Risoluzione di appalto pubblico e ammissione al passivo del credito risarcitorio
11 Marzo 2025
Massima In tema di appalto pubblico disciplinato dal d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 ("Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE"), e ai fini della cd. cristallizzazione del passivo del fallimento, l'esercizio, da parte della stazione appaltante, del potere di autotutela procedimentalizzato dall'art. 136 del d.lgs. citato, presuppone la valutazione del "grave inadempimento" dell'appaltatore, nel contraddittorio con quest'ultimo, e si perfeziona solo con il provvedimento con cui la stazione appaltante, su proposta del responsabile del procedimento, "dispone la risoluzione del contratto", senza che possa ipotizzarsi, quanto agli adempimenti preliminari di cui all'art. 136 cit., alcun effetto prenotativo analogo a quello proprio delle domande giudiziali di risoluzione del contratto ex art. 2652 n. 1) c.c. Il caso Alfa aveva affidato a Beta, in Associazione temporanea con altra impresa, l'esecuzione di lavori di ristrutturazione di immobili. Dopo il fallimento di Beta, Alfa aveva chiesto l'ammissione al passivo della procedura, in via chirografaria, del credito maturato in forza della risoluzione del contratto di appalto pubblico per grave inadempimento dell'appaltatore. Il Giudice Delegato del fallimento ha escluso l'ammissione in quanto la risoluzione del contratto di appalto era avvenuta dopo la declaratoria di fallimento della società, non ritenendo – quindi – che detto credito potesse ritenersi un credito concorsuale, ancorché la genesi di tale credito fosse riferito a fatti anteriori all'apertura del concorso. Alfa proponeva opposizione avverso detto provvedimento, rigettata dal Tribunale per i medesimi motivi di esclusione adottati dal Giudice Delegato della procedura. Alfa interponeva quindi ricorso per cassazione deducendo, con due motivi di ricorso:
La questione La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo completamente infondati entrambi i motivi proposti. La Suprema Corte è passata ad esaminare, dapprima, il secondo motivo di ricorso in tema di “motivazione apparente” e, poi, il motivo relativo al dedotto vizio di violazione o falsa applicazione dell'art. 136 del d.lgs. n. 163/2006 ratione temporis applicabile. Per quanto attiene alla motivazione della sentenza del Tribunale che, secondo la tesi della ricorrente, avrebbe fatto un mero rinvio al provvedimento del Giudice Delegato senza alcun vaglio critico dei motivi di opposizione, la Suprema Corte – come da giurisprudenza costante - ha stabilito che è del tutto legittimo ed ammissibile un provvedimento giurisdizionale che faccia rinvio ad atti presenti nel fascicolo processuale, senza la necessità che gli stessi siano trascritti, con la conseguenza che non risulta in alcun modo viziata la sentenza che sia motivata mediante richiamo di un atto di parte, anche senza nulla aggiungere allo stesso, a condizione che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante le ragioni su cui la decisione si fonda (Cass, sez. un., 642/2015). Nel caso in esame la Corte ha ritenuto che fosse esattamente individuato il punto interpretativo controverso (interpretazione dell'art. 136 del d.lgs. n. 163/2006), con la conseguenza che il Tribunale, nel condividere la tesi del Giudice Delegato piuttosto che quella dell'opponente, ha correttamente assolto all'obbligo di motivazione del provvedimento, senza che ricorra alcuna violazione del diritto di difesa del ricorrente. Per quanto attiene al denunciato vizio di violazione o falsa applicazione dell'art. 136 del d.lgs. 163/2006, secondo la tesi della stazione appaltante, l'avvio del procedimento amministrativo di risoluzione del contratto di appalto avviato prima della declaratoria di fallimento consentirebbe l'ammissione al passivo del credito risarcitorio - quale credito concorsuale – tenuto conto che per l'art. 136 del d.lgs. 163/06, in tesi, il procedimento di risoluzione dovrebbe intendersi avviato con la contestazione degli addebiti all'appaltatore. La Suprema Corte non ha ritenuto condivisibili le argomentazioni della ricorrente in quanto – in forza della disciplina successiva al r.d. n. 2248 del 1865 all. F – dopo la sottoscrizione di un contratto di appalto la Pubblica Amministrazione non può spendere alcun potere d'imperio, neppure in via di autotutela, ai fini della risoluzione del contratto (la Suprema Corte, sul punto, richiama Cass. Sez. U, 32148/2022; cfr. Cass. Sez. U, 35940/2023). Sempre secondo la Suprema Corte, nel caso in esame, bisogna muovere dall'art. 136 del d.lgs. n. 163 del 2006 in forza del quale la risoluzione del contratto di appalto per grave inadempimento per essere opponibile alla procedura fallimentare deve essere accertata e deliberata prima di tale declaratoria. Tale conclusione si fonda, secondo la Corte, sulla connotazione “privatistica” del contratto di appalto che – coerentemente con il disposto dell'art. 1455 c.c. – prevede l'accertamento della “non scarsa importanza” dell'inadempimento, da accertarsi in contraddittorio tra le parti, al fine della risoluzione del contratto che non può dunque ritenersi avviato con la mera denuncia degli asseriti inadempimenti da parte della stazione appaltante. La Corte evidenzia, in tale ottica, la differenza tra risoluzione (art. 136 d.lgs. n. 163/2006) e recesso (art. 134 d.lgs. n. 163/2006) evidenziando che, nel contesto dell'art. 136 del d.lgs. n. 163/2006, il vero discrimine non sia né l'avvio del procedimento da parte del DL, né la mera instaurazione del contraddittorio, bensì il provvedimento con cui, all'esito del contraddittorio instaurato tra le parti, si "dispone la risoluzione del contratto". Alla luce di quanto sopra brevemente riepilogato e tenuto conto che, nel caso di specie, la decisione della ricorrente di risolvere il contratto, all'esito del procedimento attivato ai sensi dell'art. 136 d.lgs. n. 163/2006, è intervenuta dopo la dichiarazione del fallimento, la Suprema Corte ha ritenuto non accoglibile il motivo di ricorso, affermando il principio di diritto, secondo cui «In tema di appalto pubblico disciplinato dal d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), e ai fini della cd. cristallizzazione del passivo del fallimento, l'esercizio, da parte della stazione appaltante, del potere di autotutela procedimentalizzato dall'art. 136 del d.lgs. citato presuppone la valutazione del "grave inadempimento" dell'appaltatore, nel contraddittorio con quest'ultimo, e si perfeziona solo con il provvedimento con cui la stazione appaltante, su proposta del responsabile del procedimento, "dispone la risoluzione del contratto", senza che possa ipotizzarsi, quanto agli adempimenti preliminari di cui all'art. 136 cit., alcun effetto prenotativo analogo a quello proprio delle domande giudiziali di risoluzione del contratto ex art. 2652 n.1) c.c.». Osservazioni Si ritiene integralmente condivisibile la soluzione fornita dalla Suprema Corte che, in forza del principio di cristallizzazione del passivo della procedura fallimentare alla data di apertura del concorso dei creditori, ha confermato la decisione del Tribunale di Bari di esclusione del credito risarcitorio della stazione appaltante in quanto fondato su un provvedimento (risoluzione del contratto per grave inadempimento) assunto dopo la declaratoria di fallimento dell’appaltatrice. Conclusioni Non contestabili sembrano i principi affermati nella pronuncia della Suprema Corte anche a seguito dell’introduzione del CCIII e del nuovo codice degli appalti. Si segnala, infatti, che il Codice della Crisi dell’Impresa e dell’Insolvenza, anche dopo il correttivo ter, conferma il principio cardine della cristallizzazione del passivo per effetto dell’apertura del concorso dei creditori ed il nuovo Codice degli Appalti pubblici (in vigore dal 1 aprile 2023) all’art. 122, comma 3, conferma la necessità di un contraddittorio tra le parti per la risoluzione del contratto di appalto, all’esito del quale “la stazione appaltante, su proposta del RUP, dichiara risolto il contratto con atto scritto comunicato all'appaltatore”. La sentenza è quindi interessante in quanto, seppur relativa a normativa abrogata (vecchia legge fallimentare e codice degli appalti) conferma un indirizzo giurisprudenziale che si ritiene in linea ed applicabile anche alla nuova disciplina codicistica (della crisi di impresa e degli appalti pubblici) in vigore. |