Divorzio congiunto

30 Marzo 2022

La l. 1 dicembre 1970, n. 898 ha inserito nell'ordinamento italiano lo strumento giuridico del divorzio, con cui si consente ai coniugi di porre fine al matrimonio mediante lo scioglimento del medesimo, ove celebrato solo civilmente, oppure mediante la cessazione degli effetti civili del matrimonio c.d. concordatario vale a dire quello religioso, al quale la legge dello Stato riconosce effetti civilistici, ove trascritto nei registri dello stato civile.
Inquadramento

*Valido per i procedimenti instaurati fino al 28 febbraio 2023

Il divorzio è lo strumento giuridico attraverso il quale il nostro ordinamento consente ai coniugi di porre fine ad un matrimonio mediante lo scioglimento del medesimo, ove celebrato solo civilmente, oppure mediante la cessazione degli effetti civili del matrimonio c.d. concordatario, vale a dire quello religioso, al quale la legge dello Stato riconosce effetti civilistici, ove trascritto nei registri dello stato civile.

Fino al 1970 non erano previste cause di scioglimento del matrimonio diverse dalla morte di uno dei due coniugi o dall'annullamento dell'atto matrimoniale, che consentiva e consente tuttora ai coniugi di cancellare il vincolo coniugale, facendone venir meno gli effetti fin dalla celebrazione del matrimonio: lo stesso veniva pertanto considerato legalmente indissolubile.

È stata la l.1 dicembre 1970, n. 898 ad introdurre nel nostro ordinamento il divorzio (termine peraltro mai menzionato nella legge) e pertanto la possibilità di porre fine al coniugio allorquando la comunione spirituale e materiale tra marito e moglie non possa essere mantenuta o ricostituita.

Una particolarità del sistema giuridico italiano è che i coniugi non possano ottenere direttamente il divorzio, e pertanto lo scioglimento definitivo immediato del vincolo, in quanto tale pronuncia deve essere preceduta dalla separazione legale, che introduce una fase tendenzialmente transitoria del rapporto tra moglie e marito, i quali restano legati dal vincolo coniugale, pur essendo esonerati dal rispetto di alcuni degli obblighi di cui agli artt. 143, 144 e 147 c.c..

In evidenza

L'art. 1 l. n. 898/1970 dispone che il giudice pronunzia lo scioglimento del matrimonio quando accerta che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l'esistenza di una delle cause previste dall'art. 3 l. n. 898/1970.

Affinché si possa giungere alla pronunzia di divorzio devono pertanto ricorrere i seguenti presupposti:

  • che, secondo la valutazione del giudice, la comunione spirituale e materiale fra i coniugi non possa essere mantenuta o ricostituita;
  • che la crisi coniugale dipenda da una delle cause tassativamente previste dalla legge.

I presupposti del divorzio

Il legislatore non ha fornito una definizione dei concetti di «comunione spirituale e materiale», lasciando all'interprete il compito di individuare il significato, che meglio si rapporta alla delicata materia.

La comunione spirituale può essere intesa come affectio maritalis e honor matrimonii, concernendo il primo l'intima intesa fra i coniugi, il consenso dei nubendi alle nozze ed il secondo la posizione che nei rapporti familiari e sociali un coniuge fa assumere all'altro.

La comunione spirituale deve ritenersi cessata quando le ragioni del conflitto si manifestano insanabili non soltanto per la gravità delle cause, ma anche per il permanere nei coniugi del turbamento per le cause stesse.

Per comunione materiale, invece, deve intendersi non soltanto l'attuazione dell'assistenza materiale reciproca dei coniugi, intesa come espressione tangibile della permanenza della comunione spirituale, ma altresì il rispetto e l'appagamento delle esigenze materiali economicamente valutabili dell'altro coniuge.

Venuta meno la comunione spirituale e materiale, i coniugi possono domandare il divorzio, qualora ricorra una delle seguenti cause indicate tassativamente dall'art. 3 l. n. 898/1970:

  • dopo la celebrazione del matrimonio, l'altro coniuge è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, anche per fatti commessi in precedenza: a) all'ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale;b) a qualsiasi pena detentiva per incesto ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione;c) a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio; d) a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di lesioni personali, quando ricorra la circostanza aggravante di cui alll'art. 583, comma 2, c.p. di violazione degli obblighi di assistenza familiare, di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di circonvenzione di persone incapaci, in danno del coniuge o di un figlio;
  • l'altro coniuge è stato assolto per vizio totale di mente da uno dei delitti previsti nelle lettere b) e c), quando il Giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta l'inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare;
  • è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale o è intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa è iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970. In tali ipotesi, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato o dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'Ufficiale dello stato civile;
  • il procedimento penale promosso per i delitti previsti dalle lettere b) e c) del primo punto si è concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando il Giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi;
  • il procedimento penale per incesto si è concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo;
  • pronunzia definitiva di annullamento o scioglimento del matrimonio, ottenuta all'estero dal coniuge straniero, ovvero celebrazione, da parte sua, di un nuovo matrimonio;
  • mancata consumazione del matrimonio;
  • rettificazione dell'attribuzione di sesso compiuta da uno dei coniugi.

Procedimento

L'art. 4 l. n. 898/1970 dispone che la domanda di divorzio si propone al Tribunale con la forma del ricorso, che deve contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui la domanda è fondata, nonché l'indicazione dell'esistenza di figli legittimi, legittimati o adottati da entrambi i coniugi durante il matrimonio.

La maggiore innovazione apportata dall'art. 8 l. 6 marzo 1987, n. 74 è data dalla formulazione dell'art. 4 l. n. 898/1970, che ha introdotto la possibilità per i coniugi di proporre una domanda congiunta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario.

La forma della domanda, richiesta anche in questa ipotesi, è il ricorso, che deve essere sottoscritto da entrambi i coniugi e nel quale devono essere indicate compiutamente le condizioni inerenti la prole, sia sotto il profilo del mantenimento della medesima che dell'affidamento, ed i rapporti economici.

Posto che il provvedimento che pronuncia il divorzio incide su status e su diritti soggettivi, nella procedura giudiziale è necessaria l'assistenza di un legale, al cui eventuale difetto consegue la nullità del provvedimento de quo (Cass. civ., 7 dicembre 2011, n. 26365).

Per quanto concerne la domanda congiunta di divorzio, il predetto art. 4 l. n. 898/1970 stabilisce che essa può essere proposta al Tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'uno e dell'altro coniuge.

In evidenza

Il divorzio congiunto è la procedura che consente ai coniugi, già separati e che siano d'accordo tra loro, di ottenere lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso mediante il deposito di un ricorso, sottoscritto da entrambe le parti, nel quale devono essere indicate compiutamente le condizioni inerenti la prole, sia sotto il profilo del mantenimento della medesima che dell'affidamento, ed i rapporti economici.

Qualora il ricorso venga presentato da un solo coniuge, il quale regolamenta in maniera completa ed esaustiva le condizioni di divorzio relative alla prole ed ai rapporti economici, è fatta salva la facoltà del coniuge convenuto, che condivida le prospettazioni dell'attore, di comparire dinanzi al Presidente del Tribunale per il tentativo di conciliazione e dichiarare di aderire alla domanda attorea.

Nonostante il nostro apparato normativo non disciplini tale eventualità, si ritiene che, in applicazione del principio di economia del giudizio, il Presidente dovrà rimettere immediatamente la causa al Tribunale, perché decida in camera di consiglio.

L'Autorità Giudiziaria, prima di pronunciarsi, deve sentire i coniugi.

L'assenza di uno dei divorziandi all'udienza fissata dinanzi al Giudice relatore non preclude l'accoglimento della domanda congiunta di divorzio, dovendosi fare applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza con riferimento all'ipotesi di revoca espressa del consenso prestato da uno dei coniugi.

Si ritiene, infatti, che tanto nell'ipotesi di revoca espressa del consenso quanto nell'ipotesi di assenza della parte all'udienza camerale all'uopo fissata il Tribunale deve comunque provvedere all'accertamento dei presupposti per la pronuncia richiesta, per poi procedere, in caso di esito positivo della verifica, all'esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone la conformità a norme inderogabili e agli interessi dei figli minori.

All'accordo sotteso alla domanda congiunta di divorzio, infatti, viene riconosciuta una duplice natura:

  • processuale-ricognitiva in riferimento alla sussistenza dei presupposti legali per la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, che compete in via esclusiva al Tribunale, il quale, sul punto, ha pieni poteri;
  • sostanziale-negoziale per quanto concerne la disciplina dei rapporti economici e, quanto ai figli, anche personali e, in virtù della suddetta natura negoziale, tali aspetti sono sottratti alla valutazione di merito del Collegio se non nei limiti del contrasto con il superiore interesse della prole o per la tutela dell'ordine pubblico, del buoncostume e della liceità degli accordi.

Ne consegue che la revoca del consenso dinanzi al Tribunale, che, come chiarito dalla giurisprudenza più recente, non comporta l'improcedibilità della domanda congiunta di divorzio, è irrilevante sotto l'aspetto processuale-ricognitivo e inammissibile sotto quello sostanziale-negoziale, salvo che il consenso prestato sia viziato da violenza, dolo o errore essenziale (Trib. Siracusa, 10 maggio 2019, n. 908; Cass. civile, sez. VI, 24 luglio 2018, n. 19540).

Giova evidenziare che la presentazione congiunta della domanda di divorzio non esonera il Tribunale dall'accertare in concreto la sussistenza di una delle cause tassative, che impediscono che la comunione spirituale e materiale fra i coniugi possa essere mantenuta o ricostituita. Con l'introduzione del divorzio su domanda congiunta, invero, il legislatore non ha affatto voluto accogliere nel nostro ordinamento il divorzio consensuale. Seppur ai coniugi venga riconosciuta ampia autonomia nella definizione delle relazioni personali ed economiche per il tempo successivo allo scioglimento del vincolo, spetta comunque al giudice verificare che sussistano i presupposti della pronuncia, nonché che le condizioni non contrastino con gli interessi dei figli. Il consenso nella procedura de qua è pertanto unicamente un presupposto per la proposizione della domanda congiunta.

Ulteriore oggetto di accertamento da parte del Tribunale sono le condizioni inerenti i rapporti economici tra i coniugi e la prole. Qualora l'Autorità Giudiziaria ritenga che le condizioni poste alla base del ricorso congiunto appaiano in contrasto con gli interessi dei figli, si verifica un passaggio dal rito camerale al rito contenzioso, con la rimessione delle parti innanzi al Presidente per l'emanazione dei provvedimenti urgenti, conseguente nomina del Giudice istruttore e fissazione dell'udienza di comparizione dinanzi al medesimo.

In virtù del combinato disposto dell'art. 70 c.p.c. e dell'art. 5 l. n. 898/1970, l'intervento del P.M. è obbligatorio nelle cause concernenti lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Il compito del P.M., figura indipendente, estranea al conflitto dei coniugi, è, infatti, quello di salvaguardare l'ordine della famiglia con riferimento sia ai coniugi stessi che alla prole, non dovendo né sostenere la pretesa di una delle parti, né tantomeno rimettersi ciecamente alla giustizia dell'organo giudicante: il P.M. persegue il superiore e fondamentale interesse della famiglia.

Da ciò deriva che, indipendentemente dalla causa che ne abbia determinato il mancato intervento, la nullità conseguente a tale omissione è insanabile e deve essere rilevata d'ufficio dal Giudice ai sensi dell'art. 158 c.p.c..

Si rileva peraltro che il P.M. ha altresì il potere di impugnare la sentenza che pronuncia il divorzio, anche se proposto con domanda congiunta, limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci, ingiustamente lesi dall'autonomia dei genitori, che nel determinare le condizioni di divorzio hanno perseguito unicamente interessi personali, o dall'eventuale scarso controllo operato dal Tribunale.

Il provvedimento con cui si conclude il procedimento di divorzio instaurato dai coniugi con domanda congiunta assume la forma della sentenza, che determina lo scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso.

Tale sentenza deve ritenersi costitutiva, in quanto risolve il titolo di stato coniugale, eliminandone gli effetti, ed ha efficacia, ai sensi dell'art. 10, comma 1, l. n. 898/1970, dal giorno dell'annotazione della sentenza nei registri dello stato civile da parte del Cancelliere.

La disciplina sopra esaminata è stata recentemente modificata dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, che ha introdotto la possibilità di divorziare mediante un accordo innanzi al Sindaco o mediante la procedura di negoziazione assistita.

In particolare, l'art. 6 d.l. n.132/2014 prevede che i coniugi legalmente separati possano stipulare una convenzione di negoziazione assistita con l'assistenza di almeno un avvocato per parte, al fine di raggiungere una soluzione consensuale di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del medesimo.

L'accordo è sottoposto ad un controllo pubblico affidato al Pubblico Ministero, il quale, tuttavia, per le questioni che non riguardano i figli, è tenuto meramente a verificare che esso non contenga irregolarità.

In presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, infatti, l'accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso, entro il termine di dieci giorni dalla sua sottoscrizione, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente, il quale, quando ritiene che l'accordo risponde all'interesse dei figli, lo autorizza, altrimenti lo trasmette, entro cinque giorni, al Presidente del Tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti.

In mancanza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, l'accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita è trasmesso al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente il quale, quando non ravvisa irregolarità, comunica agli avvocati il nullaosta per i successivi adempimenti.

Il procedimento de quo si articola pertanto in due fasi: la prima che vede la stipulazione di una convenzione di negoziazione assistita al fine di aggiungere una soluzione consensuale di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del medesimo e la seconda, che consiste nella sottoscrizione dell'accordo, che, ai sensi dell'art. 6, comma 3, d.l.n. 132/2014 produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali, che definiscono i procedimenti di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di scioglimento del medesimo.

Nell'accordo si deve dare atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti, le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare nonché dell'importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori.

Copia dell'accordo deve essere trasmesso a cura dell'avvocato di una delle parti, entro il termine di dieci giorni dalla data di comunicazione del nullaosta o dell'autorizzazione, all'Ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto.

In difetto, l'avvocato è tenuto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 2.000 ad euro 10.000.

L'art. 12 d.l. n. 132/2014 ha, invece, introdotto la possibilità per i coniugi legalmente separati, che non abbiano figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, di concludere, innanzi al Sindaco del comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui è iscritto o trascritto l'atto di matrimonio, un accordo di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

In tale ipotesi, l'Ufficiale dello stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente, con l'assistenza facoltativa di un avvocato, a differenza della procedura dinanzi al Tribunale, che invece, comporta l'osservanza inderogabile della regola della c.d. difesa tecnica, la dichiarazione che vogliono far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate.

La normativa in esame, peraltro, prevede che l'Ufficiale dello stato civile, dopo aver ricevuto le dichiarazioni dei coniugi, li inviti a comparire di fronte a sé non prima di trenta giorni dalla ricezione per la conferma dell'accordo, che non può contenere patti di trasferimento patrimoniale. . La mancata comparizione equivale a mancata conferma dello stesso.

Tale norma ha senz'altro l'intento di snellire la procedura senza gravare eccessivamente i Tribunali. Purtuttavia è legittimo chiedersi se i coniugi privi di conoscenze sul diritto siano in grado di autotutelarsi in una situazione, che potrebbe avere risvolti rilevanti per il proprio futuro.

Effetti personali

La pronunzia giudiziale di divorzio determina lo scioglimento del vincolo coniugale, nonché l'estinzione dei reciproci diritti e doveri nascenti dal matrimonio, già divenuti quiescenti a seguito della separazione personale.

I coniugi, tuttavia, proprio a seguito della pronuncia di divorzio e dal momento in cui la stessa ha efficacia, divengono soggetti di una situazione giuridica dalla quale scaturiscono diritti e doveri reciproci, nei confronti della prole e rispetto ai terzi, come meglio verrà approfondito nel prosieguo.

In particolare, gli effetti personali scaturenti dallo scioglimento del matrimonio o dalla cessazione degli effetti civili del medesimo sono la perdita del cognome da parte della moglie e l'affidamento della prole.

L'art. 5 l. n. 898/1970 dispone che la donna, per effetto della pronuncia di divorzio, perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio, ma precisa che, quando sussiste un interesse meritevole di tutela suo o dei figli, la medesima può chiedere di essere autorizzata a conservare il cognome del marito.

La giurisprudenza ha ritenuto che l'interesse al mantenimento del cognome del coniuge dopo il divorzio risulta meritevole di tutela qualora riguardi la sfera del lavoro professionale, commerciale o artistico della moglie, oppure in considerazione di profili di identificazione sociale e di vita di relazione meritevoli di tutela oltre che di particolari profili morali o considerazioni riguardanti la prole (Trib. Milano, sez. IX, 28 aprile 2009, n. 5644).

L'indagine circa la sussistenza di siffatti presupposti può essere effettuata sulla base di documenti attinenti agli ambiti della vita privata della coniuge che possono assumere rilievo in tal senso, come quelli che riguardano la salute della medesima, la vita professionale e gli affari.

Qualora da tale documentazione risulti che l'utilizzo del cognome del marito non assume, rispetto allo svolgimento della vita della moglie, pertanto, un rilievo preminente rispetto ai profili sopra menzionati, non ne sussiste a favore della medesima il diritto alla conservazione.

La possibilità prevista dall'art, 5, comma 3, l. 898/1970, infatti, è da considerarsi una ipotesi straordinaria, affidata alla decisione discrezionale del giudice di merito, secondo criteri di valutazione propri di una clausola generale ma che non possono coincidere con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa quanto alla sua rilevanza giuridica.

Le motivazioni affettive poste a fondamento della propria pretesa da parte dell'ex moglie non hanno alcuna rilevanza nel nostro ordinamento.

Come sopra ampiamento illustrato, la domanda congiunta di divorzio deve contenere, oltre alla regolamentazione dei rapporti economici tra i coniugi, anche le condizioni relative alla prole.

In seguito all'introduzione nel nostro ordinamento della l.8 febbraio 2006, n. 54, l'affidamento condiviso è divenuta la regola, mentre l'affidamento esclusivo deve essere giustificato dalla sussistenza di situazioni obiettive che si appalesano di ostacolo all'affidamento ad entrambi i genitori e che non possono essere superate, in considerazione del superiore e preminente interesse della prole.

I genitori, pertanto, anche qualora decidano di presentare un ricorso congiunto per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, dovranno prediligere la forma dell'affido condiviso, ove non vi siano cause ostative allo stesso.

Si ribadisce, infatti, che il Tribunale, laddove ritiene che le condizioni poste alla base della domanda congiunta appaiano in contrasto con gli interessi dei figli, rimetterà le parti innanzi al Presidente per l'emanazione dei provvedimenti urgenti, con conseguente nomina del giudice istruttore e fissazione dell'udienza di comparizione dinanzi al medesimo, determinando un passaggio dal rito camerale al rito ordinario.

Si rileva, peraltro, che l'art. 4, comma 2, l. n. 54/2006 dispone che le disposizioni relative all'affidamento condiviso si applicano anche in caso di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Ne consegue che, ai sensi dell'art. 337-ter c.c., il figlio minore, nonostante la pronuncia di divorzio, ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

La responsabilità genitoriale è pertanto esercitata da entrambi i genitori e le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.

Effetti patrimoniali

La sentenza di divorzio, anche se emessa su ricorso congiunto, sotto il profilo patrimoniale comporta:

- l'obbligo di provvedere al mantenimento della prole;

- l'obbligo di versare un assegno divorzile, sia esso periodico o corrisposto una tantum, per il mantenimento del coniuge, che sia privo di redditi adeguati e si trovi nell'oggettiva impossibilità di procurarseli, qualora pattuito dalle parti;

- la perdita dei diritti successori;

- il diritto del coniuge, che non abbia contratto nuove nozze e che sia titolare di un assegno di mantenimento:

  • a percepire la pensione di reversibilità in caso di decesso dell'altro, qualora il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza;
  • a ricevere una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza.

L'art. 6 l. n. 898/1970 sancisce che l'obbligo, ai sensi degli artt. 315-bis e 316-bis c.c., di mantenere, educare ed istruire i figli permane anche se è stato pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché nel caso di passaggio a nuove nozze di uno o di entrambi i genitori.

Come già sopra evidenziato, pertanto, i coniugi non potranno prescindere da tali doveri e dovranno tenerne debito conto nella domanda congiunta di divorzio, nella quale dovranno indicare condizioni relative alla prole, che rispondano al loro superiore interesse.

Nonostante le norme e i principi che disciplinano il divorzio congiunto concedano ai coniugi ampia autonomia in merito alla regolamentazione dei rapporti personali tra i medesimi, infatti, lo stesso non si può dire allorquando siano coinvolti i figli, che, in quanto soggetti privi di potere decisionale ed in balia degli eventi, meritano una maggiore tutela e controllo.

Le condizioni ad essi relative, infatti, sono oggetto di accertamento da parte del Tribunale, il quale, nell'ipotesi in cui rilevi che le medesime sono in contrasto con gli interessi della prole, rimetterà le parti innanzi al Presidente per l'emanazione dei provvedimenti urgenti, conseguente nomina del Giudice istruttore e fissazione dell'udienza di comparizione dinanzi al medesimo.

Ma v'è di più. Importanti poteri di controllo sono altresì attribuiti al P.M., il quale può impugnare la sentenza che pronuncia il divorzio, anche se proposto con domanda congiunta, allorquando gli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci siano stati ingiustamente lesi.

Nel procedimento camerale di divorzio, l'assegno divorzile consiste in una somma di denaro, che un coniuge si impegna a versare all'altro, il cui ammontare, concordato tra le parti, può essere corrisposto in un'unica soluzione, incidendo in modo notevole sugli ulteriori diritti futuri a contenuto economico, o mediante un versamento periodico, di norma mensile.

Il nostro ordinamento ha infatti riconosciuto e tutela marcatamente il diritto dei coniugi a regolare autonomamente i propri interessi, anche nel campo della crisi matrimoniale, mediante accordi stabiliti direttamente dalla loro volontà e non ricercati dal Giudice.

La fissazione dell'assegno può essere, pertanto, il frutto di una libera determinazione dei coniugi, sulla base di una soggettiva valutazione delle ragioni specifiche atte a giustificare l'attribuzione patrimoniale, sulle quali il Tribunale non è chiamato ad esprimere un giudizio: i coniugi, dunque, possono, in piena autonomia, prescindere, nella determinazione dell'assegno, da qualsiasi criterio di adeguamento automatico, non essendo applicabile al divorzio congiunto l'art. 5, comma 7, l. n. 898/1970.

L'accordo raggiunto tra i coniugi in ordine ai rapporti patrimoniali con riconoscimento di assegno divorzile in favore di uno dei due non è, pertanto, suscettibile di sindacato, trattandosi di diritti disponibili, nel mentre, com'è noto, l'importo pattuito a titolo di mantenimento della prole è sempre oggetto di controllo incisivo da parte dell'Autorità Giudiziaria ed in particolar modo del Pubblico Ministero, il quale, nel perseguire il superiore e fondamentale interesse della famiglia, dovrà verificare che la somma concordata corrisponda all'interesse dei minori.

Qualora le parti si accordino in tal senso, l'assegno divorzile può essere concesso anche a favore del coniuge cui sia stata addebitata la separazione.

Giova rilevare peraltro che, data la natura assistenziale dell'assegno, una rinuncia definitiva a pretendere la corresponsione dello stesso è inammissibile.

Il divorzio determina la perdita dei diritti successori nei confronti dell'altro coniuge, il quale, a seguito dello scioglimento del vincolo matrimoniale, non potrà più avanzare alcun diritto sull'eredità.

La normativa in materia, tuttavia, prevede un'eccezione e disciplina l'ipotesi in cui, dopo il decesso dell'obbligato al versamento periodico dell'assegno divorzile, il coniuge superstite versi in stato di bisogno, vale a dire manchi delle risorse economiche occorrenti per soddisfare le essenziali e primarie esigenze di vita. In tal caso, il Tribunale, su domanda di quest'ultimo, può disporre un assegno periodico a carico dell'eredità, sempre che vi siano sostanze ereditarie.

Il Giudice, nel quantificare l'importo da corrispondere, deve tenere conto delle somme riconosciute a titolo di assegno divorzile, dell'entità del bisogno, dell'eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche.

A tale riguardo, l'entità del bisogno deve essere valutata non già con riferimento alle norme dettate da leggi speciali per finalità di ordine generale di sostegno dell'indigenza - le quali sono prive di ogni collegamento con ragioni di solidarietà familiare, che costituiscono, invece, il fondamento della disciplina in esame - bensì in relazione al contesto socio-economico del richiedente e del de cuius, in analogia a quanto previsto dall'art. 438 c.c. in materia di alimenti (Cass. civ., sez. I, 27 gennaio 2012, n. 1253).

L'art. 9-bis l. n. 898/1970 precisa che, su accordo delle parti, la corresponsione dell'assegno può avvenire in unica soluzione; prevede inoltre come il diritto all'assegno si estingua qualora il beneficiario passi a nuove nozze o venga meno il suo stato di bisogno. Qualora risorga lo stato di bisogno, l'assegno può essere nuovamente attribuito.

L'art. 9 l. n. 898/1970 sancisce che in caso di morte dell'ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità (o in concorso qualora sia presente), il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno divorzile, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza.

È importante sottolineare che non può essere riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato, quando vi sia stata espressa rinuncia all'assegno previsto dall'art. 5 l. n. 898/1970 o qualora i divorziandi si erano accordati per la corresponsione dell'assegno divorzile in unica soluzione, in quanto il trattamento di reversibilità ha la funzione di garantire la continuità del sostentamento al superstite, che, prima del decesso del coniuge, veniva garantito dall'assegno de quo.

Quando un coniuge sia in possesso dei predetti requisiti, la domanda può essere inoltrata direttamente all'ente tenuto all'erogazione.

Qualora, invece, esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, se ne viene fatta espressa domanda, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art. 5 l. n. 898/1970.

La ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni come previsto dall'art. 9 l. n. 898/1970, anche ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell'istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, le condizioni economiche dei due aventi diritto, nonché l'entità dell'assegno di mantenimento riconosciuto all'ex coniuge, senza mai individuare, tuttavia, nell'entità dell'assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all'ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso (Cass. civile, sez. I, 25 maggio 2021, n. 14383).

La normativa precisa peraltro che, nell'ipotesi in cui in tale condizione si trovino più persone, il Tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze.

Come per la pensione di reversibilità, presupposto inderogabile per ottenere l'indennità di fine rapporto è la percezione dell'assegno divorzile da parte del coniuge che intende ottenere una quota del TFR dell'altro.

L'art. 12-bis l. n. 898/1970 dispone che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno divorzile, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

Ciò che rileva ai fini dell'applicabilità della predetta disposizione è il momento nel quale matura il diritto all'indennità di fine rapporto e non quello, successivo, nel quale tale indennità viene concretamente erogata. Di conseguenza risulterà inapplicabile la disposizione citata tutte le volte in cui il diritto all'indennità di fine rapporto risulti essere maturato in data antecedente alla proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio (Cass. civile, sez. VI, 22 marzo 2018, n. 7239).

Giova evidenziare, peraltro, che obbligato alla corresponsione della percentuale di indennità è il lavoratore titolare del diritto, pertanto qualsivoglia azione esecutiva dovrà essere intrapresa nei suoi confronti e non nei confronti del datore di lavoro.

Divorzio breve

La cosiddetta legge sul Divorzio breve (l. 6 maggio 2015, n. 55) interviene sulla disciplina della separazione e del divorzio, riducendo i tempi per la domanda di divorzio, fino a questo momento fissati dal legislatore in tre anni dall'avvenuta separazione giudiziale o consensuale tra i coniugi.

L'art. 1 l. n. 55/2015 ha modificato l'art. 3, comma 1, lett. b, n. 2, l. n. 898/1970, che disciplina i casi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il quale, nella sua nuova formulazione, statuisce che le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale (anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale) ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'Ufficiale dello stato civile.

La legge sul divorzio breve, emanata ben tredici anni dopo la presentazione del primo disegno di legge, ha pertanto introdotto importanti novità in merito ai tempi necessari per presentare la domanda di divorzio, tuttavia, nonostante fosse da molti auspicato, non è stato introdotto nel nostro ordinamento il c.d. divorzio diretto, vale a dire la possibilità di ottenere il divorzio in assenza di separazione legale.

La Commissione giustizia del Senato aveva, infatti, proposto l'aggiunta di un altro comma all'art. 1 del disegno di legge che prevedeva l'inserimento di un nuovo art. 3-bis l. n. 898/1970, il quale, rafforzando l'autonomia privata dei coniugi, avrebbe introdotto il divorzio immediato unicamente per le coppie senza figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o figli di età inferiore ai ventisei anni economicamente non autosufficienti: in Aula, tuttavia, la disposizione non è passata.

La riduzione della durata del periodo di separazione da tre anni a dodici mesi in caso di separazione giudiziale e sei mesi in caso di separazione consensuale è apparsa a molti come la volontà di effettuare una mediazione fra istanze laiche e istanze cattoliche.

Applicazione delle norme sul divorzio allo scioglimento delle unioni civili

Dopo un lungo e travagliato iter parlamentare, l'11 maggio 2016 è stata approvata la legge sulle unioni civili (l. 20 maggio 2016, n. 76), entrata in vigore il 5 giugno 2016, che regolamenta la «specifica formazione sociale, ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione», formata da persone maggiorenni dello stesso sesso, le quali abbiano esternato la volontà di contrarre l'unione dinnanzi all'Ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni.

Con la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, da cui discende l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione, le parti, che concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune, acquistano gli stessi diritti, assumono i medesimi doveri e sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.

In base all'art. 1, comma 20, l. n. 76/2016 della normativa in esame, inoltre, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso.

Il legislatore del 2016 ha previsto che l'unione civile, al pari del matrimonio, possa sciogliersi esclusivamente in presenza di una delle cause previste dalla legge, individuate nella morte o nella dichiarazione di morte presunta di una parte (art. 1, comma 22), nella rettificazione di sesso (art. 1, comma 26), in una delle cause previste dall'art. 3, n. 1, 2, lett. a), c), d), e) della legge sul divorzio (art. 1, comma 23), ovvero nella manifestazione della volontà di scioglimento dell'unione resa da una o da entrambe le parti dinanzi all'Ufficiale dello stato civile, con la precisazione che quest'ultima legittima la proposizione della domanda di scioglimento dell'unione decorsi tre mesi tra la predetta manifestazione di volontà e la proposizione della domanda (art. 1, comma 24).

Dal raffronto tra la nuova disciplina in materia di scioglimento dell'unione civile e la disciplina sullo scioglimento del matrimonio emerge che le cause che determinano la dissoluzione del vincolo coincidono quanto alla morte o alla dichiarazione presunta, alla rettificazione di sesso e alle cause previste dall'art. 3, n. 1, 2, lett. a), c), d), e) della legge n. 898/70, mentre divergono con riguardo all'ultima e statisticamente più importante causa di scioglimento del matrimonio, rappresentata dalla separazione legale, in luogo della quale l'art. 1, comma 24, l. n. 76/16 ha previsto la previa manifestazione di volontà di scioglimento dell'unione, resa congiuntamente o disgiuntamente da entrambe o da una sola parte, all'Ufficiale di stato civile.

Differente è il periodo che deve decorrere affinché il Giudice possa pronunciare la dissoluzione del vincolo che discende dal matrimonio o dall'unione civile: nel primo caso, infatti, è richiesto che decorrano dodici mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione giudiziale e sei mesi nel caso di separazione consensuale, nel secondo caso, invece, devono decorrere soltanto tre mesi, trascorsi i quali le parti, singolarmente o congiuntamente, possono presentare al Tribunale competente domanda di scioglimento dell'unione civile.

Il giudizio in Tribunale segue il medesimo iter del divorzio.

Anche la domanda di scioglimento del vincolo, pertanto, si propone al Tribunale con la forma del ricorso, a cui fa seguito l'udienza presidenziale cui le parti dell'unione civile devono comparire personalmente e con l'assistenza di un difensore.

Non vi è dubbio che il Giudice debba verificare in primo luogo se ricorra una delle cause tipiche previste dalla legge, mentre è incerto se debba altresì procedere all'accertamento del venir meno della comunione materiale e spirituale tra le parti, previsto dagli artt. 1 e 2 della legge divorzile, che eleva tale elemento a presupposto per l'accoglimento della domanda di divorzio.

L'art. 1, comma 25, l. n. 76/2016, che cita gli articoli della legge sul divorzio estensibili all'unione civile in quanto compatibili, infatti, non richiama gli artt. 1 e 2, con la conseguenza che tale accertamento deve ritenersi escluso (Trib. Novara, 5 luglio 2018).

In forza del rinvio operato dall'art. 1, comma 25, l. n. 76/16 all'art. 4 della legge divorzile, si ritiene che il Presidente debba sentire i partner, prima separatamente e poi congiuntamente, e tentarne la conciliazione.

Nell'eventualità che quest'ultima abbia esito positivo, il relativo verbale dovrebbe essere trascritto nei registri dello stato civile quale revoca della manifestazione di volontà di scioglimento, che, peraltro ad oggi non è stata disciplinata dal nostro legislatore.

L'accertamento del Giudice deve estendersi alla verifica del decorso del termine di tre mesi tra la proposizione della domanda e la data della dichiarazione di scioglimento, come disposto dall'art. 1, comma 24, l. n. 76/2016.

Secondo parte della giurisprudenza il previo esperimento della fase amministrativa e il decorrere del termine dilatorio di tre mesi richiesto tra la dichiarazione di scioglimento e la proposizione della domanda costituiscono condizione di procedibilità dell'azione (Trib. Milano, sez. IX, 3 giugno 2020).

Il termine dilatorio di tre mesi assolve, infatti, la funzione di garantire alla coppia o all'unito che intenda sciogliere il vincolo un periodo di riflessione, in analogia con quanto avviene nel matrimonio.

Secondo un diverso orientamento, invece, la dichiarazione di voler sciogliere l'unione non costituisce condizione di procedibilità della domanda di scioglimento dell'unione civile che, dunque, può essere pronunziata anche in assenza della fase amministrativa; in questa ipotesi, tuttavia, tra l'udienza presidenziale e la sentenza devono decorrere almeno tre mesi, ovvero quel lasso temporale che, secondo la norma richiamata, deve decorrere tra la dichiarazione resa all'Ufficiale di stato civile e la presentazione del ricorso (Trib. Novara, 5 luglio 2018). Per quanto attiene invece al giudizio, si applicano le norme di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c.e la sentenza di scioglimento dell'unione, al pari di quella di divorzio, ha natura costitutiva.

Ai procedimenti di scioglimento dell'unione si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 4 l. n. 898/1970 (che disciplina il procedimento), art. 5, comma 1 e dal comma 5 al 11,(relativo alla pronuncia di scioglimento, al regime delle impugnazioni e alla disciplina dell'assegno dovuto alla parte debole del rapporto), art. 8(relativo alle garanzie ed all'esecuzione), art. 9(attinente alla modifica delle condizioni di divorzio), art. 9-bis (che disciplina l'assegno a carico dell'eredità), art. 10 (relativo alla decorrenza degli effetti della pronunzia), art. 12

-bis (sul diritto al TFR), art. 12-ter(attinente al diritto alla reversibilità a favore di colui che è stato parte dell'unione civile), art. 12-quater(sulla competenza per le modifiche), art. 12-quinquies (relativo alla disciplina internazionale) e art. 12-sexies (sulla tutela penale).

L'art. 1, comma 25, l. 20 maggio 2016, n. 76prevede, infine, che l'unione civile possa sciogliersi tramite il ricorso al procedimento di negoziazione assistita oppure ricorrendo all'Ufficiale di stato civile.

Casistica

È nulla la sentenza di divorzio se la domanda congiunta è sottoscritta solo dalle parti personalmente

Ritenuto che il carattere decisorio di un provvedimento giudiziale, attribuendo al procedimento camerale natura contenziosa anziché volontaria, comporta l'osservanza inderogabile della regola della c.d. difesa tecnica (alla stessa stregua di ogni altro giudizio contenzioso, regolato secondo il rito ordinario), al cui eventuale difetto consegue la nullità del provvedimento de quo, anche nell'ipotesi di richiesta di divorzio avanzata congiuntamente dai coniugi il carattere decisorio del provvedimento, che il divorzio dispone, postula l'osservanza della regola della c.d. difesa tecnica, trattandosi di un provvedimento che incide su status e su diritti soggettivi e che è assunto con sentenza destinata a passare in giudicato: il carattere «congiunto» della domanda non significa, invero, «consensualità» del divorzio, spettando solo al tribunale la verifica dei suoi presupposti di legge, nonché della rispondenza all'interesse della prole delle condizioni concordate dagli istanti (Cass. civ., sez. I, 7 dicembre 2011, n. 26365).

Legittimazione processuale

È ammissibile la domanda congiunta di divorzio presentata dall'amministratore di sostegno in luogo della parte incapace (Trib. Modena, 26 ottobre 2007).

Accordi attuativi di un trasferimento immobiliare

Sono valide le clausole dell'accordo di divorzio a domanda congiunta, o di separazione consensuale, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, o di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi, o dei figli, al fine di assicurarne il mantenimento; il suddetto accordo di divorzio o di separazione, in quanto inserito nel verbale d'udienza, redatto da un ausiliario del Giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato, assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell'art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo la sentenza di divorzio resa ai sensi della l. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16 ovvero dopo l'omologazione, valido titolo per la trascrizione a norma dell'art. 2657 c.c. (Cass. civile, sez. un., 29 luglio 2021, n. 21761).

La sentenza di divorzio congiunto rappresenta titolo esecutivo quanto alla riscossione delle somme spettanti per assegni mensili in favore dei figli

Il verbale di separazione consensuale e la (eventuale) sopravvenuta sentenza di divorzio congiunto rappresentano titoli esecutivi quanto alla riscossione delle somme spettanti per assegni mensili in favore dei figli. Ne discende che il coniuge assegnatario può senz'altro agire in sede esecutiva per ottenere il versamento dei pregressi assegni mensili, apparendo inammissibile la richiesta di duplicazione del titolo esecutivo in giudizio ordinario mediante condanna del convenuto al pagamento di somme siffatte. Dunque, le pretese di condanna al versamento di mensilità arretrate dell'assegno di mantenimento dei figli (ed oneri accessori) vanno azionate nella normale procedura di esecuzione forzata, con devoluzione della eventuale controversia al Giudice dell'esecuzione (Trib. Genova, sez. IV, 13 settembre 2006).