Il computo delle azioni proprie nei quorum costitutivi e deliberativi delle società chiuse

Alessandro Simioniato
12 Dicembre 2024

La Cassazione offre interessanti spunti di riflessione in merito al computo delle azioni proprie nei quorum (costitutivi e deliberativi) delle società per azioni non quotate.

Massima

L'art. 2357-ter c.c. si esprime nel senso che, per le società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, le azioni proprie devono sempre essere conteggiate nel calcolo sia dei quorum assembleari costitutivi che di quelli deliberativi.

Il caso

Il Tribunale di Milano aveva annullato la deliberazione dell'assemblea dei soci di una S.p.a. con cui era stata disposta l'assegnazione gratuita, in favore dei soci, proporzionalmente alle rispettive partecipazioni, delle azioni proprie della medesima società perché il presidente dell'assemblea – pur conformandosi all'ordine impartitogli in sede cautelare dallo stesso Tribunale di prendere in considerazione le azioni proprie al fine del computo della maggioranza deliberativa necessaria – aveva poi escluso dal conteggio i voti espressi dal socio di minoranza in ragione di un asserito conflitto di interessi. Il Tribunale aveva, inoltre, pronunciato condanna generica al risarcimento del danno nei confronti del presidente dell'assemblea e degli amministratori in favore dei soci di minoranza. La Corte d'Appello di Milano aveva confermato la sentenza di primo grado affermando che le azioni proprie andavano computate nel quorum deliberativo; aveva, inoltre, negato che tra i poteri del presidente dell'assemblea rientrasse quello di escludere dal computo del quorum il voto di soci in conflitto di interesse, ritenuto comunque nei fatti insussistente; aveva riconosciuto, infine, la responsabilità risarcitoria di tutti gli amministratori della società, che non avevano contrastato l'operato del presidente dell'assemblea e avevano poi dato esecuzione alla delibera approvata.

Avverso la decisione della Corte meneghina la società e gli altri soccombenti proponevano sei motivi di ricorso, con il primo dei quali – qui di interesse – veniva denunciata la violazione e falsa applicazione dell'art. 2357-ter c.c.: l'interpretazione della norma offerta dalla Corte d'appello, ad avviso dei ricorrenti, non avrebbe basi testuali, sarebbe incoerente con la logica del sistema, implicherebbe conseguenze applicative inaccettabili, risulterebbe in contrasto col diritto unionale (segnatamente, con gli artt. 63.1, lett. a) e 83 della dir. 2017/1132/UE); la disposizione, per come interpretata, sempre secondo i ricorrenti, si porrebbe anche in contrasto con la Costituzione.

Le questioni giuridiche

Il motivo di ricorso qui esaminato ripropone una questione che la S.C. aveva già affrontato – peraltro nell'ambito di un giudizio che vedeva contrapposte alcune delle parti qui in contesa – nella sentenza 2 ottobre 2018, n. 23950: la Corte ha ritenuto di dare continuità a quell'orientamento, ritenendo prive di fondamento tutte le censure dei ricorrenti.

È principio generale quello per cui le azioni che non conferiscono diritto di voto non sono computate nei quorum assembleari (art. 2368, comma 1, c.c.). Salva diversa disposizione di legge, si computano, invece, nei quorum costitutivi, come intervenute, ma non in quelli deliberativi, le azioni per le quali il diritto di voto non può essere esercitato (art. 2368, comma 3, c.c.; è questo il caso, ad esempio, delle azioni del socio moroso ex art. 2344 c.c. e quelle del socio in conflitto di interessi che decida di astenersi).

Una diversa disposizione di legge è contenuta nell'art. 2357-ter, comma 2, c.c., in materia di azioni proprie; la disciplina circa la loro rilevanza ai fini dei quorum è oggi diversificata per le società che fanno ricorso o che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. L'art. 2357-ter c.c. prevede, infatti, al secondo comma, per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, che il diritto di voto delle azioni proprie sia sospeso, “ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e le deliberazioni dell'assemblea”; per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio vale, invece, la regola opposta, dettata dal richiamato art. 2368, comma 3, c.c., a norma del quale le azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell'assemblea, ma “non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l'approvazione della deliberazione”.

Sotto la vigenza del codice civile del 1942, che non recava nessuna specifica disposizione in ordine al computo delle azioni proprie nei quorum, la dottrina prevalente e la giurisprudenza di merito escludevano le azioni proprie dal computo dei quorum assembleari, sia costitutivi che deliberativi (G. FRÈ, Società per azioni, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1972, 260; F. FERRARA, Gli imprenditori e le società, Milano, 1971, 414); l'argomento principale a sostegno di questa tesi era quello per cui, se si fossero dovute computare nei quorum le azioni proprie, stante la mancanza di limiti al loro acquisto, si sarebbe potuta determinare la paralisi dell'organo assembleare in tutti i casi in cui la quota di capitale rappresentata dalle azioni proprie fosse tale da impedire, in astratto o in concreto, il raggiungimento dei quorum deliberativi richiesti dalla legge e calcolati sul complesso delle azioni aventi diritto di voto (Trib. Udine, 3 gennaio 1985, in Dir. fall., 1985, II, 496). Il risultato di questa interpretazione era inevitabilmente quello di facilitare il raggiungimento della maggioranza assoluta per gli azionisti di maggioranza relativa.

L'attuazione della Seconda direttiva societaria del 1977 (Direttiva 77/91/CEE), ad opera del d.p.r. 10 febbraio 1986, n. 30, poneva rimedio a questa situazione, da un lato introducendo il limite del dieci per cento all'acquisto e al possesso di azioni proprie, ma anche prevedendo, con l'introduzione dell'art. 2357-ter c.c., al comma 2, che per le azioni proprie il diritto di voto fosse sospeso, ma che le stesse andassero “tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell'assemblea; in questo modo risultava tutelata la minoranza e, al contempo, il rischio di stallo era significativamente circoscritto dal limite all'acquisto delle azioni proprie fissato al dieci per cento del capitale.

Nel vigore della precedente formulazione della norma (che faceva testualmente riferimento, come appena rilevato, al computo “nel capitale”) era, tuttavia, rimasto controverso se le azioni proprie dovessero computarsi solo nei quorum che fanno riferimento al capitale sociale come base di calcolo – e cioè i quorum deliberativi previsti dall'art. 2368, comma 2, c.c., dall'art. 2369, comma 3 e comma 5, e dall'art. 2441, comma 5, c.c. (oggi soppresso) – ovvero se valesse anche negli altri casi, in cui i quorum deliberativi fanno riferimento al capitale rappresentato dagli intervenuti (o “rappresentato in assemblea”: cfr. artt. 2368, comma 1 e 2369, comma 3, c.c.).

Mentre la prima soluzione valorizza l'interesse a che la formazione della volontà assembleare non sia penalizzata e sfoci nella sostanziale e perdurante inattività dell'organo deliberativo, la seconda evita che l'acquisto di azioni proprie possa alterare il peso delle partecipazioni azionarie all'interno dell'assemblea a vantaggio del gruppo di maggioranza. Entrambe le soluzioni presentano, per converso, inevitabili inconvenienti: il mancato computo delle azioni proprie nei quorum della prima opzione interpretativa può consentire al socio di maggioranza relativa una prevalenza nei processi deliberativi, convertendo, di fatto, una maggioranza relativa in una maggioranza assoluta; adottando la seconda soluzione, invece, si conferisce ai soci di minoranza un peso maggiore rispetto a quello che avrebbero se le azioni proprie fossero distribuite proporzionalmente tra tutti i soci. Per la prima soluzione si era espressa una parte della giurisprudenza (Trib. Roma 11 marzo 2005, n. 5879, in Foro it., 2006, I, 293; Trib. Roma 14 giugno 2005, in Riv. notariato, 2006, 1584, con nota contraria di C. Ungari Trasatti; Cass. civ. 16 ottobre 2013, n. 23540 e 23541, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, con nota contraria di G.M. D'Aiello) e la dottrina minoritaria (V. Salafia, Computo di azioni proprie ai fini del quorum deliberativo di assemblea di s.p.a., in Società, 2004, 1417; L. Ardizzone, Incidenza delle azioni proprie sul quorum dell'assemblea ordinaria in seconda convocazione, in Riv. commercialisti, 2006, 131), mentre nel senso opposto si era pronunciata altra parte della giurisprudenza (Trib. Roma 21 aprile 2004, in Soc., 2004, 1411, pronuncia confermata da App. Roma 11 settembre 2008, n. 3558; App. Roma 7 ottobre 2010, n. 4035; App. Roma 5 aprile 2012, n. 1916; Trib. Milano 9 luglio 2012, in Giur. It., 2013, I, 81, con nota adesiva di A. Bertolotti; Trib. Milano 27 aprile 2012) e la dottrina nettamente maggioritaria (G. Partesotti, Le operazioni sulle azioni, in Tratt. Colombo-Portale, 2*, Torino, 1991, 440; G. Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1999, 353; S. Di Amato, sub art. 2368, in La riforma del diritto societario. Società per azioni. Azioni, società collegate e controllate. Assemblee, a cura di Lo Cascio, Milano, 2003, 311 s.; M. Bione, sub art. 2357-ter, in Comm. Niccolini-Stagno d'Alcontres, Napoli, 2004, 374; S.A. Cerrato, Le azioni proprie tra diritto interno riformato e prospettive comunitarie, in Riv. Soc., 2004, 386; C.E. Pupo, Quorum assembleari e diritto d'intervento nella nuova società per azioni, in Riv. Soc., 2005, 847; F. Laurini, sub artt. 2368-2369, in Assemblea, a cura di Picciau, in Comm. Marchetti-Bianchi-Ghezzi-Notari, Milano, 2008, 92; F. Tassinari, sub artt. 2368-2369, in Comm. d'Alessandro, II, 1, Padova, 2010, 611; N. Abriani, in Le società per azioni, in Trattato Cottino, Padova, 2010, 480 s. Nello stesso senso si era espressa anche Assonime, L'assemblea della società per azioni, Circolare n. 37 del 6 agosto 2004).

Abolito il limite quantitativo all'acquisto di azioni proprie per le società chiuse ed elevato quello per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il legislatore ha ritenuto di dover tornare sul punto col d.lgs. 29 novembre 2010 n. 224, differenziando i regimi di computo delle azioni proprie: per le società chiuse è stata espressamente confermata la regola di protezione delle minoranze (eliminando nel secondo comma dell'art. 2357-ter c.c. il riferimento al computo “nel capitale” – che era, come detto, il principale argomento testuale valorizzato dai sostenitori della citata tesi minoritaria – sostituito con la locuzione “ai fini del calcolo della maggioranza”), mentre per le società aperte è stata favorita l'esigenza di funzionalità delle assemblee; anche la Relazione al predetto decreto chiarisce che, nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, “le azioni proprie sono sempre computate ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e le deliberazioni dell'assemblea, e, in quest'ultimo caso, anche quando la legge non assume il capitale sociale a denominatore per il calcolo dei quorum assembleari. Si evita così che l'acquisto di azioni proprie (effettuato con risorse comuni) diventi strumentale alla modifica del peso organizzativo delle partecipazioni all'interno dell'assemblea (a ingiustificato vantaggio di alcuni e a danno di altri)” (in dottrina, dopo la riforma, per tutti, N. De Luca, Operazioni sulle proprie azioni, in Trattato delle società a cura di Donativi, Torino, 2022, II, 789).

Ciò nondimeno, anche dopo la riformulazione nel secondo comma dell'art. 2357-ter c.c. un isolato precedente (Trib. Roma, 19 luglio 2012, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, II, 316, con nota contraria di E. Ginevra; in dottrina, anche dopo la riforma, per questa tesi, M. Notari, Il computo delle azioni proprie ai fini del calcolo dei quorum assembleari, in Riv. Soc., 2015, 420) aveva ritenuto, con particolare riferimento alle assemblee ordinarie di seconda convocazione, che le azioni proprie non si dovessero computare nel quorum deliberativo; la sentenza veniva riformata da App. Roma, 5 ottobre 2016 (in Riv. Dir. Soc., 2017, 2, 208, con nota adesiva di N. De Luca e A. Napolitano; nello stesso senso anche Trib. Milano, 31 agosto 2016, ibidem), a sua volta confermata da Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950, cit., cui ha dato conferma la sentenza qui in commento.

Osservazioni

Numerosi sono gli argomenti addotti dalla sentenza in commento a sostegno della soluzione che consolida l'orientamento della giurisprudenza di legittimità nel senso di considerare sempre le azioni proprie nei quorum. Il primo argomento è di tenore letterale: come già osservato, nell'attuale versione della disposizione è venuto meno il riferimento al capitale e ciò fa venir meno il principale argomento testuale su cui si fondava la tesi contraria; proprio la distinzione tra la vecchia e la nuova formulazione della norma rende evidente la volontà legislativa di fissare un criterio di computo delle azioni non legato all'interpretazione da assegnare alla locuzione “capitale” (se cioè il capitale sociale o il capitale rappresentato in assemblea). Questa interpretazione trova poi conferma, come visto, nella relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 224 del 2010 che, come tutti i contributi riconducibili ai lavori parlamentari, assume valore, sia pur sussidiario, nell'interpretazione della legge.

La volontà espressa dal legislatore trova ragione nell'esigenza, ben evidenziata da Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950,cit., e richiamata dalla sentenza in commento di impedire, nelle società “chiuse”, che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri dei soci e, più in generale, che risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale: la prospettiva funzionale associata alla norma vigente è dunque rovesciata rispetto a quella che poteva accostarsi alla precedente versione del testo legislativo, ove era dominante il fine di evitare situazioni di stallo rispetto a decisioni dalle quali dipendesse la stessa sopravvivenza della società.

Entrambe le soluzioni, come sopra rilevato, presentano inevitabili inconvenienti: si deve quindi semplicemente prendere atto che il legislatore, facendo uso della propria discrezionalità, di fronte a più soluzioni astrattamente ipotizzabili, ha optato per il criterio che più si mostrava capace di preservare gli equilibri preesistenti all'acquisto delle azioni proprie da parte della società. Peraltro, appare coerente anche la differente soluzione adottata per le società "chiuse" e quelle "aperte": escludendo per queste ultime che le azioni proprie siano incluse nel quorum deliberativo, si consente che la maggioranza si formi in modo più agevole nelle società dove l'azionariato è diffuso.

La S.C. ha escluso, inoltre, che la scelta del legislatore italiano sia contrastante col principio di pari trattamento degli azionisti che si trovano in condizioni identiche, di cui all'art. 85 dir. 2017/1132/UE. Il diritto unionale si limita, infatti, a prevedere che il voto delle azioni proprie è sospeso (art. 63.1 dir. 2017/1132/UE), senza nulla prescrivere quanto al modo con cui le stesse debbano essere calcolate nella formazione dei quorum assembleari, con ciò ammettendo entrambe le soluzioni; peraltro, affrontando la questione dall'angolo degli effetti, l'opzione espressa dal legislatore italiano, escludendo che le azioni proprie alterino il peso delle partecipazioni sociali tra maggioranza e minoranza in seno all'assemblea, detta una regola ispirata ad un principio di neutralità astratta che risulta pienamente in linea con gli obiettivi del legislatore unionale.

Le questioni di costituzionalità sollevate dai ricorrenti (la prima basata sul rilievo per cui le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 224/2010 sarebbero viziate da eccesso di delega; la seconda incentrata sull'asserita irragionevolezza della soluzione legislativa, che avrebbe mutato gli equilibri tra i soci di maggioranza e quelli di minoranza “incidendo sulle modalità deliberative vigenti all'epoca in cui vennero acquistate le azioni proprie”) sono state giudicate manifestamente infondate: in particolare, l'eccesso di delega è stato escluso perché l'attività di "riempimento" normativo spettante al legislatore delegato comprendeva la facoltà di definire un nuovo assetto della materia in cui la previsione del limite all'acquisto di azione proprie, non più necessitato dalla prescrizione comunitaria, era mancante; sotto il secondo profilo, è stato correttamente ritenuto che la nuova disciplina non sia retroattiva, posto che essa regola, per il tempo successivo alla sua entrata in vigore, i processi deliberativi delle assemblee delle società con azioni proprie. La retroattività o irretroattività della norma, infatti, deve misurarsi col portato precettivo di questa, non con la situazione di fatto che ne costituisce il presupposto. Correttamente, pertanto, la Corte ha ritenuto non è pertinente nella fattispecie in esame quello scrutinio di costituzionalità che si impone a fronte di norme che dispongono per il passato.

Conclusioni

La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione appare condivisibile perché è l'unica rispettosa della scelta legislativa del 2010, che ha espressamente differenziato il regime del computo delle azioni proprie tra le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, per le quali è stato scelto di assegnare prevalenza all'esigenza di evitare che l'acquisto di azioni proprie possa alterare il peso delle partecipazioni azionarie all'interno dell'assemblea a vantaggio del gruppo di maggioranza, finendo per incidere sugli equilibri di governance, e le società “aperte”, per le quali è stata privilegiata l'esigenza di evitare situazioni di stallo.

Che il termine “maggioranza” – adottato nel testo della norma dopo la riforma del 2010 in luogo del riferimento al “capitale” che aveva cagionato i descritti problemi interpretativi –  possa ancora consentire una lettura della norma contenuta nell'art. 2357-ter, comma 2, c.c., nel senso di differenziare il rilievo delle azioni proprie tra i quorum che fanno riferimento al capitale sociale come base di calcolo e quelli che fanno riferimento fanno riferimento al capitale rappresentato dagli intervenuti, finisce per postulare l'obiettiva inutilità e, quindi, la sostanziale irragionevolezza dell'intervento legislativo del 2010.

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