Prevenzione rispetto al fallimento

Simone Marzo
19 Ottobre 2016

Il concordato preventivo aveva (prima della riforma) ed ha tuttora la pacifica funzione di evitare il fallimento del debitore. Tale funzione trovava riscontro, sul piano procedurale, nell'altrettanto pacifica affermazione del principio c.d. di “prevenzione” del concordato rispetto al fallimento, secondo cui, nel caso di concorrenti procedure di concordato e fallimento, il fallimento non poteva essere dichiarato se non dopo la chiusura con esito negativo del procedimento concordatario.In seguito alle riforme degli anni 2005/2007 è sorto il dubbio, accolto dalla giurisprudenza di legittimità, che detto principio non fosse più vigente. Con due recenti pronunce (sentenze nn. 9935 e 9936 di maggio 2015) , rese a Sezioni Unite, la Suprema Corte ha respinto tale tesi.
Inquadramento

Il concordato preventivo aveva (prima della riforma) ed ha tuttora la pacifica funzione di evitare il fallimento del debitore. Tale funzione trovava riscontro, sul piano procedurale, nell'altrettanto pacifica affermazione del principio c.d. di “prevenzione” del concordato rispetto al fallimento, secondo cui, nel caso di concorrenti procedure di concordato e fallimento, il fallimento non poteva essere dichiarato se non dopo la chiusura con esito negativo del procedimento concordatario.

In seguito alle riforme degli anni 2005/2007 è sorto il dubbio, accolto dalla giurisprudenza di legittimità, che detto principio non fosse più vigente.

Con due recenti pronunce rese a Sezioni Unite (sentenze n. 9935, in questo portale, con nota di F. Lamanna, Retromarcia sul principio di prevenzione/prevalenza del concordato: come non detto, il principio ancora esiste; e n. 9936 del 15 maggio 2015), la Suprema Corte ha respinto tale tesi ed ha individuato nel tessuto normativo vigente molteplici elementi indicativi dell'attuale persistenza, nell'ordinamento concorsuale, del suddetto principio. Inoltre, non limitandosi alla sua mera riaffermazione, le Sezioni Unite hanno dettato una sorta di vademecum operativo utile al fine di declinare operativamente il principio de quo.

Tuttavia anche dopo il pur apprezzabile intervento chiarificatore della Suprema Corte, il problema del coordinamento delle procedure di concordato e di fallimento non può considerarsi del tutto risolto, e presenta ancora molteplici aspetti controversi, sui quali la giurisprudenza sarà certamente ancora chiamata a pronunciarsi.

Ratio e fondamento normativo del principio di prevenzione

Nel sistema concorsuale delineato dal legislatore del 1942 il concordato preventivo costituiva un mezzo, concesso all'imprenditore insolvente ma comunque meritevole (il cosiddetto imprenditore “onesto ma sfortunato”), di evitare il fallimento. Consentendo al debitore di ottenere dai creditori l'assenso ad una dilazione o una decurtazione (nei limiti consentiti dalla legge) dei propri debiti, si intendeva garantire ai creditori stessi una soddisfazione che, pur non integrale, non fosse irrisoria; dall'altro lato, si consentiva al debitore di non essere estromesso del tutto dalla gestione dell'impresa, lo si teneva al riparo dal regime sanzionatorio all'epoca previsto per il caso di fallimento e, non ultimo, si rendeva possibile la continuazione dell'attività d'impresa. La ratio dell'istituto, per sua stessa definizione, era quindi quella di consentire al debitore insolvente di prevenire il proprio fallimento.

Tale ratio trovava riscontro, sul piano procedurale, nella generale affermazione del principio c.d. di prevenzione (o prevalenza) del concordato rispetto al fallimento. In estrema sintesi, posto che il concordato era uno strumento rivolto a prevenire il fallimento, era logico desumerne due corollari: che si potesse chiedere l'ammissione a tale procedura soltanto finché non fosse stato dichiarato il fallimento (poiché, dopo quel momento, non vi sarebbe stato più alcun interesse a prevenire un fatto già verificatosi); specularmente, che una volta chiesta l'ammissione al concordato, il fallimento potesse essere dichiarato solo dopo la negativa definizione del procedimento concordatario (ovverosia, dopo la pronuncia di inammissibilità della domanda, la revoca, oppure in seguito alla mancata approvazione o omologazione del concordato;

il principio di prevenzione è affermato, tra le altre, da Cass. 17 settembre 1993, n. 9581 e Cass. 7 marzo 2000, n. 2546

). Tanto più, con riguardo a tale secondo corollario, che nel caso di anticipata chiusura del procedimento di concordato era la stessa legge a prevedere la pressoché automatica dichiarazione d'ufficio del fallimento del debitore (cfr., rispettivamente, i previgenti artt. 162, comma 2, 173, 179 e 181, comma 2, l. fall.; sulla effettiva sussistenza di tale automaticità e sulle opinioni discordanti sul punto, cfr., A. Bonsignori, E. Frascaroli Santi, G. Nardo, M. Zoppellaro, Il concordato preventivo e quello stragiudiziale, in Le procedure concorsuali - Procedure minori, Trattato diretto da G. Ragusa Maggiore e C. Costa, Torino, 2001, 66; A. Bonsignori, Processi concorsuali minori, in Tratt. dir. com. e dir. pubbl. econ., XXIII, Padova, 1997, 153).

Oltre ad essere coerente con la sua funzione, il principio di prevenzione appariva vieppiù necessario per il buon funzionamento di una procedura le cui speranze di successo erano già minate da alcuni non secondari aspetti della disciplina: l'identità del presupposto oggettivo di entrambe le procedure di concordato e di fallimento (cioè lo stato di insolvenza, ex artt. 5 e 160, l. fall., nella originaria formulazione) e la contestuale possibilità che il fallimento potesse essere dichiarato d'ufficio (art. 8 l. fall., sempre nella formulazione originaria). Alla luce del combinato disposto di tali norme, era chiaro che qualunque domanda di concordato preventivo recava in sé la concreta possibilità della immediata dichiarazione di fallimento del debitore proponente, già prima ed a prescindere dagli esiti della domanda concordataria medesima. Era dunque necessaria, ancor prima che opportuna, una regola che imponesse il previo esaurimento della procedura concordataria rispetto alla dichiarazione di fallimento.

Tale regola è stata individuata nel richiamato principio di prevenzione. Il fondamento normativo di tale principio veniva generalmente indicato nell'art. 160 l. fall., e precisamente nella parte in cui tale disposizione affermava che il debitore poteva proporre un concordato preventivo “fino a che il suo fallimento non è dichiarato”.

In realtà, l'inciso appena riportato affermava testualmente soltanto uno dei due corollari della funzione “preventiva” del concordato, cioè quello secondo cui la domanda di concordato poteva essere proposta soltanto fino a che non fosse stato dichiarato il fallimento. Come sarebbe stato poi riconosciuto dalla Cassazione, invece, la richiamata locuzione nulla dice circa il secondo corollario, cioè quello della non dichiarabilità del fallimento fino alla negativa definizione della domanda di concordato.

Ad ogni modo, il legislatore del 2005 (art.

2, comma 1, lett. d),

d.l.

14 marzo 2005, n. 35, convertito in

l.

14 maggio 2005, n. 80)

ha riformulato

l'art. 160 l. fall., senza però riproporre l'inciso sopra indicato. Inoltre, sempre a seguito delle riforme intervenute a partire da quell'anno, il presupposto oggettivo del concordato preventivo è stato ampliato fino a ricomprendervi lo “stato di crisi” dell'impresa ed è stata eliminata la possibilità di dichiarare d'ufficio il fallimento.

L'impatto (presunto) della riforma sul principio di prevenzione

Il mutato contesto normativo scaturito dalla riforma degli anni 2005/2007, ed in particolare le modifiche subite dall'art. 160 l. fall., hanno posto il dubbio circa la sopravvivenza del principio di prevenzione. In particolare, alle variegate posizioni della dottrina (comunque inclini a riconoscere priorità alla procedura concordataria rispetto al fallimento), si è contrapposto un orientamento giurisprudenziale contrario a riconoscere la permanenza in vigore del principio in oggetto. Favorevoli a riconoscere ancora la vigenza del principio di prevalenza S. Pacchi, L. D'Orazio, A. Coppola, Il concordato preventivo, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di A. Didone, Torino, 2009, 1773; distinguevano a seconda che il concordato fosse stato o meno ammesso, affermando l'improcedibilità del procedimento fallimentare soltanto dopo l'ammissione della procedura concordataria, F. De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, in Tratt. dir. com. e dir. pubbl. econ., LXIII, Padova, 2012, 220; C. Cecchella, Il processo e l'istruttoria, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da F. Vassalli, F.P. Luiso, E. Gabrielli, II, Il processo di fallimento, Torino, 2014, 106; S. Ambrosini, Il concordato preventivo, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da F. Vassalli, F.P. Luiso, E. Gabrielli, IV, Le altre procedure concorsuali, Torino, 2014, 65.

In primo luogo, la Cassazione ha escluso che tra i due procedimenti (di concordato e di fallimento) sia ravvisabile un rapporto di pregiudizialità tecnica da poter regolare mediante il ricorso alla sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. del procedimento fallimentare in pendenza di quello concordatario. Secondo la Corte, invece, è ravvisabile soltanto “un fenomeno al contempo di consequenzialità (della seconda all'esito negativo della prima) ed assorbimento (dei vizi del diniego della prima nella fase impugnatoria della seconda)”, tale da comportare una mera esigenza di coordinamento tra i due procedimenti, ed in particolare “un coordinamento solo parzialmente realizzato dalle norme (e sostanzialmente affidato alle tecniche organizzative del singolo Ufficio) e che è escluso possa essere attratto nell'area della sospensione ex art. 295 c.p.c.” (così,

Cass. civ., sez. VI-1, ord. 8 febbraio 2011, n. 3059).

D'altro canto, sempre secondo la giurisprudenza, sarebbe stato impossibile operare il coordinamento ricorrendo ad ipotesi di sospensione “improprie” e discrezionali, poiché la sospensione, incidendo in termini limitativi rispetto all'esercizio del diritto di azione con un sia pur temporaneo diniego di giustizia, costituisce un istituto eccezionale che può trovare applicazione soltanto nei casi previsti dalla legge.

Infine, partendo dalla (errata) premessa secondo cui nel previgente contesto normativo il principio di prevenzione potesse ricavarsi dall'inciso contenuto nell'art. 160 l. fall., poi eliminato, la Suprema Corte ha espressamente dichiarato il venir meno del principio stesso a seguito della riforma: “Il disposto della L. Fall., art. 160, nel testo riformato dal D. Lgs. n. 5 del 2006, applicabile alla fattispecie in esame, non contiene l'inciso, presente nel precedente vigore del R.D. n. 267 del 1942, che prevedeva la possibilità per l'imprenditore di proporre il concordato preventivo “fino a che il suo fallimento non è dichiarato”, fondante l'indiscusso ed indiscutibile criterio della prevenzione, che all'epoca correlava le due procedure posponendo la pronuncia di fallimento al previo esaurimento della soluzione concordata della crisi dell'impresa. Abrogata testualmente dalla modifica normativa, la cennata regola non può ritenersi per via esegetica sopravvissuta” (così,

Cass. civ., sez. I, sent. 24 ottobre 2012, n. 18190, in questo portale, con nota di Rolfi, I rapporti tra concordato e dichiarazione di fallimento: equivoci processuali di una questione sostanziale)

.

La Cassazione afferma dunque a chiare lettere che la modifica dell'art. 160, l. fall. avrebbe avuto l'effetto di far venire meno il principio della prevenzione. Attesa però la pacifica ammissibilità di concorrenti procedimenti di concordato e di fallimento a carico dello stesso debitore, l'esigenza di operare un coordinamento tra le procedure in simili ipotesi è parsa comunque imprescindibile.

Come già anticipato nella sentenza del 2011 (si veda il riferimento alle “tecniche organizzative del singolo Ufficio”), nella già citata sentenza del 2012 i giudici di legittimità affermavano che non vi sarebbe stata alcuna regola precisa in ordine ai criteri di precedenza nell'esame dell'una piuttosto che dell'altra domanda; il coordinamento delle procedure veniva così rimesso alla discrezionalità del Giudice, il quale avrebbe potuto dare precedenza all'una o all'altra procedura, “purché nel rispetto indefettibile delle garanzie di difesa, del debitore rispetto alle istanze di fallimento, e degli stessi creditori rispetto alla domanda di concordato” (

così, ancora, nella citata sentenza n. 18190 del 2012, richiamata anche nella nota e, per altri versi ben più meditata, sentenza a Sezioni Unite n. 1521 del 23 gennaio 2013).

Le criticità di siffatta impostazione, già messe in luce dalla dottrina, emergono in due successive ordinanze interlocutorie della Cassazione (

Cass. Civ., sez. I, ord. 30 aprile 2014, n. 9476; Cass. civ., sez. VI-1, ord. 20 ottobre 2014, n. 22221)

e vengono definitivamente riconosciute dalle Sezioni Unite nelle sentenze n. 9935 e n. 9936 del 15 maggio 2015.

La riaffermazione del principio ad opera delle Sezioni Unite

Le citate sentenze a Sezioni Unite prendono le mosse liberando il campo dall'equivoco al quale si deve il temporaneo disconoscimento del principio di prevenzione nella giurisprudenza del 2012-2013: l'inciso “fino a che il suo fallimento non è dichiarato” contenuto nel previgente art. 160 l. fall. e dal quale si faceva discendere il principio di prevalenza, era in realtà “ridondante e sostanzialmente neutro rispetto all'ordine di trattazione delle procedure”. Insomma, posto che il principio di prevenzione non trovava affatto fondamento nell'inciso contenuto nell'art. 160, comma 1, l. fall., è errato ritenere che l'eliminazione di tale inciso abbia comportato l'abrogazione del principio medesimo.

Del pari errata è, secondo la Corte, l'idea che il coordinamento tra i due procedimenti possa essere affidato “alla discrezionalità del tribunale, al quale, se sono sottratte le valutazioni di convenienza e di fattibilità nel merito, non può che essere sottratta anche la possibilità di provvedere ad un bilanciamento degli interessi coinvolti dalla scelta tra concordato preventivo e fallimento”. Tantomeno sarebbe accettabile l'ipotesi, pure prospettata, “di una competizione tra le procedure da risolvere decidendo per prima quella che per prima giunge a maturità istruttoria”.

L'esclusione di tali alternative, secondo la Cassazione “accresce, da un lato, l'esigenza di individuare un ordine di trattazione e, dall'altro, la verosimiglianza dell'ipotesi che l'ordine indicato dalla l. fall., artt. 162, 173, 179 e 180, sia espressione di un principio generale”.

Le disposizioni citate nella sentenza sono quelle relative alle ipotesi di chiusura anticipata del procedimento concordatario, per inammissibilità della domanda, revoca, mancata approvazione e rigetto dell'omologazione del concordato; in tutti questi casi la legge stabilisce che alla chiusura della procedura possa seguire, ricorrendone i presupposti, la dichiarazione di fallimento. Ebbene, secondo le Sezioni Unite tali disposizioni costituirebbero “il momento di emersione a livello normativo della possibilità di dichiarare il fallimento solo dopo l'esaurimento della procedura di concordato e, quindi, della scelta del legislatore quanto all'ordine di trattazione delle procedure”. In altri termini, tali norme costituirebbero espressione del principio generale di prevenzione del concordato rispetto al fallimento, insito nel vigente sistema concorsuale.

La necessità di un previo esame della domanda di concordato sarebbe peraltro coerente con il favor per la procedura negoziale, notevolmente accentuato dalla riforma sotto numerosi aspetti ed ulteriormente ribadito dalla raccomandazione della Commissione Europea del 12 marzo 2014 “su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all'insolvenza” (su cui si veda anche la news, in questo portale).

Alla luce di tali considerazioni dunque, secondo la Suprema Corte, “non solo è necessario un coordinamento tra le procedure, ma è anche necessario che tale coordinamento avvenga assicurando il previo esaurimento della procedura di concordato preventivo”; per tale motivo, durante la pendenza di una procedura di concordato (sia essa in fase di ammissione, di approvazione o di omologazione) non può ammettersi il corso di un autonomo procedimento prefallimentare che si concluda con la dichiarazione di fallimento prima ed indipendentemente dal verificarsi di uno degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall.

Declinazioni applicative del principio di prevenzione: procedibilità secundum eventum litis del processo di fallimento e riunione dei procedimenti

Le pronunce del 2015, accolte con generale favore dagli osservatori (F. Lamanna, Retromarcia sul principio di prevenzione/prevalenza del concordato: come non detto, il principio ancora esiste, in questo portale; F. De Santis, Principio di prevenzione ed abuso della domanda di concordato: molte conferme e qualche novità dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Fall., 2015, 908; I. Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria fallimentare dopo le Sezioni unite del maggio 2015, in Fall., 2015, 922, che pure ne evidenzia alcuni punti critici; M. Fabiani, Di un'ordinata decisione della Cassazione sul rapporto tra concordato preventivo e procedimento per dichiarazione di fallimento con l'ambiguo addendo dell'abuso del diritto, in For. It., 2015, I, 2335; N. Sotgiu, Sull'accertamento dello stato di insolvenza in pendenza della procedura di concordato preventivo, in Riv. dir. proc., 2015, 2136; A. Dalmartello, R. Sacchi, D. Semeghini, I presupposti del fallimento, in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di A. Jorio, Torino, 2016, 231; F. Marelli, Il sistema delle impugnazioni. La revoca del fallimento, in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di A. Jorio, cit., 767), hanno il merito di non essersi limitate alla mera riaffermazione del principio di prevenzione, facendosi carico anche di illustrare in che modo tale regola debba essere declinata in pratica. È dunque opportuno esaminare, punto per punto, tale sorta di vademecum operativo fornito dalle Sezioni Unite.

In primo luogo, la Corte ribadisce che la regola del previo esaurimento della procedura concordataria non implica né può consentire la sospensione o l'improcedibilità della procedura prefallimentare, non sussistendo un nesso di pregiudizialità tecnica tale da giustificare la sospensione ex art. 295 c.p.c., né essendo possibile disporre sospensioni discrezionali o atipiche (sul punto viene quindi confermato quanto sancito dalla precedente giurisprudenza). Ne discende che la procedura prefallimentare può iniziare e proseguire in pendenza di una procedura concordataria non ancora esaurita, e può anche essere definita con il rigetto dell'istanza o della richiesta di fallimento. Ciò che il principio di prevenzione preclude, invece, è soltanto la possibilità che il fallimento venga dichiarato.

La Corte prefigura quindi un'ipotesi di procedibilità del processo di fallimento secundum eventum litis: il Tribunale investito dell'istanza di fallimento di un debitore che abbia proposto domanda di concordato (non importa se prima o dopo l'istanza di fallimento) può procedere alla necessaria istruttoria e può anche respingerla; non può però accoglierla, fintanto che il procedimento concordatario non si sia concluso con l'inammissibilità della proposta, la revoca, la mancata approvazione o il rigetto dell'omologazione del concordato.

Quanto alla tecnica processuale mediante cui dare concreta attuazione alla enunciata regola di coordinamento, la Corte ricorre al concetto di continenza in senso ampio (continenza c.d. per “specularità), ravvisabile quando fra due cause sussista un rapporto di interdipendenza. Secondo la Corte tale concetto si adatta, tenuto conto delle peculiarità dei due procedimenti, all'ipotesi di contemporanea pendenza del procedimento prefallimentare e della procedura di concordato preventivo, sia prima che dopo l'ammissione allo stesso. Ne consegue che, quando i due procedimenti pendono innanzi allo stesso giudice, si dovrà provvedere alla riunione, ai sensi degli artt. 273 e 274 c.p.c.; quando, invece, i procedimenti si trovano innanzi a giudici diversi (ipotesi invero marginale, legata a casi di trasferimento di sede del debitore) troverà applicazione l'art. 39, comma 2, c.p.c. (N. Sotgiu, Sull'accertamento…, cit., 1236, solleva perplessità sull'effettiva ravvisabilità nel caso di specie di un rapporto di continenza, seppure in senso ampio, e sulla conseguente applicabilità degli artt. 273, 274 e 39 c.p.c.).

La riunione delle procedure consentirà poi, secondo la Suprema Corte, non solo lo svolgimento coordinato delle due procedure con un pieno contraddittorio tra le parti in ordine ai presupposti oggettivi e soggettivi delle stesse, ma anche la fruibilità in ciascuna procedura del materiale probatorio raccolto nell'altra (A. Dalmartello, R. Sacchi, D. Semeghini, I presupposti del fallimento, in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di A. Jorio, Torino, 2016, 231, evidenziano però il rischio che un esame simultaneo e fondato sul medesimo materiale istruttorio possa condurre ad un indebito superamento dei limiti entro cui deve svolgersi il controllo giudiziario sulla proposta di concordato preventivo, diverso ed assai più ristretto rispetto a quello cui è soggetta l'istanza di fallimento).

Coordinamento delle procedure nelle fasi di impugnazione

Sempre dal punto di vista applicativo, le Sezioni Unite hanno chiarito che la temporanea non dichiarabilità del fallimento non riguarda le fasi d'impugnazione dei provvedimenti che pongono fine alla prospettiva concordataria. La dichiarazione di fallimento, dunque, deve attendere che il procedimento concordatario si sia chiuso con un provvedimento negativo, ma non anche che tale esito negativo si sia reso definitivo per l'esaurimento dei mezzi di impugnazione a disposizione dei soggetti interessati.

A convincere di tale impostazione sono le stesse norme indicate come il “momento di emersione a livello normativo” del principio di prevenzione, ovvero gli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., dalle quali è sempre desumibile (anche testualmente) che la dichiarazione di fallimento può essere contestuale ai provvedimenti che dichiarano l'inammissibilità, la revoca, la mancata approvazione o il rigetto dell'omologazione del concordato.

In effetti, l'esigenza di affidare al principio di prevenzione il coordinamento delle procedure anche nelle fasi di impugnazione appare meno stringente di quanto non avvenga nelle fasi introduttive, poiché per questi casi la legge predispone già alcuni meccanismi atti a favorire tale coordinamento.

Si fa riferimento alla possibilità di far valere con il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento anche i motivi di contestazione dei provvedimenti che dichiarano l'inammissibilità, la revoca, la mancata approvazione ed il rigetto dell'omologazione del concordato, sancita dagli artt. 162, comma 3 (per il caso di inammissibilità), 179, comma 1 (mediante il rinvio al già citato art. 162, per il caso di mancata approvazione) e 183, comma 2 (per il caso di rigetto dell'omologazione), ed ammessa dalla giurisprudenza, pur in assenza di una specifica previsione, anche nel caso di provvedimento di revoca (Cass. 23 giugno 2011, n. 13817).

Detti meccanismi potrebbero però non essere sufficienti allorquando, come può avvenire, la dichiarazione di fallimento non sia contestuale alla chiusura della procedura concordataria e renda necessario per il debitore proporre due distinti reclami.

L'ipotesi è stata affrontata in una recente pronuncia di merito (App. Genova 5 novembre 2015, in questo portale, con nota di Marzo,

Effetti dell'omologazione del concordato preventivo in sede di reclamo per la dichiarazione di fallimento

), chiamata a pronunciarsi sugli effetti che l'accoglimento del reclamo avverso il rigetto all'omologazione può avere nella decisione del reclamo avverso la sentenza di fallimento.

Sotto il profilo del rispetto del principio di prevenzione, l'operato del Tribunale appariva corretto, poiché la dichiarazione di fallimento era intervenuta solo dopo la pronuncia del rigetto, con separato decreto, dell'omologazione del concordato. D'altro canto, secondo la Corte d'Appello, nelle citate sentenze del 2015 le Sezioni Unite hanno affermato che l'omologazione del concordato “rimuove lo stato di insolvenza”, e tale “rimozione dello stato di insolvenza” dovrebbe comportare la consequenziale “rimozione” (ovvero la revoca) della dichiarazione di fallimento.

Pur apprezzabile nella misura in cui offre una possibile ipotesi di coordinamento tra le due procedure anche nelle fasi di impugnazione, la decisione della Corte d'Appello si espone ad alcune riserve per quanto attiene la coerenza sistematica della soluzione accolta. In primo luogo, le circostanze sopravvenute rispetto alla dichiarazione di fallimento (quali l'estinzione delle passività sulla base delle quali è stata accertata l'insolvenza o, nel caso in esame, l'omologazione di un concordato) dovrebbero rilevare ai fini della chiusura del fallimento ma non potrebbero determinarne la revoca (così, Cass. ord. 11 febbraio 2011, n. 3479, da cui il rinvio ad altri precedenti), come invece affermato dalla Corte d'Appello nella decisione citata.

Peraltro, pur dichiarando di dare applicazione ai principi sanciti dalla Cassazione, sembra in realtà che l'iter logico argomentativo seguito dalla Corte d'Appello si fondi sul non esplicitato riconoscimento di un rapporto di pregiudizialità tra procedimento concordatario e procedimento di fallimento, nel senso che la decisione sull'omologazione del concordato avrebbe condizionato (rimuovendo un presupposto del fallimento) il processo di fallimento. Come visto in precedenza, però, tale rapporto è pacificamente escluso, anche dalle pronunce a Sezioni Unite del 2015. Inoltre, è discutibile che l'omologazione del concordato abbia come effetto quello di escludere (o rimuovere) l'insolvenza, consistendo invece nell'affermazione di una prognosi positiva circa il superamento dello stato di crisi (insolvenza compresa) in cui versa il debitore.

Ciò a prescindere poi dalle ulteriori questioni ancora irrisolte e derivanti, ad esempio, dall'applicazione del noto principio secondo cui la sentenza di revoca del fallimento non produce effetti sino al giudicato (momento sino al quale, in sostanza, nel caso in esame si potrebbe avere un concordato omologato nei confronti di un soggetto ancora dichiarato fallito), nonché dai possibili effetti sul processo per la dichiarazione di fallimento dell'eventuale cassazione del decreto di omologazione del concordato (possibilità di cui la stessa sentenza della Corte d'Appello dà atto, pur ritenendola irrilevante nel momento della pronuncia, attesa l'immediata efficacia esecutiva del decreto di omologazione).

Insomma, pur essendo stato affrontato dalle Sezioni Unite nelle pronunce del 2015, quello del coordinamento delle due procedure nelle fasi di impugnazione appare un punto che sarà ancora necessario approfondire nei suoi numerosi risvolti applicativi.

I rimedi avverso l'abuso della domanda di concordato

Le Sezioni Unite affrontano, in ultimo, il tema assai dibattuto dell'eventuale utilizzo abusivo dello strumento concordatario e dei possibili rimedi.

La questione deve essere affrontata da due distinte, anche se collegate, prospettive. In primo luogo, occorre verificare se il ritardo nella dichiarazione fallimento conseguente all'applicazione del principio di prevenzione possa comportare pregiudizio per i creditori, soprattutto per quelli che hanno già espresso dissenso rispetto all'ipotesi concordataria e che, in ipotesi, abbiano già proposto istanza di fallimento. Tale interrogativo era già stato affrontato da una delle ordinanze di rimessione delle questioni alle Sezioni Unite (l'ordinanza n. 9476 del 30 aprile 2014). In tale occasione la Corte ha affermato che il pericolo di pregiudizio per i creditori è scongiurato da alcune previsioni inserite nella legge fallimentare a seguito delle riforme del 2005/2007 (in particolare, l'art. 69-bis, che anticipa al momento di proposizione della domanda di concordato la decorrenza dei termini di cui agli artt. 64, 65, 67, commi 1 e 2, e 69 l. fall., e l'art. 169, contenente il richiamo all'art. 45 l. fall.). A queste, secondo le Sezioni Unite, si aggiungono altre cautele destinate ad operare “nell'area in cui maggiore è la possibilità di un abuso”, tra cui la necessità dell'autorizzazione del tribunale per il compimento degli atti urgenti di straordinaria amministrazione e, rispetto all'ipotesi del concordato con riserva (ovvero quella più suscettibile di abusi), la previsione di specifiche ipotesi di inammissibilità della proposta.

Peraltro, pur in presenza di tali cautele, non si può escludere che il debitore possa presentare domande di concordato, con o senza riserva, con una “mera ed evidente finalità dilatoria”. In tale ipotesi, e cioè quando “lo scopo del debitore non è quello di regolare la crisi dell'impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma quello di differire la dichiarazione di fallimento”, secondo le Sezioni Unite la proposta di concordato dovrà ritenersi inammissibile, integrando l'esercizio abusivo di un diritto. Per tale motivo, il Tribunale investito della domanda potrà procedere alla dichiarazione di inammissibilità della proposta ed alla (logicamente successiva) dichiarazione di fallimento, rispettando così, anche in questo caso, il principio di prevenzione.

Quello dedicato al contrasto all'abuso del concordato è il passaggio delle sentenze che ha destato le maggiori perplessità tra gli osservatori. È sembrato infatti discutibile che, dopo aver escluso la discrezionalità del giudice nel provvedere ad un bilanciamento degli interessi coinvolti dalla scelta tra concordato preventivo e fallimento, la Cassazione abbia finito per “riaprire le porte a quel medesimo potere giudiziale che in prima battuta aveva messo fuori gioco” ed in sostanza, a “rinnegare” l'esclusione di quella discrezionalità che aveva costituito uno dei presupposti della riaffermazione del principio di prevenzione (in tal senso, I. Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria fallimentare dopo le Sezioni unite del maggio 2015, cit., 931). Ci si è chiesti inoltre il motivo per il quale la Corte ha avvertito la necessità di ricorrere alla categoria dell'abuso quanto i giudici avrebbero gli strumenti per dichiarare inammissibile, revocare o non omologare un concordato per suoi “difetti intrinseci” (M. Fabiani, Di un'ordinata decisione della Cassazione sui rapporti fra concordato preventivo e procedimento per dichiarazione di fallimento con l'ambiguo addendo dell'abuso del diritto, cit., 2335).

Le perplessità evidenziate non sono del tutto prive di fondamento. È altrettanto evidente, però, che tali perplessità non riguardano né incidono, nella ricostruzione operata dalle Sezioni Unite, sulla regola di coordinamento tra i procedimenti di concordato e di fallimento espressa dal principio di prevenzione. In altri termini, è chiaro che il sindacato sull'abusività o meno della domanda di concordato non possa che costituire una tipica ed esclusiva valutazione di merito della domanda stessa, tanto che vi è chi lamenta che, riconoscendo tale fattispecie, si tenta di “restituire ai giudici un tipo di controllo di merito sulla proposta che le regole formali forse escluderebbero” (così, M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., 38). Il principio di prevenzione, come declinato dalle Sezioni Unite, richiede tuttavia che tale controllo debba essere svolto (e di esso si debba dare conto) prima di provvedere alla dichiarazione di fallimento. Insomma, il potere di valutazione discrezionale (ma non arbitraria) del Giudice riguarda il giudizio di abusività o meno della proposta concordataria, ma non già il potere di scegliere a quale procedura concorsuale dare precedenza tra concordato e fallimento. Tale scelta andrà sempre effettuata sulla base del principio di prevenzione, senza che al riguardo il Giudice possa operare alcun bilanciamento di interessi.

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