Amministratore di fatto e reati fallimentari
07 Febbraio 2025
L’amministratore di fatto di una società in liquidazione giudiziale può essere chiamato a rispondere di un reato fallimentare? I reati fallimentari rientrano nella categoria dei c.d. reati propri, di quei reati, cioè, che possono essere compiuti solo da chi ricopre una determinata qualifica. È tuttavia possibile che chi non ha la qualifica richiesta possa comunque essere chiamato a rispondere di un reato proprio, in questo caso di un reato fallimentare, a titolo di concorso, se dà un contributo rilevante e cosciente alla fattispecie criminosa integrata da chi quella qualifica riveste. Tuttavia, l’amministratore di fatto di una società è tale in quanto esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici di una data qualifica o funzione, senza esserne mai stato investito. L’art. 2639 c.c. equipara il soggetto formalmente investito della qualifica o il titolare della funzione a chi, appunto, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. Va da sé che l’amministratore di fatto di una società risponde del proprio operato in sede penale non quale estraneo in concorso con gli organi legali della società ma nella sua qualità di diretto destinatario della norma (Cass. pen., 13 dicembre 2019, n. 2727; Cass. pen., 3 luglio 2017 n. 31906). La medesima pronuncia (Cass. pen. 2727/19 cit.) richiama la giurisprudenza della Corte di Cassazione, “secondo cui sull’amministratore di fatto gravano tutti i doveri incombenti su quello di diritto (Sez. 5, n. 39593 del 20/05/2011, Assello, Rv. 250844, che ha affermato il principio, già noto in materia di bancarotta per distrazione, secondo cui "In tema di reati fallimentari, l’amministratore "di fatto" della società fallita è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore "di diritto", per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili".”. Altra giurisprudenza della suprema Corte (Cass. pen., sez. V, 26 giugno 2013, n. 45671) ha chiarito come appaia consolidato all’interno della giurisprudenza di legittimità anche l’orientamento secondo cui la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 c.c., postuli l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione, anche se “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale. La posizione dell’amministratore di fatto - specifica la medesima pronuncia - destinatario delle norme incriminatrici (nel caso esaminato) della bancarotta fraudolenta, dunque, va determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. Secondo i Supremi Giudici, quindi, la disciplina sostanziale - specificano ancora - si traduce, in via processuale, nell’accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi - rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti - in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare. La Suprema Corte ha anche sottolineato che, «perché si possa configurare il ruolo di amministratore di fatto di una società non è indispensabile una visibilità di tale ruolo anche all’esterno. La funzione può ben essere svolta nell’ombra facendo apparire all’esterno il solo amministratore di diritto; ciò che rileva è solo che le decisioni siano da ricondurre alla volontà dell’amministratore di fatto, eventualmente anche in concorso con l’amministratore di diritto che non necessariamente deve avere avuto il ruolo di un mero prestanome» (Cass. Pen., sez. V, 06 maggio 2008, n. 35955). In conclusione, l’amministratore di fatto di una società risponde penalmente del proprio operato in modo personale e diretto e non quale concorrente in un reato proprio. Ciò che conta è che egli eserciti, o abbia esercitato, in modo continuativo e significativo i poteri tipici di una data qualifica o funzione, sebbene non ne sia mai stato investito, e che le decisioni prese in ambito gestorio siano riconducibili alla sua volontà. Bussole di inquadramento |