosieguo (v. par. 2).

In mancanza di ostacoli legislativi e concettuali, si ritiene che i diritti e i poteri connessi alla facoltà di amministrare la società di persone possono essere delegati da parte dei soci amministratori a terzi attraverso ad es. la preposizione institoria di cui all'art. 2203 c.c., la cui procura può essere rilasciata dall'amministratore a un terzo oppure ad un socio (C. Conforti, Le Società di persone: amministrazione e controlli, Giuffrè, 2009, 206 e ss.), sempre che tale facoltà di delega sia prevista nel contratto sociale. Devono però essere riconosciuti dei limiti finalizzati ad evitare che i soci amministratori si spoglino completamente, di fatto, delle proprie prerogative – e dei connessi obblighi e responsabilità - affidandole a terzi, o ad altri soci, che la società non ha investito dei poteri gestori. La titolarità della facoltà di amministrare deve pur sempre rimanere in capo agli amministratori nominati dalla società. Questi ultimi, infatti, mantengono il potere di interferire nell'espletamento della delega da parte del preposto, di opporsi con effetto ostativo al compimento di operazioni da parte del preposto, e altresì di revocare in qualsiasi momento la delega, senza la necessità di una giusta causa.

Condizione, dunque, affinchè la delega sia validamente e correttamente conferita è che la titolarità del potere gestionale permanga comunque sempre in capo all'amministratore delegante, il quale rimane perciò responsabile anche per il mancato impedimento di atti dannosi per la società compiuti dal preposto/delegato.

Infine, un cenno sul potere degli amministratori di vendere beni sociali: il discrimine è dato dalla circostanza che l'attività di alienazione dei beni sociali rientri o meno nell'oggetto sociale (Cass. civ., Sez. II, 14 dicembre 1989, n. 5621).

Gli obblighi dei soci amministratori e le conseguenze della loro violazione: la giusta causa di revoca

Quanto agli obblighi gravanti sui soci amministratori, in via generale essi hanno il dovere di compiere tutti gli atti necessari alla realizzazione dell'oggetto sociale, nel rispetto della legge e del contratto sociale, con la diligenza del “buon amministratore medio”.

Gli amministratori devono adempiere al loro incarico in modo diligente, in buona fede, con lealtà e correttezza, nel rispetto del rapporto fiduciario che si instaura tra società-soci e amministratore al momento della nomina. Al riguardo, la Suprema Corte (Cass., sez. I, 17 gennaio 2007, n. 1045) ha precisato che l'attore che promuove un'azione di responsabilità sociale nei confronti dell'amministratore di una società di persone denunciando comportamenti che non sono, in sé, vietati dalla legge o dallo statuto, ha l'onere di provare non soltanto il compimento delle condotte censurate, ma anche gli elementi dai quali sia possibile dedurre la violazione dei doveri di lealtà e di diligenza: “Non v'è dubbio che, in caso di azione di responsabilità promossa contro un amministratore sociale, competa all'attore l'onere di dimostrare l'illiceità dei comportamenti che egli addebita all'amministratore convenuto. Ma quando, come è frequente, non si tratta di comportamenti in sè vietati dalla legge o dallo statuto sociale, bensì di attività commerciali naturalmente rientranti nella gestione dell'impresa, la loro pretesa illiceità dipende dal contesto in cui essi sono stati compiuti. E' solo da tale contesto che può ricavarsi se l'amministratore avrebbe dovuto invece astenersi da quei comportamenti, o attuarli in altra forma, perchè così gli imponevano il dovere di lealtà, essenzialmente riassunto nel precetto di non agire in conflitto di interessi con la società da lui amministrata, o quello di diligenza, consistente nell'adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati”.

Tra gli obblighi specifici, ad esempio, correlato al potere di vendere i beni sociali è l'obbligo dell'amministratore di ritrasferire alla società i beni acquistati in nome proprio ma per conto della società, così come emerge anche dall'art. 1706, comma 2, c.c.

Vi è poi una serie di obblighi dell'amministratore la violazione dei quali costituisce, oltre che inadempimento al proprio incarico e infedeltà al contratto sociale, anche giusta causa di revoca, proprio per la gravità dell'inadempimento, nonché fonte di responsabilità.

Il tema degli obblighi dell'amministratore si intreccia infatti inevitabilmente con quello della revoca dell'amministratore e della sua responsabilità nei confronti di chi lo ha nominato.

Esempi, non esaustivi, di violazioni degli obblighi/doveri dell'amministratore che possono configurare una giusta causa di “revoca della facoltà di amministrare”, così come previsto dall'art. 2259 c.c. (e, quando determinano un danno alla società, l'obbligo di risarcirlo: v. postea), sono i seguenti:

- appropriazione indebita degli utili della società, iscrizione in bilancio di crediti inesistenti, redazione del bilancio al di fuori delle norme contabili, violazione dell'obbligo di tenuta della contabilità, violazione del dovere di fornire una corretta e veritiera rappresentazione della situazione economica e finanziaria della società, commistione tra il patrimoni sociale e quello personale (da ultimo, Cass. civ., Sez. I, 01.10.14,n. 20723). Queste condotte, peraltro, per la loro gravità, sono idonee a giustificare altresì l'esclusione, ex art. 2286 c.c., del socio (amministratore) che le compia, in modo tale da comportare dunque la rottura oltre che del rapporto di amministrazione, anche di quello sociale, nonostante – come già evidenziato – i due rapporti corrano paralleli e separati.

- violazione dell'obbligo di predisporre e presentare agli altri soci il rendiconto della gestione; violazione degli obblighi informativi verso i soci non amministratori, non dando loro notizia dello svolgimento degli affari sociali; frapposizione di ostacoli all'esercizio del diritto/potere dei soci non amministratori di controllo sulla gestione sociale(artt. 2261,2320 comma 3 c.c.);

- violazione del divieto di concorrenza stabilito dall'art. 2301 c.c. per le società in nome collettivo in particolare ed espressamente;

- inadempimento all'obbligo di custodia, e tutela, dei beni di proprietà della società;

- violazione dell'obbligo di non agire in conflitto di interessi con la società.

Come chiarito dall'art. 2259 c.c., la sussistenza di una “giusta causa”, il cui onere della prova grava sulla società, è necessaria solo per la revoca dell'amministratore nominato con il contratto sociale.

Viceversa, in caso di nomina in atto separato, la revoca potrà avvenire anche in mancanza di giusta causa, conformemente alle norme sul mandato (artt. 1722 e ss. c.c.): in particolare, è necessaria la revoca all'unanimità di tutti soci, ex art. 1726 c.c.

La giurisprudenza ha chiarito che l'unanimità è richiesta anche per la revoca per giusta causa (Cass. civ., Sez. I, 12.06.09, n. 13761: “Benchè la questione sia controversa in dottrina, deve pertanto ribadirsi che unanimità e giusta causa sono sempre richieste congiuntamente per la revoca dell'amministratore nominato con il contratto sociale (Cass., sez. 1^, 12 giugno 1996, n. 5416). Tuttavia, anche quando concorda con la giurisprudenza nell'esigere sempre l'unanimità per la revoca ex art. 2259 c.c., comma 1, la dottrina esclude che sia richiesto il consenso dello stesso socio cui gli altri intendano revocare la facoltà di amministrare. E questa deroga al principio di unanimità viene giustificata con la considerazione che altrimenti risulterebbe inevitabile lo scioglimento della società”.

La revoca opera ex nunc e, in caso di inerzia della società oppure di disaccordo tra i soci, essa può essere giudizialmente richiesta,ex art. 2259 comma 3 c.c., anche da ciascun socio, con ordinaria citazione a giudizio. La revoca può altresì essere chiesta in via cautelare ex art. 700 c.p.c. (Cass., sent. n. 1900 del 1983; Trib. Padova, 13.7.2003, in Giur. Comm., 2005, II, 662; Trib. Napoli, 26.2.2003, Dir. Giust., 2004, 128; Trib. Napoli, 17.6.1992, Soc., 1992, 1386).

L'amministratore revocato per giusta causa potrà sempre agire in giudizio per ottenere l'accertamento dell'insussistenza della giusta causa di revoca, chiedendo il reintegro (anche ex art. 700 c.p.c) nelle proprie funzioni(C. Conforti, Le Società di persone: amministrazione e controlli, Giuffrè, 2009, 446).

Vi è inoltre da tener presente che, qualora la giusta causa di revoca dell'amministratore costituisca, al contempo, una grave inadempienza da parte del socio (amministratore)alle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale, può comportare anche l'esclusione del socio, andando a incidere negativamente sulla stessa qualità di socio, oltre che di amministratore: così si esprime il Tribunale Firenze, sez. III, con la sentenza del 16 marzo 2018, n. 813.

(Segue) la responsabilità dei soci amministratori

Verificatisi, dunque, gli inadempimenti agli obblighi appena citati, l'art. 2260 c.c. stabilisce che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società, indipendentemente dall'adozione di un sistema di amministrazione congiuntivo o disgiuntivo.

I presupposti della responsabilità sono:

  • il comportamento inadempiente dell'amministratore;
  • il danno subito dalla società;
  • il nesso causale tra inadempimento e danno.

La responsabilità del socio amministratore è sempre, in quanto derivante dagli atti di mala gestio, illimitata.

La responsabilità degli amministratori deve essere fatta valere dalla società attraverso l'esercizio della relativa azione, con termine di prescrizione quinquiennale a decorrere dal momento in cui essi non sono più in carica (termine sospeso) (Corte Costituzionale, sent. n. 322 del 24 luglio 1998).

Con l'azione di responsabilità, la società si adopera per reintegrare il patrimonio sociale danneggiato dalle condotte illegittime degli amministratori.

L'art. 2260 c.c. prevede l'esonero da responsabilità per gli amministratori che dimostrino di essere esenti da colpa: la prova de qua cambia, evidentemente, a seconda che la società abbia adottato un sistema di amministrazione disgiuntivo o congiuntivo.

Nel primo caso, l'esimente potrà così delinearsi:

  • la prova avrà ad oggetto un fatto negativo, e cioè la mancata conoscenza dell'atto dannoso compiuto da uno o più soci amministratori (prima e durante il suo verificarsi), con il limite del dovere di diligenza (media) e del dovere si vigilanza che grava su ogni amministratore rispetto alle operazioni compiute dagli altri, proprio sulla base del principio di responsabilità solidale ex lege, indipendentemente dal regime di amministrazione adottato (O. Cagnasso, “I singoli contratti: la società semplice”, Vol. 6 di Singoli contratti Trattato di diritto civile, Torino, 1998, 173; F. Santi, “Amministrazione e controlli”, Padova, 2.5.11, 229);
  • oppure, la prova della mancanza di colpa potrà essere desunta dal seguente fatto positivo: aver proposto l'opposizione ex art. 2257, comma 2, c.c., respinta dalla maggioranza dei soci;
  • ipotizzabile anche la dimostrazione che, se nel caso specifico era stata pattuita una ripartizione dei compiti tra gli amministratori, l'atto dannoso rientra nella sfera di competenze tipiche attribuite solo a quell'amministratore (V. Buonocore, Società in nome collettivo”, Volumi 2291-2312 di Il Codice civile: Commentario, Giuffrè, 1995, 128).

In caso di amministrazione congiuntiva, la dimostrazione della mancanza di colpa potrà essere fornita dall'amministratore attraverso la prova, ad esempio:

  • che l'atto dannoso è stato compiuto da un amministratore in via d'urgenza all'insaputa degli altri;
  • di aver manifestato il proprio dissenso in relazione all'atto dannoso;
  • di aver espresso un voto contrario se trattasi di amministrazione congiuntiva a maggioranza.

In merito alla legittimazione attiva all'azione sociale di responsabilità avverso l'amministratore colpevole, mentre è prevista ex lege quella in capo alla società, controversa risulta quella in capo a ciascun socio o alla maggioranza dei soci non amministratori (per la negativa: Cass., n. 3719/1981; Trib. Napoli, 19 novembre 1994, Dir. Giur., 1996, 431; Trib. Milano, 16 aprile 1992, Giur. It., 1993, I,2, 98. Per la positiva: Trib. Milano, 9 giugno 2005, Corr. Mer., 2005, 883; Trib. Milano, 11 settembre 2003, Giur. Comm, 2004, II 434; Trib. Alba, 10 febbraiio 1995, Soc., 1995, 828) .

Ormai pacifica la legittimazione ad agire dei soci e dei terzi per i danni che siano stati direttamente cagionati loro dai comportamenti degli amministratori (Cass. civ., Sez. I, 25 luglio 2007, n. 16416 : “Il collegio condivide l'orientamento espresso da questa Corte, secondo il quale l'art. 2260 c.c., nel concedere alla società di persone, quale ente munito di autonoma soggettività e di un proprio patrimonio, la facoltà di agire contro gli amministratori, per rivalersi del danno subito a causa del loro inadempimento ai doveri fissati dalla legge o dall'atto costitutivo, non esclude, in difetto di previsione derogativa, il diritto di ciascun socio di pretendere il ristoro del pregiudizio direttamente ricevuto in dipendenza del comportamento doloso o colposo degli amministratori medesimi, inapplicazione analogica dell'art. 2395 c.c., e in base alle disposizioni generali dell'art. 2043 c.c. (Cass. 10 marzo 1992, n. 2872; Cass., 13 dicembre 1995, n. 12772). Tuttavia l'azione individualmente concessa ai soci per il risarcimento dei danni loro cagionati dagli atti dolosi o colposi degli amministratori, di natura extracontrattuale, presuppone che i danni suddetti non siano solo il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio sociale, ma siano direttamente cagionati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori e dei sindaci, che tale comportamento abbiano reso possibile violando i loro doveri di controllo (Cass. 3 agosto 1988, n. 4817; 2 giugno 1989, n. 2685; 7 settembre 1993, n. 9385; 28 maggio 2004, n. 10271). Pertanto, il diritto alla conservazione del patrimonio sociale spetta alla società e non al socio come tale, il quale ha in materia un interesse, la cui eventuale lesione non può concretare quel danno diretto necessario per poter esperire l'azione individuale di responsabilità conto gli amministratori (Cass. 7 settembre 1993, n. 9385).”Cass. civ., sez. I, 13 gennaio 2004, n. 269; Cass. civ., Sez. I, 03 aprile 2007, n. 8359). Più di recente, Cass., sez. III, 30 maggio 2019, n. 14778: “La tesi dominante in giurisprudenza è che in tema di azioni nei confronti dell'amministratore di società, a norma dell'art. 2395 c.c., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell'azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall'amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l'ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l'azione, contrattuale, di cui all'art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi della L. Fall., art. 146 (Cass. 8458/2014; Cass. 2157/2016). La regola costituisce specificazione del principio per cui i soci di una società di capitali non hanno titolo al risarcimento dei danni che costituiscano mero riflesso del pregiudizio arrecato da terzi alla società, in quanto siano una mera porzione di quello stesso danno subito dalla (e risarcibile in favore della) stessa, con conseguente reintegrazione indiretta a favore del socio. (Cass. 27733/ 2013)”.

In particolare, Cass. civile, Sez. I, con sentenza del 25/01/2016, n. 1261, si è così espressa con riferimento al caso in cui l'amministratore di una s.n.c. non provveda a presentare il rendiconto, così come invece disposto dall'art. 2261 c.c., e a distribuire gli utili ai soci (art. 2262 c.c.): “Il socio di una società di persone può agire direttamente nei confronti dell'amministratore per farne valere la responsabilità extracontrattuale in virtù dell'applicazione analogica dell'art. 2395 c.c. e, ove sia dimostrata la mancata presentazione del rendiconto e la conseguente mancata percezione degli utili, deve ritenersi che il socio abbia fatto valere il danno subito in via diretta ed immediata”; “Nelle società di persone, se l'amministratore non presenta il rendiconto il socio - diversamente da quanto accade nelle società di capitali, ove occorre una delibera assembleare che ne autorizzi la distribuzione - non percepisce gli utili, subendo così, in via diretta ed immediata, un danno che, come tale, può invocare agendo per far valere la responsabilità extracontrattuale dell'organo amministrativo, ai sensi dell'art. 2395 c.c., ivi applicabile analogicamente, atteso che la società personale, ancorchè priva di autonoma personalità giuridica, costituisce un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci, sicché, anche con riguardo ad essa, è configurabile una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, alla stregua di quanto previsto in materia di società per azioni.”.

Con questa sentenza, la Suprema Corte chiarisce inoltre che l'amministratore di società di persone può essere citato direttamente in giudizio dal socio e la società non è litisconsorte necessario. Il diritto del socio a citare l'amministratore si basa sulla circostanza per cui, nelle società personali, il diritto del socio di percepire gli utili nasce con l'approvazione annuale del bilancio e non discende da una apposita delibera assembleare, come invece accade nelle società di capitali: il mancato versamento degli utili costituisce dunque un'omissione di atto spettante all'amministratore e l'azione corrispondente può essere attivata direttamente nei suoi confronti e non necessita del litisconsorzio necessario della società.

Quanto ai creditori sociali, la dottrina è divisa tra coloro (G. Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Giuffrè, 1956, 229 ss.) che ritengono possibile l'azione solo in via surrogatoria, ex art. 2900 c.c., ai sensi dell'art. 2394 c.c. (esteso per analogia anche alle società di persone) e coloro (F. Galgano, “Le società in genere, le società di persone”, Giuffrè, 2007, 386 in nota 61) che la consentirebbero anche in via autonoma.

Opportuno sottolineare, infine, che, per pacifica giurisprudenza, la responsabilità di cui all'art. 2260 c.c. si estende anche agli amministratori “di fatto”.

In tema di fallimento del socio di società di persone, si mostrano interessanti i seguenti principi enucleati dalla Corte d'Appello di Venezia, Sez. I civile, nella sentenza n. 280 del 30 gennaio 2020, con riferimento all'art. 69 l.fall.:

i) il presupposto oggettivo di cui all'art. 69 l.f.all consiste nell'effettivo esercizio di un'impresa commerciale da parte del socio all'epoca del compimento dell'atto revocando, presupposto che non può essere automaticamente desunto dal possesso della qualifica di socio illimitatamente responsabile e deve essere specificamente dimostrato dal curatore (sul punto, la Corte d'Appello di Venezia richiama la precedente pronuncia Cass. n. 14681 del 6 giugno 2018):

ii) i soci di società di persone, pur essendo illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali, non rivestono la qualità di imprenditori commerciali (Cass. civ., Sez. I, sentenza del 17 febbraio 2006 n. 3535; Cass. civ., Sez. I, sentenza del 12 aprile 1984 n. 2359);

iii) le norme di diritto societario danno vita a un regime dotato di proprie peculiari caratteristiche, per le quali la responsabilità illimitata non è conseguenza del gestire un'impresa, individualmente o congiuntamente ad altri, ma del modo in cui lo si fa, in rapporto alle specifiche disposizioni dettate in proposito dal legislatore;

iv) la fallibilità del socio è del tutto indipendente dall'essere egli coinvolto personalmente nella gestione dell'impresa e dipende invece soltanto dall'essere stata o meno l'impresa gestita secondo specifiche regole di garanzia per i creditori che condizionano il beneficio della responsabilità limitata e dunque dal fatto che operi o meno il meccanismo legale della limitazione di responsabilità per le obbligazioni sociali;

v) le norme che prevedono la responsabilità solidale e illimitata per le obbligazioni sociali in caso di insolvenza della società, debitrice principale, non comportano la trasformazione ipso jure del socio in imprenditore individuale, di modo che rimane a carico del fallimento attore in revocatoria la dimostrazione del presupposto oggettivo della fattispecie speciale di cui al menzionato art. 69, consistente appunto nell'esercizio di un'impresa commerciale da parte del fallito (così, Cass. civ., Sez. I, sentenza n. 14681/2018 sopra citata; Cass. Civ., Sez. I, sentenza del 14 marzo 2014 n. 6028; Cass. Civ., Sez. I, sentenza del 2 aprile 2012 n. 5260).

Le novità introdotte dal Codice della Crisi

Da un punto di vista legislativo, con il Codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza “CCII”, introdotto con il D.lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019, in attuazione della Legge Delega n. 155 del 19 ottobre 2017 con la quale il Governo è stato delegato a riformare la disciplina della crisi d'impresa e dell'insolvenza, sono state apportate considerevoli modifiche al codice civile anche per quanto concerne gli assetti societari sia delle società di persone che di capitali.

Alcune delle modifiche introdotte sono già entrate in vigore il 16 marzo 2019, mentre altre sono state da ultimo differite al 1 settembre 2021. Ebbene, con particolare riferimento alle società di persone, l'art. 382 del CCII, ha apportato modifiche sia all'art. 2288 c.c., che disciplina l'esclusione di diritto del socio nella società semplice, sia all'art. 2308 c.c., che disciplina una particolare causa di scioglimento della società in nome collettivo.

Per quanto riguarda la società semplice, l'art. 382, comma 1, del CCII ha disposto la sostituzione del comma 1 dell'art. 2288 c.c. (“E' escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito”) con il seguente: “E' escluso di diritto il socio nei confronti del quale sia stata aperta o estesa la procedura di liquidazione giudiziale secondo il codice della crisi e dell'insolvenza”.

Quanto alla s.n.c., il comma 2 dell'art. 382 del CCII ha disposto la sostituzione del comma 1 dell'art. 2308 c.c. (“La società si scioglie, oltre che per le cause indicate dall'art. 2272, per provvedimento dell'autorità governativa nei casi stabiliti dalla legge e, salvo che abbia per oggetto un'attività non commerciale, per la dichiarazione di fallimento”) con il seguente: “LA società si scioglie, oltre che per le cause indicate dall'art. 2272, per provvedimento dell'autorità governativa nei casi stabiliti dalla legge e per l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale”.

Entrambe le modifiche normative ora descritte entreranno in vigore dal 1 settembre 2021.

E', invece, già entrato in vigore dal 16 marzo 2019 l'art. 377, comma 1, del CCII il quale ha sostituito il comma 1 dell'art. 2257 c.c., che disciplina l'amministrazione disgiuntiva nella società semplice, con il seguente: “La gestione dell'impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all'articolo 2086, comma 2, e spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale. Salvo diversa pattuizione, l'amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri”. La modifica normativa richiama l'art. 2086 c.c., a sua volta modificato dall'art. 375, comma 2, CCII (anch'esso già in vigore dal 16.03.2019) attraverso l'aggiunta di un comma 2 di questo tenore: “L'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile, adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Ebbene, coordinando tra loro le norme ora descritte così come di recente modificate dal legislatore, si evince che quest'ultimo ha inteso gravare gli amministratori delle società di persone, ai quali spetta in via esclusivala gestione dell'impresa, di particolari, cogenti, doveri, delineati nel nuovo art. 2086 c.c., consistenti nell'obbligo di dotare l'impresa di assetti organizzativi, amministrativi e contabili idonei e adeguati alla tipologia (oggetto sociale) e alle dimensioni (fatturato, lavoratori) della stessa. Il fine individuato dal legislatore, in vista del raggiungimento del quale ha imposto siffatti obblighi in capo agli amministratori, è la rilevazione tempestiva della crisi d'impresa e della perdita della continuità aziendale.

Qualora gli amministratori dovessero rilevare il verificarsi di tali situazioni nell'impresa, il legislatore impone loro un ulteriore obbligo, ovvero di attivarsi senza indugio per adottare e attuare uno degli strumenti che l'ordinamento prevede al fine di cercare di superare la crisi nella quale versa l'impresa e così recuperare la continuità aziendale.

Il legislatore ha quindi voluto aggiungere in capo agli amministratori delle società di persone anche siffatti obblighi, oltre a quelli già previsti nell'art. 2260 c.c., in tal modo dunque integrando quest'ultima norma seppur su di un diverso piano, ovvero quello più prettamente organizzativo dell'impresa.

Le modalità attuative della facoltà di amministrare nelle società di persone: l'amministrazione disgiuntiva e il diritto di opposizione

Nelle società di persone, l'amministrazione collettiva disgiuntiva si configura come la regola, in mancanza di diversa espressa pattuizione contenuta nel contratto sociale.

Ogni socio può dunque esercitare le funzioni gestorie senza dover previamente ottenere il consenso degli altri soci (amministratori) al compimento dei vari atti di amministrazione ordinaria e straordinaria della società (con il limite della pertinenza degli atti compiuti all'oggetto sociale).

Saranno dunque preclusi agli amministratori gli atti che comportano alterazioni strutturali della società (ad es.: alienazione/locazione d'azienda, vendita dei beni dell'impresa se tale attività non rientra nell'oggetto sociale).

La norma prevede però la possibilità di inserire nell'atto costitutivo, o in atto separato, una pattuizione che riservi le funzioni gestorie di amministrazione soltanto ad alcuni soci, potremo dunque avere:

  • amministrazione disgiuntiva affidata a tutti i soci: tutti soci amministratori;
  • amministrazione disgiuntiva comprendente la totalità delle funzioni gestorie, affidata soltanto ad alcuni soci: avremo una compagine sociale formata da soci non amministratori e soci amministratori;
  • amministrazione disgiuntiva che ascrive alcune specifiche funzioni gestorie, così come individuate, soltanto ad alcuni soci (F. Di Sabato, “Diritto delle Società”, Giuffrè 2011, 119): avremo dunque, da un lato, soci amministratori con funzioni “generali” e, dall'altro lato, soci amministratori con funzioni “specifiche”.

Quanto al tema della convergenza necessaria della qualifica di amministratore con quella di socio (e non viceversa), in dottrina si contrappongono le tesi di coloro (tra gli altri, C. Conforti, ”Nomina e revoca degli amministratori di società”, Giuffrè, 2007, 61, in particolare per la società semplice; F. Di Sabato, “Diritto delle Società”, Giuffrè 2011, 121) che ritengono necessaria la sussistenza della qualifica di socio per poter svolgere la funzione di amministratore nelle società di persone (sulla base dei risvolti dell'art. 2267 c.c.) e coloro (F. Tassinari, “La rappresentanza nelle società di persone”, Giuffrè, 1993, 154; R. Bolaffi, “La società semplice”, Giuffrè, 1975, 331; F. Galgano, “Le società in genere, le società di persone”, Giuffrè, 2007, 294 e ss.) che ritengono invece ammissibile che l'amministrazione della società sia affidata anche a terzi estranei (non soci), sulla base di una lettura combinata degli artt. 1322, comma 1, c.c. e 2259, comma 2, c.c.

Discussa era l'ammissibilità di una persona giuridica (anche società di capitali) quale amministratore di società di persone: attualmente l'orientamento favorevole, preponderante (G. Pescatore, “L'amministratore persona giuridica”, Giuffrè, 2012, 39 e ss.) si basa sul combinato disposto degli artt. 2361, comma 2, c.c. e 111 duodoecies, disp. att. c.c.

Chiariti, dunque, questi preliminari profili sui soci amministratori in via disgiuntiva, ci si può chiedere che cosa accada nel caso in cui uno o più soci amministratori non condividano un atto che un altro socio amministratore è in procinto di compiere.

L'art. 2257 c.c., al secondo comma, detta una previsione tesa a prevenire il compimento da parte di uno o più soci, tutti amministratori in via disgiuntiva, di operazioni sulle quali non vi sia il consenso – peraltro non necessario – anche degli altri amministratori: questi ultimi, qualora non condividano un atto gestorio che altro amministratore ha intenzione di compiere, possono opporsi al medesimo, prima che esso sia compiuto.

Questa procedura potrà dunque essere utilizzata in via preventiva, prima che l'atto sul quale si dissente sia stato compiuto.

Quanto alle modalità attraverso le quali proporre, e comunicare, l'opposizione, non è stabilita alcuna forma ad substantiam. In ogni caso, l'opponente deve assicurare al destinatario dell'atto la conoscenza del medesimo, attraverso l'utilizzo di una forma adeguata a tal fine (ad es: opposizione scritta comunicata a mezzo lettera racc. a/r, fax con ricevuta di ricezione, p.e.c., consegnata a mani).

Ci si potrebbe allora domandare che cosa accada qualora l'atto compiuto da un socio amministratore, non condiviso dagli altri, sia già stato compiuto e, pertanto, non sia più possibile opporsi ad esso. La risposta va trovata nell'art. 2259 c.c., che disciplina la revoca della facoltà di amministrare (cfr. sopra par. 1.b), al ricorrere di determinati presupposti.

Infatti, l'atto già compiuto da parte un socio amministratore in via disgiuntiva dagli altri, è e rimane valido nei confronti dei terzi, in tal modo impegnando la società di persone all'esterno, nonostante l'atto in questione possa essere reputato dagli altri soci, e sia effettivamente, dannoso per la società.

L'opposizione ha dunque valore ed efficacia nei rapporti interni tra soci amministratori, rendendo l'uno responsabile nei confronti degli altri.

In ogni caso, una volta revocata la facoltà di amministrare a un socio-amministratore ai sensi del comma 3 dell'art. 2259 c.c., è escluso che possa permanere in capo ad esso il potere gestorio di amministrazione disgiuntiva, in precedenza posseduto, potendo permanere in capo al socio amministratore destituito solo i poteri e le facoltà connessi strettamente alla qualità di socio, come il potere di direzione, di controllo e di veto anche in relazione al prosieguo dell'attività di gestione della società, così come dispone anche il Tribunale di Latina, Sez. II, con pronuncia dell'11 marzo 2015: “Ritiene, tuttavia, il collegio che la conservazione della qualità di socio dopo la revoca della facoltà di amministrare la società non comporti la reviviscenza di tutti i poteri, ivi compresi quelli gestori e, segnatamente, dì amministrazione disgiuntiva collegati ope legis alla partecipazione sociale in virtù della norma suppletiva di cui all'art. 2257 c. 1 c.c.. Come correttamente evidenziato dal giudice di prime cure, una tale interpretazione finirebbe con il vanificare l'efficacia privativa che rappresenta il tratto connotante della sentenza di revoca ai sensi dell'art. 2259 c. 3 c.c. ovvero dell'anticipazione dei suoi effetti costitutivi attraverso il provvedimento ex art. 700 c.p.c..

Al contrario, come recentemente evidenziato in dottrina, una volta revocato giudizialmente dalla carica, l'amministratore viene automaticamente privato di qualsivoglia potere gestorio, sia nel caso, come quello di specie, in cui esso riposi sull'attribuzione degli altri soci o dell'atto costitutivo, sia nel caso in cui ne sia titolare in forza del solo rapporto sociale ai sensi dell'art. 2557 c. 1 c.c.. Di contro, il socio amministratore revocato non viene automaticamente privato anche della facoltà di direzione dell'impresa sociale - di cui si è detto sopra - in cui si sostanzia la titolarità del rapporto societaria e, in particolare, della facoltà di controllo e di veto di cui all'art. 2257 c. 2 che ne costituisce uno degli aspetti più salienti.Difatti, salva apposita deposizione giudiziale, la revoca della funzione di amministratore non coinvolge, di per sé, i diritti del socio nell'ambito dei conflitti in caso di amministrazione plurima e disgiuntiva, quale, ad esempio, il diritto di partecipare alla delibera con la quale la società decida sull'opposizione svolta in relazione ad un atto gestorio successivo alla revoca giudiziale, ovvero, in generale, il diritto di partecipazione e di voto in assemblea (ad esempio in relazione ad una delibera di messa in liquidazione della società qualora il contrasto tra i soci e il venire meno dell'affectiosocietatis rendessero non più possibile la continuazione della gestione della società).

Nel caso in cui, poi, le operazioni compiute dal socio amministratore, sulle quali vi è dissenso, non solo siano connotate da irregolarità e/o eccessi, ma concretino altresì quelle “gravi inadempienze” di cui parla l'art. 2286 c.c., traducendosi nella violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela delle finalità e degli interessi economici dell'ente e degli altri soci (Cass. civ., Sez. I, 9 marzo 1995, n. 2736), si potrà arrivare anche all'esclusione del socio, oltre che alla revoca della facoltà di amministrare la società al medesimo inizialmente concessa (Cass. civ., Sez. I, 4 maggio 1998, n. 4404: Il cumulo delle qualifiche di socio e di amministratore non impedisce che le irregolarità o le illiceità commesse dall'amministratore determinino non solo la revoca del mandato e l'esercizio dell'azione di responsabilità, ma anche l'esclusione da socio per violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela delle finalità e degli interessi dell'ente").

Una volta effettuata l'opposizione, sarà (comma 3 dell'art. 2257 c.c.) la maggioranza dei soci a decidere sull'opposizione, calcolandosi la “maggioranza dei soci” sulla base delle diverse percentuali di percezione degli utili attribuite a tutti i soci (anche a quelli non amministratori). La decisione sull'opposizione ha ad oggetto la fondatezza della medesima, e non la bontà, l'opportunità, o meno, dell'atto rispetto al quale l'opposizione è stata spiegata.

Pertanto, se l'opposizione sarà approvata, l'atto opposto non potrà essere compiuto, se respinta, invece, l'atto opposto potrà essere compiuto o meno a discrezione del socio amm.re che ne era intenzionato.

(Segue) l'amministrazione congiuntiva

Con questa forma di amministrazione della società, i soci ai quali sono stati conferiti i poteri gestori necessitano del consenso (preventivo, evidentemente) anche degli altri per poter compiere gli atti e le operazioni nelle quali si estrinseca la funzione amministrativa.

Il consenso deve essere unanime (in tal senso: Cass., Sez. II, 19 gennaio 1985 n. 142, che ribadisce la necessità dell'unanimità dei consensi in seno al consiglio dei soci per la valida assunzione di decisioni in una società semplice che abbia adottato un sistema di amministrazione congiuntiva, non potendosi applicare il principio maggioritarioa meno che sussista una espressa previsione pattizia autonoma o inclusa nell'atto costitutivo che lo consenta), tranne nel caso descritto dal secondo comma dell'art. 2258 c.c., come vedremo nel prosieguo.

E' opportuno che il rifiuto al compimento dell'atto sia motivato dal socio amministratore dissenziente, al fine di escludere una sua responsabilità per l'eventuale pregiudizio che la società dovesse successivamente subire a causa del mancato compimento dell'atto in questione.

Come abbiamo già detto, l'amministrazione congiuntiva costituisce l'eccezione alla regola (amministrazione disgiuntiva, art. 2257 c.c.) e deve pertanto essere espressamente pattuita.

Nel caso in cui un amministratore compia un atto sul quale non vi è il consenso unanime degli altri soci amministratori, l'atto rimane comunque valido nei confronti del terzo coinvolto nell'operazione, mentre, all'interno dei rapporti tra soci, potrà essere fatta valere la responsabilità dell'amministratore che agito in tal modo.

Solo nel caso in cui si raggiunga la prova del dolo del terzo (che era quindi a conoscenza (i) del sistema di amministrazione congiuntiva all'unanimità adottato dalla società, (ii) del mancato consenso all'atto anche di un solo amministratore, e ciò nonostante abbia deciso di prendere parte all'atto de quo), allora l'atto in questione potrà essere ritenuto invalido e inefficace anche nei confronti del terzo, in tal modo non obbligando la società all'esterno.

Il comma 2 dell'art. 2258 c.c. prevede, inoltre, una diversa modalità nella quale può estrinsecarsi l'amministrazione congiuntiva: a maggioranza anziché all'unanimità.

Tale scelta deve essere effettuata espressamente per iscritto nel contratto sociale al fine della sua validità.

L'amministrazione congiuntiva a maggioranza può essere prevista:

  • per il compimento di tutti gli atti gestori di competenza degli amministratori;
  • soltanto per alcuni tipi di atti singolarmente individuati;
  • soltanto per una o più categorie di atti tipizzate.

La maggioranza si calcola secondo i medesimi parametri dettati dall'ultimo comma dell'art. 2257, già esaminato. E' in ogni caso possibile la deroga a tale modalità di computo della maggioranza, che può essere sostituito con uno diverso (ad es.: secondo la misura dei conferimenti).

Il comma 3 dell'art. 2258 prevede un particolare e tipizzato caso al verificarsi del quale il singolo amministratore può compiere un atto da solo, senza il consenso unanime dei soci amministratori oppure senza il voto favorevole della maggioranza dei soci amministratori: qualora vi sia urgenza di evitare un danno alla società.

Perché sia possibile l'operare della norma, non deve essersi però già manifestato un disaccordo tra i soci sul compimento dell'atto in questione, con l'espressione di dinieghi o voti contrari: la ratio, infatti, è proprio quella di evitare che si cagioni un pregiudizio alla società, dovuto al ritardato compimento dell'atto, a causa del ritardo che necessariamente deriva dal dover esperire preventivamente la procedura di acquisizione dell'unanimità o della maggioranza dei consensi sull'operazione da parte degli altri soci (Cass. civ., 19 luglio 2000, n. 9464).

La norma richiede inoltre che il fine sia quello di evitare un danno alla società: deve sussistere, dunque, un concreto rischio di pregiudizio perché sia consentito validamente derogare le norme sui consensi necessari al compimento dell'atto, ad es: danno al patrimonio sociale (non soltanto una possibile perdita di guadagno).

L'amministratore che voglia dunque procedere con il compimento di un atto in via d'urgenza dovrà dunque ben ponderare, ex ante, in buona fede e con la diligenza dovuta, tutti gli elementi necessari per la valida operatività della deroga al principio di unanimità/maggioranza ex art. 2258, comma 3 c.c. pena la propria responsabilità in caso di dolo, colpa, errore non scusabile nell'effettuare tale valutazione.

Per quanto riguarda l'efficacia nei confronti del terzo coinvolto nell'atto compiuto in via d'urgenza, nel caso in cui tale presupposto d'urgenza in realtà non sussistesse (per dolo/colpa/errore inescusabile dell'amministratore), esso rimane comunque valido ed efficace all'esterno, tranne nel caso di comprovata “partecipatio fraudis” del terzo, che fosse consapevole della mancanza dei requisiti per l'operatività della deroga.

In particolare: i soci accomandatari della s.a.s. e le funzioni di amministrazione della società

La norma in questione stabilisce che (i) le funzioni gestorie proprie degli amministratori possono essere conferite soltanto ai soci accomandatari e che (ii) questi ultimi hanno i diritti e gli obblighi dei soci della s.n.c. Il rinvio è dunque agli articoli 2291 e ss. c.c., con particolare attenzione all'art. 2293 c.c. che prevede, per tutti gli aspetti non espressamente disciplinati dal capo III dedicato alla s.n.c., l'applicabilità anche a quest'ultima forma societaria delle norme dettate nel capo II per la società semplice (artt. 2251 e ss. c.c.).

I soci accomandatari, gli unici a poter amministrare la s.a.s., hanno dunque i poteri e gli obblighi dei soci della s.n.c., tra cui, le facoltà gestorie che loro spettano in via generale.

Innanzitutto, dunque, in base all'art. 2291 c.c., i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni della s.a.s.

Al riguardo, è opportuno evidenziare che la responsabilità dei soci accomandatari per le obbligazioni contratte dalla società è illimitata e non circoscritta alle somme eventualmente loro conferite in base al bilancio finale di liquidazione, nonostante l'estinzione della società a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, poiché tale evento non determina l'estinzione dell'obbligazione sociale ma solo il trasferimento della stessa in capo ai soci, i quali ne rispondono secondo lo stesso regime di responsabilità vigente “pendente societate”: in questi termini si esprime Cass. civ., sez. VI, con la sentenza n. 12953 del maggio 2017 con particolare riferimento, nel caso analizzato dalla Corte, a obbligazioni passive relative a IRAP e IVA, ma trattasi di principio di diritto valido in relazione a ogni tipo di obbligazione passiva gravante sulla società di persone.

Si presume (F. Di Sabato, Istituzioni di diritto commerciale, Giuffrè, 2006, 75) che, nel caso in cui l'atto costitutivo della s.a.s. non disponga diversamente, il regime di amministrazione vigente tra i soci accomandatari sia quello disgiuntivo, così come previsto per la società semplice (sulla base del richiamo effettuato dall'art. 2315 c.c. agli articoli 2291 e ss. c.c.: cfr. art. 2293 c.c. che rinvia a sua volta al Capo II dettato per la s.s.).

All'interno, poi, del regime di amministrazione prescelto, sia esso disgiuntivo o congiuntivo, analogamente a quanto accade nella società semplice, l'esercizio di tutte o di talune specifiche funzioni gestorie individuate singolarmente o per categoria può essere conferito solo ad uno o ad alcuni soci accomandatari espressamente individuati.

Potrebbe, quindi accadere, che uno o più soci accomandatari, pur dovendo rispondere solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, non detengano i poteri gestori di amministrazione della s.a.s., e ciò in relazione soltanto a talune specifiche attività, oppure a tutti gli atti di amministrazione, a seconda di quanto previsto nell'atto costitutivo.

In questo caso, si avrebbe la figura di un socio accomandatario (con le relative responsabilità) non amministratore, analoga alla figura del socio di s.n.c. escluso dalla gestione della società (cfr. art. 2295 n. 3 c.c.).

Per questa tipologia di soci, sarà dunque molto importante l'esercizio del potere di controllo sull'operato degli altri soci accomandatari amministratori, che dovrà essere loro consentito in modo ancor più penetrante rispetto ai soci accomandanti (che non rispondono illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni della s.a.s.). Analogamente a quanto accade nella s.s., al socio accomandatario non amministratore che dissente dall'operato di uno o più soci accomandatari amministratori, è riconosciuto il potere di opposizione (cfr. art. 2257 c.c.): nella s.a.s., però, non parteciperanno alla votazione conseguente i soci accomandanti, secondo la tesi prevalente in dottrina (F. Di Sabato, “Diritto delle Società”, Giuffrè, 2011, 179).

Quanto alla responsabilità per le obbligazioni sociali che grava sugli accomandatari, amministratori o meno, essa è illimitata, solidale, e sussidiaria, nei limiti stabiliti dall'art. 2304 c.c., dettato per le s.n.c. e analogicamente estensibile alle s.a.s. .

E' dunque nullo sia un eventuale patto che escluda la responsabilità degli accomandatari, anche se non amministratori, sia un patto che attribuisca una responsabilità siffatta in capo agli accomandanti (Cass. civ., Sez. I, 19 febbraio 2003 n. 2481: Ne deriva, per quanto attiene al regime della responsabilità dei soci accomandanti, che una clausola di illimitata responsabilità nei rapporti interni, con la conseguente illimitata partecipazione alle perdite, si porrebbe in palese contraddizione con il "tipo" della società, in quanto caratterizzato proprio - fra l'altro - secondo quanto statuisce l'art. 2313 c.c., dalla limitazione della responsabilità, e conseguentemente del rischio economico, dei soci accomandanti, alla quota conferita. La clausola, pertanto, dovrebbe ritenersi nulla, ove le parti abbiano adottato il tipo "società in accomandita semplice", inserendola nell'atto costitutivo o nello statuto in deroga di una caratteristica essenziale, imperativamente stabilita dall'art. 2313 c.c. per quel tipo di società”).

Non bisogna, però, dimenticare che, ai sensi dell'art. 2320 c.c., il socio accomandante che contravviene al divieto di compiere atti di amministrazione, trattare o concludere affari in nome della società – se non sulla base di una procura speciale ad hoc, rilasciata per il compimento di singoli affari – assume una responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali (e può anche essere escluso ai sensi dell'art. 2286 c.c.). La Corte di Cassazione civile, sez. I, con la sentenza del 27 giugno 2018 n. 16984, afferma infatti che “Nella società in accomandita semplice, il socio accomandante che pone in essere atti propri della gestione sociale incorre, a norma dell'articolo 2320 c.c., nella decadenza dalla limitazione di responsabilità, sicché, ai sensi dell'articolo 147 l. fall., deve essergli esteso il fallimento”. Nel caso di specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la decisione di merito, dichiarativa del fallimento in estensione di un socio accomandante, il quale aveva intrattenuto in via esclusiva i rapporti con un creditore sociale in relazione ai canoni di un contratto di leasing immobiliare. In senso analogo si esprime anche la giurisprudenza di merito (Tribunale di Bologna, sez. IV civile, sentenza del 27 febbraio 2019 n. 517).

Dall'altro canto, però, bisogna esaminare con attenzione il tipo di atto posto in essere dal socio accomandante prima di poter sostenere che tale atto comporti, per le sue peculiarità, l'assimilazione del socio accomandante all'accomandatario, con la conseguente estensione anche in capo al primo della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali: in tal senso, la S.C., Sez. VI civile, con la pronuncia del 23 febbraio 2018 n. 4498, afferma chePer aversi ingerenza dell'accomandante nell'amministrazione della società in accomandita semplice - vietata dall'art. 2320 c.c. e idonea a giustificare l'esclusione del socio ex art. 2286 c.c. - è necessario che l'accomandante contravvenga al divieto di trattare o concludere affari in nome della società o di compiere atti di gestione aventi influenza rilevante sull'amministrazione della stessa.” Nel caso esaminato la S.C. ha ritenuto che la mera "presa di contatto" del socio accomandante con un'altra società, al fine di indagarne le intenzioni "transattive", non comportasse violazione del divieto di ingerenza nell'amministrazione della società.

In senso analogo a quanto evidenziato per la società semplice, la revoca della carica di amministratore in capo al socio accomandatario, o le dimissioni di quest'ultimo dall'incarico di amministratore, non determinano il venir meno anche del rapporto sociale. A tal fine, deve, infatti, pervenire da parte dell'accomandatario un'espressa manifestazione di volontà di cessare anche il rapporto sociale. Viceversa, il venir meno del rapporto sociale, trascina con sé anche il rapporto di amministrazione con la s.a.s., che cessa automaticamente.

L'art. 2319 c.c. stabilisce le maggioranze necessarie per la revoca (e la nomina) degli amministratori della s.a.s. nel caso indicato dal secondo comma dell'art. 2252 c.c., già esaminato nel paragrafo dedicato alla s.s. In questo caso, salvo patto contrario nell'atto costitutivo, è necessario il consenso di tutti i soci accomandatari e il voto favorevole di tanto soci accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale da essi sottoscritto.

Evidente la differenza con l'ipotesi in cui, invece, gli amministratori siano stati nominati nell'atto costitutivo, anziché in atto separato: in questo caso, per la loro revoca (così come per la loro nomina) è necessaria la sussistenza:

  • di una giusta causa (cfr. supra). In particolare, per gli amministratori di s.a.s., costituiscono giusta causa di revoca altresì: (i) la mancata comunicazione ai soci accomandanti dei rendiconti e dei bilanci annuali, (ii) la loro irregolare redazione, (iii) aver permesso a terzi estranei di interferire con l'amministrazione della società ingerendosi nella stessa, e:
  • il consenso di tutti i soci (tra gli altri, F. Galgano, “Trattato di diritto civile”, V, Padova, 2001, 93) sia accomandatari che accomandanti, considerando le “teste” e non le partecipazioni sociali. La ratio di tale differenziazione la si rinviene considerando che la revoca dell'amministratore di una s.a.s. è considerata una modifica del contratto sociale, con conseguente applicazione dell'art. 2252 c.c.

Ai soci accomandatari, in quanto amministratori, si applicano inoltre, tutte le regole, già illustrate, in materia di responsabilità gestoria verso la società, verso i soci e verso i terzi.

Con sentenza pronunciata in data 5 ottobre 2015, il Tribunale di Roma, Sez. Spec. Impresa, dopo aver affermato che, nei confronti dell'amministratore di fatto, è possibile esperire le medesime azioni proponibili nei confronti dell'amministratore di diritto, esclude che la legittimazione attiva per quanto concerne l'azione di responsabilità contro gli amministratori di una s.a.s. (nel caso di specie amministratori di fatto e non di diritto) appartenga ad ogni singolo socio, in tal modo escludendo l'applicazione analogica dell'art. 2476, comma 3, c.c.: “L'amministratore di fatto è colui che, in assenza di valido titolo formale, gestisce la società autonomamente, esercitando con sistematicità e completezza un potere di fatto corrispondente a quello degli amministratori di diritto: nei suoi confronti è dunque possibile esperire le medesime azioni di responsabilità proponibili nei confronti degli amministratori di diritto. In tema di legittimazione attiva alla proposizione di tale azione, va escluso che alle società di persone possa applicarsi, in via analogica, il novellato disposto dell'art. 2476, comma 3, c.c. che, con specifico riferimento alle s.r.l., contempla la legittimazione di ciascun socio all'esercizio dell'azione sociale di responsabilità.”

Riferimenti

Normativi

  • art. 2257 c.c.
  • art. 2258 c.c.
  • art. 2259 c.c.
  • art. 2266 c.c.

Giurisprudenza

  • Cass. 14 dicembre 1989, n. 5621
  • Corte Costituzionale 24 luglio 1998, n. 322
  • Cass. 12 giugno 2009, n. 13761
  • Cass. 1 ottobre 2014, n. 20723
  • Cass. 25 gennaio 2016, n. 1521

Bibliografia

  • F. Di Sabato, Diritto delle Società, Giuffrè 2011, p.124
  • F. Galgano, Trattato di diritto civile, V, Padova, 2011
  • C. Conforti, Le Società di persone: amministrazione e controlli, Giuffrè, 2009
  • Campobasso, Diritto Commerciale, Diritto delle società, Torino, 2009
  • V. Buonocore, Società in nome collettivo, Volumi 2291-2312 di Il Codice civile: Commentario, Giuffrè, 1995
Sommario