Abuso del diritto nel concordato

Roberto Amatore
28 Maggio 2020

Il terreno di maggiore frizione tra i contrapposti interessi coinvolti nelle procedure concorsuali è rappresentato dal difficile coordinamento tra domanda di fallimento avanzata dai creditori e domanda di accesso alla procedura concordataria di composizione della crisi, quaestio iuris quest'ultima la cui importanza sistematica ed attualità è rappresentata proprio dall'intervento delle Sezioni Unite per ben due volte nel breve volgere di un anno e mezzo.
Inquadramento

Avvertenza – Bussola in aggiornamento.

Il terreno di maggiore frizione tra i contrapposti interessi coinvolti nelle procedure concorsuali è rappresentato dal difficile coordinamento tra domanda di fallimento avanzata dai creditori e domanda di accesso alla procedura concordataria di composizione della crisi, quaestio iuris quest'ultima la cui importanza sistematica ed attualità è rappresentata proprio dall'intervento delle Sezioni Unite per ben due volte nel breve volgere di un anno e mezzo (Cass., S.U., 21 gennaio 2013, n. 1521 e Cass., S.U. n. 9936/2015).

Per approntare, sotto il profilo definitorio, una nozione di abuso del diritto, si possono utilizzare, expressis verbis, le parole spese, in una fattispecie paradigmatica della problematica qui in esame, dal Tribunale di Milano là dove ebbe ad affermare che “anche nell'area degli strumenti di composizione della crisi aziendale possa ravvisarsi abuso del diritto, qualora gli istituti creati dal legislatore per far fronte alla crisi d'impresa vengano deviati dalla loro funzione tipica: ciò che può verificarsi quando le facoltà riconosciute dal legislatore siano svolte con modalità tali da determinare un sacrificio sproporzionato ed ingiustificato delle ragioni dei creditori, dilatando in modo abnorme la durata del procedimento e gli effetti dell'automatic stay” (così, Tribunale Milano 4-24 ottobre 2012, in questo portale, con nota di Giovetti).

L'interesse per il tema in esame viene correntemente giustificato, in termini più generali, dalla necessità di “moralizzazione” del processo e, conseguentemente, dalla urgenza di coinvolgere nelle implicazioni di tipo etico dello strumento di tutela del diritto sostanziale tutti i partecipi, e cioè si vuol dire le parti, i difensori, i giudici e gli ausiliari di giustizia, di guisa che la problematica dell'abuso del processo, che rappresenta una tematica di indagine più ampia e complessa, tende a sostituirsi gradualmente, se non si è già addirittura sostituita, a quella classica della condanna alla refusione delle spese e della responsabilità processuale della parte (sulle tematiche “classiche” qui lambite, si rimanda a SCARSELLI, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998, passim; e naturalmente CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Roma, 1935 e CORDOPATRI, Nuovo orizzonte per la lite temeraria, in Giust. civ., 1982).

Rapporti tra domanda di fallimento e domanda di concordato preventivo

L'analisi dei rapporti di natura processuale e sostanziale tra la domanda di fallimento e la domanda di accesso alla procedura pattizia di soluzione della crisi d'impresa rappresenta il terreno di maggiore frizione tra le contrapposte esigenza di difesa delle sfere giuridiche rispettivamente riconducibili ai creditori e al debitore imprenditore.

In via di prima approssimazione, potrebbe ritenersi che già nel sintagma del nomen dell'istituto concordatario sia rintracciabile la soluzione all'annosa e problematica questione di quale debba essere la procedura a prevalere tra le due aperte, rispettivamente, dalla istanza di fallimento e dal ricorso per l'ammissione alla procedura concordataria, giacché nel concetto di “preventivo” riferito al concordato dovrebbe ritenersi implicita la necessità che il giudice fallimentare decida preventivamente la domanda di ammissione e di omologazione della proposta concordatizia avanzata dal debitore rispetto alla domanda di fallimento.

La questione dei rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria fallimentare è un tema classico del diritto concorsuale, un tempo declinato in base all'efficacia di prevenzione ricollegata alla domanda di concordato rispetto al fallimento secondo il tenore testuale dell'art. 160 l. fall., nel testo anteriore al 2005, norma secondo cui "l'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza, fino a che il suo fallimento non è dichiarato, può proporre ai creditori un concordato preventivo" e successivamente rimesso, dalla riforma delle procedure concorsuali, alle opzioni degli interpreti, in difetto di una norma espressa che chiarisca in via definitiva il rapporto di pregiudizialità o meno tra le due procedure.

Peraltro, rappresenta un tema di strettissima attualità nell'esperienza giudiziaria nostrana, e ciò a maggior ragione oggi, dopo l'introduzione, ad opera della L. 7 agosto 2012, n. 134, della possibilità di presentare una domanda di concordato "in bianco", ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., con i medesimi effetti protettivi, estesi anche alle azioni cautelari che l'art. 168 l.fall. riconduceva in precedenza alla domanda di concordato "piena", e che consentono di evitare quell'aggressione al patrimonio del debitore che normalmente accompagna l'avvio dell'istruttoria fallimentare, non operando invero il divieto dell'art. 51 l.fall. fino alla dichiarazione di insolvenza. Va detto che la prassi giudiziaria evidenzia con sempre maggiore frequenza che il debitore, non appena viene attinto da una istanza di fallimento, deposita ricorso per concordato (oggi, di norma, nella forma del concordato "in bianco"), in modo da impedire le iscrizioni ipotecarie e l'avvio, o il procedere, delle azioni cautelari ed esecutive individuali, ma anche con la convinzione che la presentazione della domanda di concordato dispiegherà effetto sulla procedura fallimentare, benché nessuna norma della legge fallimentare si preoccupi, ad oggi, di regolare in modo esplicito quegli effetti.

Alla questione relativa ai rapporti intercorrenti tra le due procedure non viene invero fornita una risposta univoca, diverse essendo le soluzioni che emergono dalle prassi dei tribunali di merito, che divergono rispetto alle indicazioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità (più in particolare, Cass. 24 ottobre 2012, n. 18190, i cui passaggi logici sono ripresi in modo identico dalla successiva Cass., S.U. 23 gennaio 2013, n. 1521). A fini ricostruttivi, giova ricordare che, mentre l'opzione prevalente emersa dall'indagine sugli orientamenti dei tribunali era per la sospensione della procedura prefallimentare con apposito provvedimento, in alternativa alla dichiarazione di improcedibilità in applicazione dell'art. 168 l.fall., con atto ricognitivo della proposizione del ricorso per concordato emesso fuori udienza e senza formalità particolari, di tenore diverso sono le indicazioni provenienti dal giudice di legittimità.

Più precisamente, la Corte di legittimità, dopo una prima decisione (Cass. 5 giugno 2009, n. 12986, cit.) nella quale aveva richiamato il principio della pregiudizialità del concordato rispetto al fallimento, successivamente ha invece affermato, da un lato, il venir meno del criterio della prevenzione, che portava a posporre la pronuncia di fallimento al previo esaurimento della soluzione concordata della crisi dell'impresa, in ragione del già ricordato inciso contenuto nell'art. 160 l.fall. previgente secondo il quale il debitore poteva proporre la domanda di concordato finché il fallimento non fosse stato dichiarato e, dall'altro, l'impossibilità di ricavare analoga regola, in via interpretativa, dai principi vigenti in materia, non avvalorandone la fondatezza il generico favor per le soluzioni negoziali della crisi consacrato nel sistema concorsuale novellato. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità evidenziava l'insussistenza di una pregiudizialità necessaria tale da legittimare la sospensione del processo prevista dall'art. 295 c.p.c. e l'esclusione dell'ammissibilità di forme di sospensione impropria o atecnica, non previste dal codice di rito, escludendo inoltre che la possibilità accordata al debitore di proporre al giudice una procedura concorsuale alternativa al fallimento rappresenti un fatto impeditivo della pronuncia di fallimento, giacché detta proposizione costituirebbe, invece, una mera esplicazione del diritto di difesa del debitore che in ogni caso non gli consente di disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare.

Da ciò la conclusione per cui il nesso d'indubbia consequenzialità logica tra la procedura di concordato e quella di fallimento non si traduce in una consequenzialità procedimentale, non imponendo che possa darsi corso all'istruttoria fallimentare solo in quanto si sia esaurita la procedura alternativa, perché ciò, da un lato, porterebbe ad un caso di sospensione estraneo alla previsione del codice di rito e, dall'altro, violerebbe il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Né tal nesso comporta alcuna consequenzialità tra provvedimenti, da intendersi nel senso che, conclusasi la fase prefallimentare, la sentenza di fallimento debba necessariamente rendere conto del giudizio espresso sulla proposta di concordato, quando vi sia comunque già stata l'iniziativa di parte, necessaria e sufficiente, ex art. 6 l.fall., affinché si esaminino i presupposti per la dichiarazione di insolvenza.

Piuttosto, va detto che, secondo tale orientamento giurisprudenziale, il coordinamento sarà realizzato dallo stesso giudice fallimentare che darà precedenza all'una o all'altra procedura.

Ebbene, la questione è stata ripresa dalle Sezioni unite anche in occasione dell'intervento sui limiti del controllo giudiziale in ordine alla fattibilità del concordato, laddove, con la pronuncia 23 gennaio 2013, n. 1521, la Corte ha richiamato le considerazioni già svolte dalla precedente giurisprudenza di legittimità (Cass., 24 ottobre 2012, n. 18190, e, prima ancora, da Cass., 8 febbraio 2011, n. 3059), ribadendo ancora una volta che la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al fallimento non rappresenta, per il giudice di legittimità, un fatto impeditivo della dichiarazione di insolvenza, ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del convenuto nel giudizio ex art. 15 l.fall., e che è solo l'organo giudiziario adito a poter stabilire quale procedura debba avere la prevalenza, e cioè tra quella concordataria e quella fallimentare, valutando se la domanda di concordato appaia o meno tale da consentire di superare lo stato di crisi dell'impresa, alla luce degli elementi di giudizio forniti non solo dal debitore che ha presentato il ricorso, ma anche dai creditori che hanno avanzato istanza di fallimento ( cfr. sempre Ilaria Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria fallimentare, in Il Fall., 9/2013; in giurisprudenza, Trib. Novara 29 giugno 2012, in questo portale, ove si sostiene che la trattazione congiunta dei procedimenti consente al tribunale di "vagliare la sussistenza dei requisiti di ammissibilità della domanda di concordato anche alla luce del materiale probatorio proveniente dal creditore istante per la dichiarazione di fallimento" ).

In evidenza

Cass. 23 gennaio 2013, n. 1521 ha ribadito ancora una volta che la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al fallimento non rappresenta, per il giudice di legittimità, un fatto impeditivo della dichiarazione di insolvenza, ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del convenuto nel giudizio ex art. 15 l.fall..

Evoluzione della giurisprudenza di legittimità

Come già sopra evidenziato, è riconducibile all'attività interpretativa l'introduzione del principio di coordinamento tra la procedura prefallimentare e il procedimento pattizio di superamento della crisi d'impresa.

Ebbene, in un primo caso la Corte di Cassazione ha statuito che non sussiste un diritto del debitore, convocato avanti al tribunale fallimentare, ad ottenere il differimento della trattazione al fine di consentirgli l'introduzione del ricorso a procedure concorsuali alternative (concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei debiti), né il relativo diniego da parte del tribunale genera una violazione del diritto di difesa, in quanto tali procedure concorsuali alternative sono riconducibili all'autonomia privata, il cui esercizio deve essere oggetto di bilanciamento, ad opera del giudice, con le esigenze di tutela degli interessi pubblicistici, al cui soddisfacimento la procedura fallimentare è tuttora finalizzata. Sempre in questo primo pronunciamento (Cass., S.U., 14 aprile 2008, n. 9743), la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio secondo cui la domanda di concordato preventivo introduce un procedimento distinto da quello aperto dalla richiesta di fallimento proveniente dal pubblico ministero, benché tra i due procedimenti intercorra evidentemente un rapporto di pregiudizialità, come si desume dall'art. 162 l.fall., che prevede la dichiarazione del fallimento come conseguenza pur solo eventuale della dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo.

Tuttavia, nell'ottica del coordinamento tra le procedure, altro arresto giurisprudenziale ha statuito che il tribunale è tenuto a pronunziarsi prima sulla domanda di concordato, indipendentemente dal fatto che essa sia stata proposta prima o dopo la richiesta di fallimento, ed il fallimento poteva essere dichiarato solo dopo che sia stata respinta la domanda di concordato. Ed invero, secondo tale esegesi dell'istituto qui in discussione, in caso di contemporanea pendenza della procedura di concordato preventivo e di quella per dichiarazione di fallimento, così come, ai sensi dell'art. 15 l.fall., deve essere data al debitore la possibilità di difendersi in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5, allo stesso modo dovrebbe essere concessa ai creditori istanti o al pubblico ministero la possibilità di interloquire sulla domanda di concordato, per dedurne eventuali ragioni di inammissibilità (così Trib. Roma 20 aprile 2010).

Sul punto, autorevole dottrina (De Santis, Rapporti tra giudizio prefallimentare e concordato preventivo, cit., ibidem.) ha evidenziato come l'esame delle pronunzie in cui la Cassazione è stata chiamata a delibare la questione che ci occupa traccia una sorta di "parabola" che, muovendo dall'esplicita affermazione della sussistenza di un rapporto di pregiudizialità necessaria tra processo di fallimento e procedure alternative (che, come tale, impone la sospensione del primo nell'attesa della definizione delle seconde), plana infine sull'opposta esclusione di ogni relazione ex art. 295 c.p.c., ancorché temperata dall'affermazione circa l'esigenza di un "coordinamento" tra procedura maggiore e procedura minore. Ed invero, un "coordinamento" che - pur indubbiamente ispirato da esigenze di efficienza della macchina giudiziaria - non sarebbe, tuttavia, assistito da alcuna previsione di legge, restando affidato alla discrezionale sensibilità del tribunale, non scrutinabile in sede di gravame.

L'affermazione della non configurabilità di un rapporto di pregiudizialità necessaria tra processo di fallimento e procedimento di concordato preventivo è del tutto condivisibile.

Peraltro, risulta del pari condivisibile l'affermazione della giurisprudenza di legittimità secondo cui - dal punto di vista delle regole processuali - la questione non è certamente risolvibile invocando una sorta di sospensione dell'istruttoria prefallimentare per ragioni di opportunità, atteso che, nell'attuale sistema processuale, improntato al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, deve escludersi ogni possibilità di disporre la sospensione per ragioni di mera opportunità, salvo i casi eccezionalmente previsti dalla legge, sotto pena di violazione del principio di eguaglianza e del diritto alla tutela giurisdizionale (Cass. 20 febbraio 2008, n. 4314; in dottrina: Consolo, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Padova, 2009).

E' consolidato nel diritto vivente il principio secondo cui la pregiudizialità di cui discorre l'art. 295 c.p.c. esiga che la decisione del processo "pregiudicato" dipenda dall'esito di altra causa, e cioè quando la pronuncia da prendersi in detta altra causa abbia portata pregiudiziale in senso stretto, ossia portata vincolante, con effetto di giudicato, all'interno della causa pregiudicata. Ne discende che la nozione di pregiudizialità ricorre solo allorquando una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo o comunque elemento della fattispecie di un'altra situazione sostanziale, sicché occorre garantire uniformità di giudicati, perché la decisione del processo principale è idonea a definire in tutto o in parte il tema dibattuto (Cass. 28 dicembre 2009, n. 27426).

Ne consegue ancora che, da un lato, il rapporto di pregiudizialità-dipendenza va apprezzato in modo oggettivo, e, dunque, con riferimento ad entrambi gli esiti possibili del giudizio "pregiudicante"(Cass. 25 novembre 2010, n. 23914) e che, dall'altro, la pregiudizialità deve essere esclusa al cospetto di "procedimenti autonomi, sfocianti in decisioni di natura diversa ed aventi finalità e presupposti diversi, di specifico rilievo in ordinamenti distinti"(così, Cass. 10 dicembre 2010, n. 24990).

Sulla base dei predetti principi, deve concludersi nel senso che non si determini il vincolo di "pregiudizialità" o di "dipendenza" in senso tecnico tra il procedimento di concordato preventivo (asseritamente pregiudicante) ed processo di fallimento (asseritamente pregiudicato). Ed invero, si tratta, in primo luogo, di due procedimenti diversi, introdotti da domande distinte, non essendo più possibile dichiarare il fallimento d'ufficio, pur in pendenza di procedimento di concordato preventivo. Secondariamente, il presupposto della domanda di concordato preventivo, siccome elemento costitutivo della sua fattispecie giuridica, è lo stato di crisi, laddove l'elemento costitutivo della fattispecie della domanda di fallimento è lo stato d'insolvenza dell'impresa. Sul punto, è vero che la nozione di stato di crisi può talora comprendere l'insolvenza, ma può anche consistere in altre situazioni di minore gravità, che sono soltanto potenzialmente idonee a sfociare nell'insolvenza, o addirittura in situazioni di difficoltà finanziaria (ad esempio, una crisi di liquidità), non necessariamente prodromiche allo stato d'insolvenza.

Peraltro, va aggiunto che mentre il giudizio d'istruttoria prefallimentare mira ad accertare la sussistenza dello stato d'insolvenza, il giudizio di ammissione (e poi di omologazione) del concordato preventivo ha come finalità quella di verificare la regolarità formale della domanda di concordato e, successivamente, di asseverare il patto tra debitore e creditori, dopo che il primo ha ammesso lo stato di crisi, formulando ai secondi una proposta di pagamento dei debiti, accettata da questi ultimi nelle forme di legge.

Inoltre, la decisione sulla domanda di concordato preventivo non condiziona la decisione della domanda di fallimento, né in un senso, né nell'altro: il tribunale, ove manchino le condizioni prescritte per l'ammissibilità ovvero per l'omologazione del concordato preventivo, deve limitarsi a rigettare la domanda, senza poter dichiarare il fallimento d'ufficio; del pari, il passaggio in giudicato del provvedimento di omologazione del concordato preventivo non preclude la dichiarazione di fallimento, e ciò allorquando sopravvenga la risoluzione o l'annullamento del concordato medesimo, ai sensi dell'art. 186 l. fall.

Ne consegue che non v'è, pertanto, alcun potenziale conflitto tra giudicati, tale da imporre la sospensione per pregiudizialità dell'uno o dell'altro procedimento, ai sensi dell'art. 295 c.p.c.

Va, tuttavia, sottolineato come gli esiti dell'un giudizio possono sicuramente influenzare quelli dell'altro, non potendosi far luogo a dichiarazione di fallimento in caso di una soluzione pattizia della crisi, sotto l'egida del tribunale, tra debitore e creditori e rendendo, per contro, la dichiarazione di fallimento inutile ogni patto di pagamento tra fallito e creditori della massa al di fuori delle regole del concorso collettivo, ovvero del concordato fallimentare.

Ebbene, proprio questa possibilità di sovrapposizione tra i due diversi giudizi comporta la necessità, sul piano strettamente processuale, di un coordinamento interno tra le procedure.

Ne discende ancora che i principi qui affermati dovranno essere verificati con riguardo alle fattispecie concrete, e ciò avuto riguardo all'esigenza di evitare che vengano strumentalmente introdotte - abusando dello strumento processuale - domande di risoluzione pattizia della crisi al solo fine di ritardare la dichiarazione di fallimento.

Così, passando alla analisi delle diverse ipotesi che si possono prospettare nella prassi applicativa, può accadere, in primo luogo, che il debitore, costituitosi nel giudizio di istruttoria prefallimentare, ne chieda il differimento, semplicemente preannunziando che presenterà domanda di concordato preventivo. In realtà, siffatta richiesta non solo non vincola il tribunale, ma - in difetto di ulteriori allegazioni del debitore - dovrebbe considerarsi inaccoglibile, essendo ancorata unicamente all'astratta possibilità di far valere un diritto, sicché il tribunale che - nell'assenza di conclamati elementi che concretino l'opportunità di una decisione di segno contrario - accordasse il richiesto differimento del processo di fallimento assumerebbe su di sé il rischio derivante dal pericolo di dispersione del patrimonio del debitore, utile a soddisfare la massa (v. anche Cass. 4 settembre 2009, n. 19214, cit., secondo la quale il giudice deve, nella specie, assicurare un dosato bilanciamento "fra le iniziative riconducibili alle espressioni di autonomia negoziale delle parti e le esigenze di tutela degli interessi al cui soddisfacimento è finalizzata la procedura fallimentare".).

In seconda battuta, il debitore si potrebbe costituire nel giudizio prefallimenatre, deducendo di avere già depositato la domanda di ammissione al concordato preventivo. Sul punto, dovrebbe concludersi nel senso che già il provvedimento di ammissione al concordato preventivo, dando la stura alla relazione del commissario giudiziale e, dunque, alle valutazioni di opportunità e di convenienza della proposta concordataria da parte dei creditori (espresse in sede di voto), postuli che - dal punto di vista logico, ancor prima che normativo - si debba dare precedenza alla strada pattizia, riconoscendo ai creditori il diritto di esprimersi in ordine alla detta proposta ( così, ancora De Santis, Rapporti tra giudizio prefallimentare e concordato preventivo, cit., ibidem ).

In relazione al periodo successivo alla presentazione della domanda di ammissione, l'art. 168, comma 1, l.fall. stabilisce oggi che, dalla data della pubblicazione del ricorso presso il registro delle imprese e fino al momento in cui il decreto di omologazione dello stesso diventa definitivo, i creditori per titolo o causa anteriore al decreto non possono, sotto pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore (Cass. 26 giugno 2007, n. 14738), e ciò con l'evidente finalità di far sì che i debiti sorti prima dell'apertura della procedura non possano essere estinti fuori dall'esecuzione concorsuale.

Perciò, la norma si riferisce alle esecuzioni individuali e cautelari, non contenendo il divieto di introdurre o proseguire la domanda per dichiarazione di fallimento ex artt. 6 e 15 l.fall. Ebbene, il tribunale adito ex art. 15 l.fall., pur non potendo - nell'assenza di una disposizione simile a quella contenuta, prima delle riforme, nell'art. 160, comma 1, l.fall. - dichiarare l'improcedibilità del giudizio di fallimento, potrà egualmente apprezzare la ricorrenza delle ragioni di opportunità per il differimento dell'udienza prefallimentare, valutando il contenuto della domanda di ammissione al concordato preventivo.

La situazione muta, invero, una volta che è intervenuto il decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo ex art. 163 l.fall. Secondo quanto dispone l'art. 173 l.fall., dopo l'ammissione al concordato preventivo, il commissario giudiziale, se accerta che il debitore ha occultato o dissimulato parte dell'attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode, deve riferirne immediatamente al tribunale, il quale apre d'ufficio il procedimento per la revoca dell'ammissione al concordato, dandone comunicazione al pubblico ministero ed ai creditori, e potendo, all'esito, ma soltanto su richiesta di questi ultimi, anche dichiarare il fallimento.

In sostanza, l'ammissione alla procedura di concordato preventivo apre una fase giudiziale in cui - nell'attesa che il ceto creditorio si pronunzi sulla proposta di concordato - il debitore, che pur continua nel frattempo l'esercizio dell'impresa, è posto sotto la sorveglianza del commissario giudiziale e del tribunale, affinché la gestione da lui svolta non leda l'integrità del patrimonio, posto a garanzia dei creditori. Tali previsioni fanno implicitamente ritenere che, a seguito del provvedimento di ammissione al concordato preventivo ex art. 163 l.fall., il giudizio d'istruttoria prefallimentare debba essere “congelato”, dovendosi sperimentare in linea prioritaria la procedura pattizia già ammessa, e potendosi soltanto successivamente (e su domanda dei soggetti legittimati) dichiarare il fallimento, e cioè oltre che nel caso della revoca ex art. 173, anche nell'ipotesi in cui il tribunale, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 180 l.fall., respinga il concordato. A declaratoria di improcedibilità della domanda di fallimento, si deve, a fortiori, pervenire allorché il concordato preventivo sia stato omologato dal tribunale, fermo restando che la risoluzione del concordato per inadempimento, ovvero il suo annullamento, ai sensi dell'art. 186 l.fall., potrebbero aprire la strada - ma pur sempre su richiesta dei soggetti legittimati - ad un nuovo giudizio prefallimentare (Cfr. Ferro-Di Carlo, L'istruttoria prefallimentare, Milano, 2010, 764).

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Cass. 25 novembre 2010, n. 23914

Cass. 4 settembre 2009, n. 19214

Rapporto di coordinamento tre le procedure

Le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità volte ad escludere la necessità che la trattazione dell'istruttoria fallimentare sia subordinata all'avvenuta definizione della procedura concordataria debbono essere misurate alla luce del non facile inquadramento, nelle categorie del diritto processuale generale, dei rapporti tra oggetto del processo di concordato e quello di fallimento.

Ebbene, nell'istruttoria fallimentare, a seguito di deposito del ricorso ex art. 161 l.fall., si fronteggiano la domanda del debitore, volta alla sistemazione della crisi secondo le regole della procedura concordataria, e una omologa ed incompatibile, domanda del creditore, volta alla regolazione dell'insolvenza secondo le regole della liquidazione fallimentare.

È l'incompatibilità, dunque, il criterio di connessione che più si avvicina a quanto avviene con riferimento ai due giudizi che ci occupano (I. Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria fallimentare, cit., ibidem ).

Ed invero, la domanda di ammissione al concordato dovrà essere esaminata nell'ambito di un procedimento camerale il cui oggetto si qualifica, da un lato, come un processo nel quale il giudice interviene a risolvere una controversia tradizionale tra creditori e debitore e, dall'altro, come un giudizio nel quale il provvedimento serve a verificare la conformità del negozio al parametro di legalità ed a consentire allo stesso di produrre i propri effetti. La domanda di fallimento sarà trattata in un giudizio camerale, ma con tratti che ricordano la cognizione piena, tanto che se ne predica, da una parte autorevole della dottrina, questo tipo di natura. Ne discende che è più semplice immaginare, per questo secondo giudizio in esame, un oggetto più tradizionale, rappresentato invero dal diritto del creditore a che la soddisfazione della sua pretesa sia regolata secondo la legge del concorso.

Pertanto, i predetti procedimenti rappresentano due giudizi che, all'evidenza, hanno caratteristiche che rendono meno immediato il ricorso alle categorie tradizionali della connessione, e ciò non solo per pregiudizialità-dipendenza (del fallimento dall'esito negativo del concordato), ma anche per incompatibilità - tra diritto del debitore e diritto del creditore ad una opposta modalità di regolazione della crisi - (così si esprime: I. Pagni, I rapporti tra concordato e fallimento in pendenza dell'istruttoria fallimentare, cit., ibidem ).

Non minori difficoltà concettuali presenta la soluzione del ricorso all'art. 168 l.fall., e dell'inclusione, nel divieto delle azioni esecutive, anche dell'istanza per la dichiarazione di fallimento. Ed invero, l'istruttoria fallimentare, a rigore, avrebbe piuttosto la natura di un processo di cognizione che sfocia in una pronuncia che ha insieme portata costitutiva (perché modifica lo status dell'imprenditore) ed esecutiva (dal momento che apre alla liquidazione concorsuale), ed è solo, perciò, rispetto a quest'ultima che può immaginarsi l'operatività dell'effetto protettivo prodotto dalla pubblicazione del ricorso per concordato nel registro delle imprese. Di qui, pertanto, la condivisibile conclusione, raggiunta dalla Cassazione già nella sentenza del 2011 (supra), che sia impossibile disporre la sospensione, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., del processo per la dichiarazione di fallimento in attesa dell'esito della procedura concordataria. E che, una volta preso atto dell'assenza di forme di sospensioni improprie o atecniche, non consentite dal codice di rito (così Cass., S.U., 1° ottobre 2003, n. 14670) ed esclusa l'idea della improcedibilità, la soluzione preferibile sia quella della trattazione congiunta dei procedimenti, in modo da consentire al tribunale il coordinamento dell'andamento dei giudizi con una visione complessiva, da un lato, del modo con quale il debitore prospetta il soddisfacimento dei creditori e, dall'altro, delle ragioni dei creditori che hanno formulato istanza per la dichiarazione di fallimento.

Qualora il coordinamento sia risolto a favore della procedura maggiore, la decisione resa dal Tribunale non dovrà tradursi necessariamente in due distinti provvedimenti, uno sull'inammissibilità del concordato e l'altro sulla dichiarazione di fallimento, atteso che quest'ultimo assorbe il primo ex art. 162 l.fall. e dato che, non essendo stata pronunciata né l'improcedibilità né la sospensione, con necessità di conseguente riassunzione, l'iniziativa di parte è rimasta in vita, a sorreggere il processo per la dichiarazione di fallimento.

Va aggiunto che, ai fini del rispetto dell'obbligo di audizione del debitore, quando pende procedimento per la dichiarazione di fallimento, secondo la Corte è sufficiente che lo stesso sia stato sentito in relazione alla proposta di concordato e abbia avuto modo di illustrarla e di svolgere le proprie difese, mentre non è necessario che al debitore siano contestate le eventuali ragioni di inammissibilità, avendo l'imprenditore, nel presentare in udienza la proposta di concordato anziché depositarla come avviene di norma, visto pienamente garantito il proprio diritto di difesa (Cass. 27 maggio 2013, n. 13083).

Pertanto, deve concludersi nel senso che la riunione dei giudizi risulta essere la soluzione corretta sotto il profilo processuale, in ragione della connessione esistente tra di essi nella forma dell'incompatibilità, che rappresenta, al fondo, la fattispecie che più si avvicina al fenomeno processuale sopra descritto. Ne discende che risulta applicabile, come detto, la riunione ex art. 274 c.p.c., istituto generale dell'ordinamento processuale, il quale, diversamente dalla sospensione, non rinviene ostacoli nella particolare struttura dei procedimenti in questione.

Tuttavia, non può non evidenziarsi come il coordinamento dei giudizi, nella prospettiva prescelta dal giudice di legittimità, finisca per rimettere al tribunale fallimentare, in un momento peraltro anticipato rispetto a quello tradizionale e in cui la presenza dei creditori è processualmente limitata, un compito particolarmente gravoso nella valutazione del modo più corretto di bilanciare le opposte iniziative e di raccordare l'interesse alla composizione negoziale della crisi, con l'esigenza che non si pregiudichino gli interessi sottostanti la procedura fallimentare, ritardando inutilmente una dichiarazione d'insolvenza quando il concordato non abbia concrete prospettive di realizzazione.

Va peraltro aggiunto che dal quadro complessivo tracciato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento ai rapporti tra concordato e fallimento emerge una ulteriore prospettiva dalla quale può essere esaminata anche la questione della fattibilità del concordato. Ed invero, se, in pendenza di un'istruttoria fallimentare, rientra nelle prerogative del tribunale non accordare l'accesso del debitore alla procedura concordataria, ma, piuttosto, quella di verificare in concreto, in relazione alle peculiarità del caso concreto, il rapporto di priorità tra le procedure, previo l'indefettibile apprezzamento circa l'intento sottostante la soluzione pattizia, allora non possono neanche essere perorate, più in generale, letture eccessivamente restrittive del controllo giudiziario sulla fattibilità, quali sono quella che, con un'interpretazione particolarmente rigida anche rispetto a quanto sostenuto dalle Sezioni unite, ha inteso confinare lo spazio di intervento del giudice fallimentare alle sole ipotesi in cui le modalità attuative della proposta di concordato risultino incompatibili con norme inderogabili (così, App. Firenze, sent. 27 febbraio 2013) ; o, per converso, quella che vuole ricavare dalla modifica dell'art. 179 l.fall., nonostante la Corte di legittimità abbia ribadito la rilevabilità d'ufficio dell'infattibilità del piano, un'indicazione nel senso dell'impossibilità, una volta che i creditori abbiano espresso la propria volontà, che lo scrutinio circa la fattibilità abbia luogo d'ufficio, richiedendo quella norma che il cambiamento di prospettiva sia comunicato dal commissario giudiziale ai creditori e sia fatto valere perciò soltanto da questi ultimi con la costituzione nel giudizio di omologazione.

Il principio di prevenzione alla prova delle Sezioni Unite

La domanda di accesso alla procedura pattizia di soluzione della crisi d'impresa rappresenta invero il terreno di maggiore frizione tra le contrapposte esigenza di difesa delle sfere giuridiche rispettivamente riconducibili ai creditori e al debitore imprenditore. Non sorprende pertanto che, nel breve volgere di un anno, la questione sia stata posta all'attenzione delle sezioni Unite per ben due volte, la prima in occasione del noto pronunciamento n. 1521/2013 e la seconda attraverso l'ordinanza interlocutoria n. 9476/2014 (per una completa disamina degli argomenti trattati, si rimanda ad altro mio scritto, L'abuso del diritto nelle procedure concorsuali, Milano, 2015, 40 ss.).

Come è noto, la prima sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza interlocutoria (Cass. n. 9476/2014), aveva ritenuto di dovere rimettere nuovamente alle Sezioni Unite della Cassazione la questione relativa al rapporto tra fallimento e concordato preventivo, e ciò nella convinzione che, a seguito dell'apertura del concordato preventivo, il fallimento non fosse comunque dichiarabile fino alla definizione del procedimento concordatario (e salva, comunque, la possibilità di dichiararlo nel caso in cui il provvedimento conclusivo della soluzione alternativa della crisi di impresa fosse stato impugnato).

Sul punto, occorre premettere che due sono le considerazione da cui partire per impostare correttamente la soluzione alla problematica qui in discussione.

La prima è che il divieto, previsto peraltro sotto pena di nullità dall'art. 168, comma 1 l. fall., di iniziare ovvero proseguire azioni esecutive e cautelari dal momento della pubblicazione del ricorso per l'ammissione al concordato nel registro delle imprese e sino al momento della omologazione della proposta non è in alcun modo estensibile alla domanda di fallimento che apre invero un giudizio di cognizione, sebbene governato ancora da principi di sommarietà e di inquisitorietà (cfr. Amatore, Le dichiarazioni di fallimento, Milano, 2014, passim) diretto all'accertamento con efficacia costitutiva di uno status giuridico (che è quello di fallito) e che contestualmente apre il concorso esecutivo sui beni del fallito stesso.

Peraltro, va anche aggiunto, come secondo pilastro dell'argomentare, che, dopo la riscrittura dell'art. 160 l. fall. da parte della l. 14 maggio 2005, n. 80 la cui norma ha eliminato l'inciso relativo alla facoltà del debitore di proporre il concordato preventivo “fino a che il suo fallimento non è dichiarato”, non è più predicabile, come soluzione processuale alla definizione del problema dei rapporti tra le due procedure, la declaratoria di improcedibilità della domanda di fallimento in attesa della definizione della domanda di accesso alla procedura concorsuale minore (cfr. Amatore, L'abuso del diritto nelle procedure concorsuali, cit., 48).

Ebbene, questi due presupposti del discorso anticipano in realtà la soluzione che è da ritenersi preferibile in ordine alla definizione dei rapporti tre le due procedure.

Ed invero, la soluzione processuale al problema in discorso non può essere fornita in via anticipata rispetto alla questione, che si ritiene prioritaria, di valutare, sotto il profilo più strettamente sostanzialistico, se sia estraibile dalla legge fallimentare e più in generale dal sistema della legge concorsuale un principio regolatore dei rapporti tra giudizio di fallimento e procedura di ammissione al concordato. Detto altrimenti, occorre in via prioritaria accertare se sia immanente al sistema il principio di prevenzione ovvero quello della parità delle procedure, e solo dopo aver fornito una risposta a quest'ultimo quesito, occorre chiedersi quale sia lo strumento processuale per coordinare tra loro le due procedure.

Come anche anticipato dalla Cassazione nella ordinanza interlocutoria sopra menzionata e poi correttamente raccolto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 9936/2005, tale principio, che deve essere in realtà individuato in quello della prevenzione dell'esame della domanda di concordato rispetto a quella di fallimento, può essere ricavato sistematicamente da diverse norme contenute nella legge fallimentare.

In linea generale, non può essere sottaciuto che la funzione ontologicamente immanente al concordato preventivo è proprio quella di prevenire il fallimento attraverso una soluzione alternativa fondata sull'accordo del debitore con la maggioranza dei creditori. Tale funzione preventiva comporta che, per un verso, prima della dichiarazione di fallimento, si debba necessariamente esaminare la domanda di concordato presentata dal debitore, per far luogo, pertanto, alla declaratoria di fallimento solo in caso di mancata apertura della procedura minore e che, per altro verso, una volta aperta quest'ultima ai sensi dell'art. 163 l. fall., il fallimento non possa essere dichiarato sino alla conclusione della procedura concordatizia in senso negativo, e ciò sia per la mancata approvazione ai sensi dell'art. 179, sia per il rigetto della omologazione ai sensi dell'art. 180, ult. comma, e sia per la revoca dell'ammissione ai sensi dell'art. 173 l. fall.

Peraltro, l'art. 161, comma 10, così come introdotto dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, prevede, per la ipotesi di presentazione della domanda di concordato con riserva in pendenza della procedura per la dichiarazione di fallimento, una riduzione del termine per sciogliere la riserva stessa, prevedendo, in altri termini, un'accelerazione dei tempi di definizione della procedura relativa alla domanda di concordato, in considerazione della pendenza del procedimento prefallimentare, che non avrebbe ragion d'essere se il fallimento potesse essere dichiarato anche prima della decisione sulla procedura minore (cfr. sempre Amatore, L'abuso del diritto nelle procedure concorsuali, cit., ibidem ).

Ebbene, tutte queste argomentazioni già preannunciate dall'ordinanza interlocutoria e perorate anche in dottrina, sono state correttamente raccolte dalla Corte regolatrice nell'importante arresto giurisprudenziale sopra ricordato.

Con la decisione in esame è stata riportata finalmente razionalità in un settore “strategico” del diritto concorsuale.

La Suprema Corte afferma ora che è possibile sì dichiarare il fallimento pur in pendenza di una procedura concordataria, ma solo dopo che la domanda di concordato sia stata esaminata e risolta in senso negativo, e ciò a causa della sua ritenuta inammissibilità ex art. 162 l. fall., o dell'intervenuta revoca dell'ammissione ex art. 173 l.fall., o della mancata approvazione da parte dei creditori ex art. 179 l.fall., o del diniego di omologazione ex 180 l. fall.

Peraltro, tra le due procedure concorsuali - precisa la Corte di legittimità - sussiste un rapporto di continenza che impone la loro riunione.

La riunione dei due procedimenti non elimina tuttavia la possibilità di decidere subito sull'istanza di fallimento, ma solo ove il Tribunale intenda disattenderla, poiché invece, in caso contrario, il necessario coordinamento tra le due procedure andrebbe risolto non già, come prima si era ipotizzato, sulla base di un discrezionale bilanciamento degli interessi coinvolti affidato al tribunale, ma sulla base, invece, della regola di prevenzione, e ciò nel senso che la declaratoria di fallimento presuppone il previo esaurimento della procedura concordataria in senso negativo.

Tuttavia, la temporanea non dichiarabilità del fallimento in pendenza di concordato non riguarderebbe le fasi di impugnazione dei provvedimenti che chiudono il concordato, essendo in tal senso dirimente - tra gli altri - l'art. 162, comma 3, l. fall. laddove prevede la reclamabilità della sentenza che dichiara il fallimento, precisando che con il reclamo possono farsi valere anche i motivi attinenti all'ammissibilità della proposta di concordato ( “con il che il legislatore dice espressamente che con la dichiarazione di inammissibilità del concordato diventa possibile la dichiarazione di fallimento”, così si esprime espressamente la Cassazione ).

Resterebbe in ogni caso salva, sostiene sempre al Corte regolatrice, la possibilità che il Tribunale dichiari l'inammissibilità della proposta di concordato per “abuso del processo”, e cioè in ogni caso di abuso dello strumento concordatario che potrebbe porsi in atto sfruttando la temporanea non dichiarabilità del fallimento e perseguendosi così il solo scopo di differire la dichiarazione di fallimento senza conseguire in alcun modo le finalità della procedura negoziale della regolazione della crisi di impresa.

Deve dunque affermarsi che oggi esiste nel nostro ordinamento positivo per affermazione giurisprudenziale il principio di prevenzione come principio regolatore dei rapporti tra la procedura di concordato preventivo e quella diretta alla declaratoria di fallimento, e ciò nel senso che prima di decidere su quest'ultima occorra preliminarmente decidere sulla domanda di accesso ai benefici del concordato.

L'affermazione delle Sezioni Unite risulta essere del tutto convincente e condivisibile.

La sentenza della Corte regolatrice sembrerebbe porsi in un rapporto dialettico diretto con il precedente pronunciamento reso sempre a Sezioni Unite nella nota sentenza n. 1521 del 2013, superandone alcune evidenti contraddizioni

In primo luogo, la Suprema Corte proponeva soluzioni in parte contraddittorie assumendo, da un lato, che al tribunale fosse impedito un sindacato sulla fattibilità economica del piano concordatario, ma, dall'altro, affidandogli il ben più ampio sindacato di merito di bilanciare gli interessi delle parti in conflitto, decidendo se dichiarare il fallimento a prescindere dalla proposta concordataria già presentata, e dunque anche dalla sua eventuale idoneità a superare lo stato d'insolvenza.

Dovrebbe ritenersi apprezzabile la teoria secondo cui la riunione dei giudizi risulta essere la soluzione più corretta sotto il profilo processuale, in ragione della connessione esistente tra di essi nella forma dell'incompatibilità, che rappresenta, al fondo, la fattispecie che più si avvicina al fenomeno processuale sopra descritto. Ne discende che sarebbe stato preferibile ritenere applicabile, come detto, la riunione ex art. 274 c.p.c., istituto generale dell'ordinamento processuale, il quale non rinviene neanche ostacoli nella particolare struttura dei procedimenti in questione ( cfr. Amatore, L'abuso del diritto nelle procedure concorsuali, cit., 42 ).

Se pertanto la soluzione adottata per la definizione dei rapporti tra le due procedure qui in esame è quella dell'applicazione del principio di prevenzione, allora ben ha ritenuto la Suprema Corte nell'ipotizzare che il detto principio possa anche essere piegato ad utilizzi strumentali ed abusivi della domanda di concordato il cui preventivo esame potrebbe essere utilizzato solo ed esclusivamente per procrastinare l'esame delle domande di fallimento in assenza di una seria ed effettiva volontà del debitore di presentare un piano concordatario fattibile e diretto a garantire un soddisfacimento adeguato delle aspettative del ceto creditorio, e ciò a maggior ragione oggi dopo la introduzione nel nostro ordinamento del cd. concordato con riserva.

Di qui la necessità che il criterio di prevenzione sia temperato nella sua concreta applicazione dall'istituto dell'abuso del diritto, e ciò nel senso che, pur dovendosi accordare prioritariamente prevalenza all'esame della domanda di concordato rispetto a quella di fallimento, occorre consentire al tribunale di addivenire alla dichiarazione di fallimento nelle ipotesi di reiterato e strumentale utilizzo dello strumento concordatario al solo ed evidente fine di ritardare la dichiarazione di fallimento.

E' la ipotesi, ad esempio, esaminata esemplarmente dal Tribunale di Milano là dove, in un noto caso, aveva stabilito chese l'impresa in crisi, dopo essere stata convocata dal tribunale sul presupposto dell'inammissibilità del concordato, anziché rendere conto dei profili di inammissibilità - eventualmente anche modificando la proposta -, abbia rinunciato alla domanda e presentato un nuovo ricorso contenente altra domanda di concordato con riserva. Si verifica in tal modo uno sviamento abusivo dell'iter processuale, con conseguente ingiustificato pregiudizio del diritto del creditore alla declaratoria di fallimento. E ciò in quanto l'impresa ricorrente, calibrando i tempi necessari per la presentazione della domanda di concordato, per la revoca della stessa e infine per il deposito di una nuova domanda di concordato con riserva, tendeva a paralizzare l'istanza di fallimento del creditore e, al contempo, ad evitare di fornire i chiarimenti e le integrazioni documentali richiesti dal tribunale a pena di inammissibilità della prima domanda”.

Anche nell'area degli strumenti di composizione della crisi aziendale può ravvisarsi abuso del diritto (o meglio, abuso del processo), qualora gli istituti creati dal legislatore per far fronte alla crisi d'impresa vengano deviati dalla loro funzione tipica: ciò che può verificarsi quando le facoltà riconosciute dal legislatore siano svolte con modalità tali da determinare un sacrificio sproporzionato ed ingiustificato delle ragioni dei creditori, dilatando in modo abnorme la durata del procedimento e gli effetti dell'automatic stay.

Peraltro, non può sottacersi che in tal caso non si stia nel campo dell'esercizio di un diritto, quanto piuttosto in quello patologico dell'abuso che non consente di far ritenere applicabile, quale principio regolatore, il criterio della prevenzione.

Riferimenti

Riferimenti normativi

  • Art. 15 l.fall.
  • art. 160 l.fall
  • art. 161, comma 10, l. fall.
  • art. 162 l.fall
  • art. 173 l.fall.
  • art. 295 c.p.c.

Giurisprudenza :

  • Cass., sez. un., 1° ottobre 2003, n. 14670, ord.
  • Cass. 25 maggio 2007, n. 12233, ord
  • Cass. 28 novembre 2007, n. 24751
  • Cass. 4 settembre 2009, n. 19214
  • Cass. 13 maggio 2009, n. 11085, ord.
  • Cass. 5 giugno 2009, n. 12986
  • Cass. 28 dicembre 2009, n. 27426
  • Cass. 10 dicembre 2010, n. 24990
  • Cass., 8 febbraio 2011, n. 3059
  • Cass. 24 ottobre 2012, n. 18190
  • Cass. 2 aprile 2012, n. 5257
  • Cass., sez. un., 23 gennaio 2013, n. 1521
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