Comunione legale: scioglimentoFonte: Cod. Civ. Articolo 191
04 Novembre 2020
Inquadramento
Il regime patrimoniale della comunione legale “si scioglie”, in presenza di una serie di cause, indicate dall'art. 191 c.c.. Il termine “scioglimento” parrebbe implicare la divisione dei beni comuni: la comunione ordinaria infatti si scioglie, ai sensi dell'art. 1111 c.c., quando a ciascun comunista, titolare di una quota sulla massa comune, sono assegnati in proprietà esclusiva beni determinati, venendo meno lo stato di indivisione. Per la comunione legale non è invece così; lo scioglimento determina la sopravvenuta mancanza di operatività del regime di comunione legale, con riferimento, pertanto, agli acquisti che i coniugi effettueranno in futuro. I beni, che costituivano oggetto di comunione legale, continuano ad essere comuni, con l'assoggettamento al regime della comunione ordinaria ex artt. 1100 ss. c.c.; ciò fatta salva la particolare disciplina sulla divisione di cui agli artt. 194 ss. c.c., che sola consente l'eliminazione della perdurante comunione e rappresenta, dunque, una facoltà che i coniugi possono eventualmente esercitare, intervenuta una causa di scioglimento della comunione. Da tanto consegue che, intervenuto lo scioglimento della comunione legale, ciascun coniuge può, liberamente e separatamente, alienare la propria quota di ogni singolo cespite, che ne faceva parte, essendo venuta meno l'esigenza di tutela del coniuge a non entrare in rapporto di comunione con estranei (Cass. 5 aprile 2017, n. 8803). Lo scioglimento della comunione determina l'ulteriore effetto dell'ingresso nel patrimonio comune dei beni oggetto di comunione de residuo.
Cause di scioglimento
L'art. 191 c.c. elenca le cause di scioglimento della comunione legale: assenza, morte presunta, annullamento del matrimonio, divorzio, separazione personale, mutamento convenzionale del regime patrimoniale, separazione giudiziale dei beni, fallimento di uno dei coniugi. Si tratta per lo più di eventi che incidono sul vincolo coniugale, affievolendolo o sciogliendolo; diversa è invece la ratio delle altre cause, previste dalla norma. Ad esse va aggiunta la morte di uno dei coniugi, che determina la cessazione del matrimonio stesso ex art. 149 c.c.. In giurisprudenza si è precisato che anche la pronuncia di nullità ecclesiastica del matrimonio concordatario, una volta delibata, determina lo scioglimento della comunione, con effetto ex nunc: i beni comuni, dunque, devono essere suddivisi in parti uguali, senza possibilità di provare differenti apporti patrimoniali dei coniugi (Cass. 24 luglio 2003, n. 11467). Momento di scioglimento
Argomento assai dibattuto, specie in dottrina, (v. per un riscontro Gennari G., in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti P., III, Giuffrè 2012, 392; Sesta M. (a cura di), Codice della famiglia, Giuffrè, 2015, 376) riguarda il momento del verificarsi dello scioglimento della comunione legale, posto che, prima della novella dell'art. 191 c.c., attuata con l. 6 maggio 2015, n. 55, nulla disponeva di preciso la normativa, salvo per quanto attiene la separazione giudiziale dei beni (cfr. l'art. 193 c.c. fa retroagire quel momento al giorno della proposizione della domanda). Per alcune delle cause sopra individuate il problema è agevole: la data della morte del coniuge, come quella del mutamento convenzionale del regime, stipulato per atto pubblico ex art. 162 c.c., segnano lo scioglimento della comunione. Per altre invece, che presuppongono un procedimento giudiziale, non è così. Quanto alla dichiarazione di assenza, e di morte presunta si fa riferimento alla data di eseguibilità della sentenza, a quella dell'ultima notizia, ovvero dal giorno indicato dalla pronuncia come quello di morte, piuttosto che, con effetto retroattivo, al momento di presentazione della domanda. Per i casi (piuttosto rari nella pratica) di divorzio non preceduto da un periodo di separazione (c.d. “divorzio immediato”), ci si riferisce alla data di passaggio in giudicato della sentenza, a prescindere dall'annotazione della decisione nei registri dello stato civile. Per il fallimento, deve farsi riferimento alla data del deposito in cancelleria della sentenza definitiva, che abbia a dichiararlo. La causa di scioglimento della comunione legale più frequente nella pratica è rappresentata dalla separazione personale. Al riguardo, prima dell'entrata in vigore della l. 6 maggio 2015, n. 55, si era pervenuti a conclusioni consolidate. Occorreva in primo luogo distinguere fra separazione giudiziale e consensuale. In presenza di separazione giudiziale, lo scioglimento si riteneva avvenire ex nunc con l'emanazione della sentenza definitiva; se peraltro, come avviene solitamente, vi fosse stata un'impugnazione quanto alle statuizioni accessorie (addebito, affidamento dei figli, assegno per coniuge e figli, assegnazione della casa), si sarebbe formato il giudicato sul presupposto della separazione stessa (l'intollerabilità della convivenza), con conseguente scioglimento della comunione legale (Cass., S.U., 4 dicembre 2001, n. 15279; Cass. 16 aprile 2012, n. 5972). Soccorreva peraltro già l'art. 709-bis c.p.c., che ammette la possibilità di una sentenza non definiva di separazione (in aderenza a quanto da tempo previsto dall'art. 4, comma 12, della l. n. 898/1970, quanto al divorzio); ad essa, quando emessa, doveva farsi riferimento quale momento di scioglimento della comunione legale. Per unanime dottrina e giurisprudenza (Cfr. Sesta M.(a cura di), Codice della famiglia, Giuffrè 2015, 381; C. cost. 7 luglio 1988, n. 795) l'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c.non avrebbe inciso sul regime patrimoniale dei coniugi. Il quadro normativo è stato profondamente modificato con l'entrata in vigore della l. n. 55/2015 (meglio conosciuta come quella del “divorzio breve”). L'art. 2 di detta legge ha infatti integrato l'art. 191 c.c.; in oggi, l'ordinanza con la quale il presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, nell'ambito di un procedimento di separazione giudiziale, determina lo scioglimento della comunione. Analogamente, in caso di separazione consensuale, è previsto che detto scioglimento avvenga alla data di sottoscrizione del verbale, purché lo stesso sia omologato. Dispone l'art. 3 della citata l. n. 55/2015 che la nuova disciplina si applichi anche ai procedimenti in corso; dunque, è da ritenere che, alla data dell'entrata in vigore della legge (26 maggio 2015), i coniugi che siano già stati autorizzati a vivere separati dal presidente del Tribunale, vedranno sciolto il regime di comunione legale in essere. Di tanto occorre tener ben presente, ai fini della determinazione del momento di formazione della c.d. comunione de residuo. Va al riguardo rammentato che il nuovo art. 191 c.c. prevede oggi che l'ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all'ufficiale dello stato civile, ai fini dell'annotazione dello scioglimento della comunione, a margine dell'atto di matrimonio. Ragioni sistematiche inducono a ritenere, nel silenzio della norma, che detta trasmissione debba riguardare solo i coniugi in regime di comunione legale. Negoziazione assistita
La nuova disciplina di cui alla l. n. 55/2015 manca di coordinamento con la procedura di negoziazione assistita. È lecito domandarsi quando, in questo caso, intervenga lo scioglimento della comunione, ove la procedura si sia definita ex art. 6 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito nella l. 10 novembre 2014, n. 162; sul punto sono già state espresse opinioni contrastanti. Pare doversi farsi riferimento alla data dell'autorizzazione del Pubblico Ministero alla trasmissione dell'accordo all'ufficiale di stato civile, in presenza di figli; ed invece a quella dell'accordo intercorso tra i coniugi, se semplicemente assoggettato a nulla osta della Procura. In caso di separazione o divorzio, definiti innanzi all'ufficiale di stato civile ex art. 12 del d.l. n. 132/2014, la comunione dovrebbe sciogliersi al momento della conferma dell'accordo. Riconciliazione
Se dopo la separazione personale, attuata con le varie procedure in precedenza richiamate, interviene riconciliazione, vengono meno tutti gli effetti della separazione medesima e tra i coniugi si ricostituisce il regime di comunione legale, con effetti ex tunc, ricomprendendo anche gli acquisti, effettuati separatamente durante il periodo di separazione; il ripristino della comunione legale non è peraltro opponibile ai terzi, che abbiano acquistato in buona fede da chi appariva unico proprietario del bene alienato (Cass. 5 dicembre 2003, n. 18619). Nei rapporti tra i coniugi, la comunione legale si scioglie al verificarsi di una delle cause previste per legge. Differente è invece il regime dell'opponibilità dello scioglimento ai terzi. In base all'art. 69 d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (nuovo ordinamento dello stato civile), sono annotate a margine dell'atto di matrimonio:
La dichiarazione di fallimento è l'unica causa di scioglimento della comunione legale, che non viene annotata nei registri dello stato civile; l'art. 16, comma 2, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (come modificato con d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169) prevede infatti che gli effetti della relativa sentenza, nei riguardi dei terzi, si producono dalla data di iscrizione della stessa nel registro delle imprese. Già si è visto che in oggi devono essere annotate a margine dell'atto di matrimonio anche le ordinanze presidenziali con cui i coniugi sono autorizzati a vivere separati, posto che quei provvedimenti determinano lo scioglimento della comunione legale. Azienda coniugale
In base all'art. 177 lett. d) c.c., le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio cadono in comunione immediata. L'art. 191 comma 2 c.c. prevede che, mantenendo il regime di comunione legale, entrambi i coniugi possono convenire lo scioglimento della comunione limitatamente a dette aziende, purché nella forma delle convenzioni matrimoniali ex art. 162 c.c.. Si è precisato in giurisprudenza che la particolare disciplina sullo scioglimento “parziale” della comunione dell'azienda presuppone che non si sia verificata una delle cause generali di scioglimento della comunione legale di cui all'art. 191 comma 1 c.c. (Cass. 11 novembre 1996, n. 9846). Divisione
Allo scioglimento della comunione segue la fase (eventuale) della divisione, che si effettua ripartendo in parti uguali l'attivo ed il passivo, come prevede l'art. 194 c.c.. (Cass. 28 dicembre 2018, n. 33546) La divisione dei beni può essere effettuata in forma contrattuale, ovvero giudizialmente (in mancanza di specifica normativa ad hoc, troveranno applicazione, in quanto compatibili, le previsioni generali di cui agli artt. 713 ss. c.c.). La divisione richiede che si sia già verificata una causa di scioglimento della comunione. La giurisprudenza, in precedenza, con riferimento al giudicato sulla separazione personale, riteneva che detto scioglimento rappresentasse presupposto processuale e, quindi, dovesse essersi già verificato al momento della proposizione della domanda divisionale (Cass. 25 marzo 2003, n. 4351; Cass. 18 settembre 1998, n. 9325). Successivamente, esso è stato qualificato come condizione dell'azione: la causa di scioglimento (e, nella specie, il giudicato sulla separazione personale) potrebbe dunque intervenire anche nel corso del giudizio di divisione, purché prima della decisione, pena l'improcedibilità della domanda (Cass. 26 febbraio 2010, n. 4757). La divisione può riguardare singoli cespiti, ovvero tutti quelli compresi nella comunione. Ne consegue che il convenuto, in via riconvenzionale, potrà estendere l'ambito del giudizio oltre quello individuato dall'attore, che avesse inteso chiedere la divisione solo di alcuni beni e non di altri. Le regole, in base alle quali procedere alla divisione, sono individuate dettagliatamente dagli artt. 192 ss. c.c.. In fase di divisione deve farsi luogo ai “rimborsi” e alle “restituzioni”, indicati dall'art. 192 c.c., sia che si tratti di somme a suo tempo prelevate dal patrimonio comune per fini differenti dall'adempimento delle obbligazioni di cui la comunione deve rispondere (art. 186 c.c.), sia si tratti di denari prelevati dal patrimonio personale, per far fronte alle esigenze della comunione (Cass. 6 marzo 2019, n. 6459). Si è precisato in giurisprudenza come il riconoscimento del debito, operato da uno dei coniugi in favore della comunione, non comporta modifica di convenzioni matrimoniali e non richiede pertanto la forma dell'atto pubblico (Cass. 30 marzo 2018, n. 7957).Mette conto rammentare che devono essere restituiti soltanto gli importi impiegati in spese ed in investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l'acquisto di un bene facente parte della comunione (Cass. 9 novembre 2012, n. 19454); in caso contrario verrebbe meno la stessa ratio della comunione legale. Occorre poi procedere al prelevamento, dalla massa comune, dei beni personali di ciascun coniuge; il carattere personale del bene può essere provato, nei rapporti tra i coniugi, con ogni mezzo. In mancanza di prova, il bene mobile si presume comune (art. 195 c.c.). Regole diverse valgono invece quanto alla prova della personalità del bene nei confronti del terzi (art. 197 c.c.). Qualora uno dei coniugi, dopo lo scioglimento della comunione, rimanga nel possesso esclusivo di beni fruttiferi (sovente immobili), già appartenenti alla comunione legale, è tenuto al pagamento, in favore dell'altro, del corrispettivo pro quota, di tale godimento, quale frutto spettante ex lege (Cass. 24 maggio 2005, n. 10896).
Orientamenti a confronto
Divisione di conti correnti e depositi bancari
La presunzione di comunione si applica anche al denaro rinvenuto al momento dello scioglimento della comunione legale. Detta presunzione può essere vinta peraltro tramite la prova che il denaro rappresenta bene personale e non costituisce frutto, ovvero provento ai sensi dell'art. 177 lett. b) e c) c.c., operando altrimenti la comunione de residuo. Nel caso di denaro depositato su conto corrente cointestato ad entrambi i coniugi, anche in regime di comunione legale, la cointestazione fa solo presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto, salva prova contraria (art. 1298 c.c.); la disciplina della comunione legale coinvolge esclusivamente gli “acquisti” e non inerisce invece a rapporti meramente creditizi, quali quelli connessi all'apertura di un conto corrente o deposito cointestato. Il coniuge può pertanto provare che il conto è stato alimentato in via esclusiva o prevalente con i propri apporti e chiedere la restituzione di quanto prelevato dall'altro senza titolo; lo stesso coniuge potrà inoltre richiedere la divisione del saldo per quote differenti, in relazione ai diversi apporti. Proprio perché il conto corrente non fa parte della comunione legale, la relativa divisione potrà chiedersi, a prescindere dall'esistenza dello scioglimento della comunione medesima (Cass. 27 aprile 2004, n. 8002). Costituzione di usufrutto
Dispone l'art. 194 comma 2 c.c. che il giudice, in corso del giudizio di divisione, in relazione alle necessità della prole e al suo affidamento, può costituire in favore di uno dei coniugi l'usufrutto su una parte dei beni spettanti all'altro. Si tratta di previsione, finalizzata a garantire al meglio l'adempimento delle obbligazioni nei confronti dei figli, necessariamente minorenni (Cass. 9 aprile 1994, n. 3350). Si ritiene in dottrina (per tutti v. Sesta M. (a cura di), Codice della famiglia, Giuffrè, 2015, 897) che l'usufrutto in questione abbia caratteri di peculiarità rispetto a quello ordinario e cessi con il venir meno delle esigenze della prole, ovvero con il sopravvenire della maggiore età. Casistica
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