Reformatio in pejus (divieto di)Fonte: Cod. Proc. Pen. Articolo 597
19 Settembre 2017
Inquadramento
Il divieto di reformatio in pejus è previsto e disciplinato dall'art. 597, comma 3, c.p.p., il quale dispone che, nel caso in cui ad appellare sia il solo imputato, il giudice di secondo grado non può modificare in peggio la pena prevista dalla precedente decisione di condanna, ossia irrogare una pena più grave per specie o quantità, né applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, né revocare i benefici, così come non si può prosciogliere l'imputato con una formula meno favorevole. L'istituto è finalizzato ad evitare all'imputato appellante di dover sopportare conseguenze sfavorevoli legate alla volontà, da parte sua, di tutelare un interesse giuridicamente apprezzabile attraverso l'impugnazione. Ambito di applicazione
In relazione all'ambito di applicazione del divieto di reformatio in pejus, è bene precisare che esso, innanzitutto, riguarda soltanto le statuizioni penali (M. Bargis), per cui va riferito solo al dispositivo e non alla motivazione della sentenza, che può risultare anche meno favorevole all'imputato come ritenuto dalla giurisprudenza delle Sezioni unite secondo cui il divieto non si estende alla motivazione della stessa nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti a seguito del dedotto gravame o, nel caso di giudizio di rinvio, del disposto annullamento (Cass. pen., Sez. un., 19 gennaio 1994, n. 4460).
Benché previsto solo con riferimento al giudizio di appello e non espressamente richiamato dall'art. 627 c.p.p. che disciplina il giudizio di rinvio, è pacifico che il divieto di reformatio in pejus, in quanto principio di portata generale, va applicato anche al giudizio di rinvio, sicché non è possibile che in detta fase si producano effetti più gravi per l'imputato (Cass. pen., Sez. I, 18 giugno 2008, n. 28862); il giudice di rinvio, quando sia giudice di appello, non solo non può riformare in peggio la sentenza di primo grado ma non può neanche emettere una sentenza più sfavorevole per l'imputato di quella annullata dalla Corte di cassazione (Cass. pen., Sez. I, 13 marzo 2007 n. 13702). Quindi, benché annullata con rinvio, la prima sentenza di appello continua ad assumere una sua efficacia al punto che si assume che in caso di impugnazione del solo imputato, il divieto della reformatio in pejus, operante anche nel giudizio di rinvio, si estende a tutti gli eventuali, ulteriori giudizi di rinvio (Cass. pen., Sez. II, 11 dicembre 2012 n. 3161). Del resto una conclusione differente rischierebbe di vanificare l'effetto dell'annullamento e pregiudicare la libertà di impugnazione; se difatti a fronte del primo giudizio di appello che ha diminuito la pena inflitta in primo grado, l'imputato, che ha fondati motivi per proporre ricorso, corresse il rischio di vedersi, a seguito di annullamento con rinvio, inflitta una sanzione superiore a quella del primo giudizio di secondo grado, ci si troverebbe inequivocabilmente in presenza di una violazione del diritto di difesa sotto il profilo della compressione del diritto di impugnazione.
Delimitazione del divieto Quanto all'esatta delimitazione del divieto di reformatio in pejus, in riferimento all'impossibilità di applicare una pena più grave per specie o quantità, va sottolineato che questi due requisiti operano indipendentemente l'uno dall'altro, per cui va esclusa sia la possibilità di derubricare la specie omogenea della pena aumentandone la quantità (ad esempio dalla reclusione all'arresto), sia di aggravare la specie omogenea della pena riducendone la quantità, essendo solo consentito derubricare la specie omogenea della pena nei limiti della quantità, oppure scalare tra specie eterogenee di pena, passando da una pena detentiva ad una pena pecuniaria. A tale proposito sono stati stabiliti alcuni criteri. In primo luogo, si è affermato che non viola il divieto di reformatio in pejus la sentenza del giudice d'appello che riduca la pena detentiva inflitta in primo grado ed aumenti quella pecuniaria, sempre che, operato il ragguaglio di quest'ultima ai sensi dell'art. 135 c.p., l'entità finale della pena non risulti superiore a quella complessivamente irrogata dal giudice di primo grado (Cass. pen., Sez. VI, 16 dicembre 2009, n. 2936). In secondo luogo, ci si è pronunciati circa l'effetto della modificazione normativa delle pene edittali rispetto ai casi giudicati in primo grado ed ancora pendenti in fase di appello (ad es. in materia di stupefacenti) stabilendo quale sia l'obbligo del giudice di secondo grado che non voglia incorrere nella violazione del divieto di reformatio. Ancora con riferimento alla impossibilità di applicare una pena più grave per specie o quantità, assume particolare rilievo la regola posta dall'articolo 597, comma 4, secondo cui, in ogni caso, se è accolto l'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita,regola con la quale si è voluto impedire che il giudice possa accogliere i motivi d'appello proposti dall'imputato circa l'esclusione di una circostanza aggravante o di un reato concorrente o il riconoscimento di una circostanza attenuante, senza ridurre corrispondentemente la pena precedentemente inflitta, vanificando così il divieto di reformatio in pejus (Cass. pen., Sez. un., 27 settembre 2005, n. 40910).
Recidiva In tema di recidiva ove appellante sia l'imputato, non risulta possibile procedere ad una differente qualificazione pur se la stessa sia stata erratamente contestata (Cass. pen., Sez. III, 20 gennaio 2010, n. 5849) né tantomeno valutare la recidiva non considerata dal primo giudice (Cass. pen., Sez. VI, 8 ottobre 2009, n. 41388).
Giudizio di comparazione Il tema riguarda anche il giudizio di comparazione poiché viola ugualmente il divieto della reformatio in pejus il giudice di appello che, in mancanza di impugnazione del pubblico ministero, ponga in comparazione una circostanza attenuante, di cui ritenga la sussistenza, con la recidiva, regolarmente contestata, di cui però il primo giudice non abbia fatto applicazione nella determinazione della pena (Cass. pen., Sez. II, 27 marzo 2009, n. 16584); se ne ricava il principio generale secondo cui nessuna valutazione può essere operata dal giudice di appello sulla recidiva, esclusa espressamente o comunque in qualsiasi modo non considerata dal primo giudice, ove appellante sia il solo imputato. A fronte del riconoscimento di una nuova attenuante su appello dell'imputato il giudice di secondo grado non è obbligato a modificare il giudizio di equivalenza ma ciò comporta uno specifico e speciale obbligo di motivazione che dia conto della sussistenza di legittimi presupposti per affermare che, pur essendo il fatto caratterizzato da elementi circostanziali di attenuazione, non si ritiene che questi possano determinare un giudizio di prevalenza rispetto alle precedenti aggravanti ritenute e che si ritiene confermare (Cass. pen., Sez. IV, 22 dicembre 2009, n. 10448; Cass. pen., Sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 13870). Quanto al campo applicativo della disciplina dettata dal quarto comma dell'art. 597 c.p.p., le Sezioni Unite hanno affermato che il divieto di reformatio in pejus della sentenza impugnata dall'imputato non riguarda solo l'entità complessiva della pena ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione. Pertanto il giudice di secondo grado anche quando esclude una circostanza aggravante e per l'effetto irroga una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza (art. 597, comma 4), non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado; inoltre, ogni qualvolta l'accoglimento dell'appello proposto dal solo imputato si traduce in riconoscimento di circostanze attenuanti o disconoscimento di aggravanti o aumenti per la continuazione, al giudice d'appello non è consentito compensare la riduzione della pena con un uguale aumento di una delle altre componenti del trattamento sanzionatorio (Cass. pen., Sez. II, 23 settembre 2016, n. 48259; Cass. pen., Sez. un., 27 settembre 2005, n. 40910). Va fatto cenno, poi, ad alcuni casi particolari che riguardano il riconoscimento di attenuanti ad effetto speciale e la riqualificazione del fatto-reato in una ipotesi più lieve. Al proposito, infatti, va ricordato che il giudice di appello che, su impugnazione del solo imputato, riconosca la sussistenza di una circostanza attenuante ad effetto speciale cui consegua una pena indipendente da quella prevista per il reato non circostanziato, non è vincolato, ai fini della determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale, ai criteri già adottati sul punto dal giudice della sentenza impugnata (Cass. pen., Sez. III, 13 gennaio 2011, n. 7968) rimanendo, quindi, libero di operare pur con l'indubbio vincolo di ridurre la pena inflitta. Lo stesso dicasi quando il giudice di appello procede alla derubricazione del reato ritenuto in primo grado in un fatto meno grave: è libero di operare un giudizio di bilanciamento delle circostanze, sempre però riducendo nel complesso la pena inflitta (Cass. pen., Sez. V, 3 aprile 2009, n. 40049).
Continuazione Molteplici statuizioni hanno riguardato il caso dei reati ritenuti in continuazione ed il calcolo della pena a seguito del proscioglimento o dell'estinzione in relazione ad uno solo dei capi contestati all'imputato già unificati nella decisione del primo giudice gravata da appello dell'imputato. Nell'ipotesi che nel giudizio di secondo grado, sia venuto meno il vincolo giuridico tra i più reati (per assoluzione da uno di essi o per declaratoria di estinzione del reato più grave), l'unica esigenza che il giudice di rinvio è tenuto a salvaguardare è quella di garantire all'imputato l'irrogazione di una pena nel suo complesso inferiore a quella già inflitta (Cass. pen., Sez. V, 25 marzo 2005, n. 16542; Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2009, n. 38084); inoltre, il giudice di appello che assolva l'imputato, esclusivo impugnante, dalla violazione più grave tra quelle ritenute in continuazione in primo grado, non può quantificare per il residuo reato la pena in misura superiore a quella individuata dal primo giudice come pena-base per il reato ritenuto più grave (Cass. pen., Sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41310). Di recente, in materia sono intervenute le Sezioni unite, le quali hanno specificato che non viola il divieto di reformatio in pejus il giudice dell'impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualifica giuridica di quest'ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall'identità del vincolo criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (Cass. pen., Sez. un., 27 marzo 2014, n. 16208, più di recente Cass. pen, Sez. II, 23 settembre 2016, n. 48259). Particolare è, poi, il caso dell'annullamento parziale a fronte di una pena erratamente determinata in primo grado; in detta ipotesi non viola il divieto di reformatio in pejus la sentenza del giudice d'appello che non provvede a ridurre la pena complessiva per aver il primo giudice determinato la pena base in misura inferiore al minimo edittale, ciò in quanto l'obbligo imposto dall'art. 597, comma quarto, presuppone che la pena da ridurre sia stata determinata in maniera legale, e quindi in misura eguale o superiore al minimo edittale; difatti qualora viceversa la pena sia inferiore al minimo edittale e, quindi, illegalmente determinata, essa non può essere ulteriormente ridotta giacché la mancata impugnazione della sentenza da parte dell'accusa per ricondurre la pena alla misura legale, se impedisce la reformatio in pejus, non legittima comunque la perpetuazione di un errore nella determinazione della pena legale (Cass. pen., Sez. III, 3 ottobre 2007, n. 39882). All'applicazione della continuazione in grado di appello possono essere collegate conseguenze anche sfavorevoli all'imputatopur se sia solo questi ad avere proposto appello senza che si incorra nella violazione del divieto tutte le volte che si tratti di statuizioni c.d. automatiche; e così non viola il divieto della reformatio in pejus il giudice di appello che, richiesto dell'applicazione della continuazione tra più reati per uno dei quali è stata pronunciata sentenza di condanna a pena sospesa, revochi, nel riconoscere la continuazione, il beneficio già concesso essendone venuti meno i presupposti (Cass. pen., Sez. III, 13 gennaio 2010, n. 5835).
Revoca dei benefici Quanto alla revoca dei benefici, numerose decisioni hanno preso in considerazione l'istituto della revoca della sospensione condizionale della pena; al proposito sono intervenute le Sezioni unite stabilendo che il provvedimento di revoca della sospensione condizionale della pena, previsto dall'art. 168, comma 1, c.p. ha natura dichiarativa. Conseguentemente gli effetti di diritto sostanziale risalgono de jure al momento in cui si è verificata la condizione, anche prima della pronuncia giudiziale, e indipendentemente da essa. Sicché il provvedimento di revoca non è che un atto ricognitivo della caducazione del beneficio già avvenuta ope legis al momento del passaggio in giudicato della sentenza attinente al secondo reato. Ne consegue che il giudice di appello – svolgendo un'attività puramente ricognitiva e non discrezionale o valutativa e senza, pertanto, contravvenire al divieto di reformatio in pejus – ha il potere, anche se l'impugnazione sia stata proposta dal solo imputato, di revocare la sospensione condizionale concessa con altra sentenza irrevocabile in altro giudizio, negli stessi termini in cui tale potere è attribuito al giudice dell'esecuzione. Al contrario, nell'ipotesi prevista dal secondo comma dello stesso art. 168 c.p., il provvedimento di revoca non è dichiarativo ma costitutivo e implica una valutazione che resta preclusa perciò al giudice di appello, così come al giudice dell'esecuzione; sicché, in assenza di impugnazione sul punto del pubblico ministero, al giudice di appello è inibito un provvedimento che lederebbe a un tempo il principio del favor rei e quello devolutivo; in motivazione, la Suprema Corte ha precisato che anche nel caso di beneficio erroneamente concesso non ne è consentita la revoca in assenza di impugnazione sul punto del P.M. (Cass. pen., Sez. un. 8 aprile 1998, n. 7551). Da tale principio deve necessariamente dedursi che non può lo stesso imputato, che in primo grado ha ottenuto il predetto beneficio, richiederne, melius re perpensa, la revoca in appello, sulla base di una valutazione di mero, contingente interesse (Cass. pen., Sez. II, 13 gennaio 2015, n. 4381, Cass. pen., Sez. V, 8 marzo 2006, n. 11159). Analogamente si è affermato in tema di indulto, trattandosi di istituto privo nella sua applicazione di valutazioni discrezionali,non viola il divieto di reformatio in pejus il giudice d'appello che, d'ufficio e in mancanza di gravame da parte del pubblico ministero, riduca o revochi l'indulto concesso in primo grado, correggendo l'eventuale errore di diritto commesso dal giudice di prima istanza (Cass. pen., Sez. II, 10 giugno 2014, n. 26031).
Proscioglimento con formula meno favorevole Quanto al divieto di prosciogliere l'imputato con una formula meno favorevole di quella pronunciata in primo grado, la dottrina ha ritenuto sottolineare come il legislatore avrebbe voluto ricollegare il divieto di reformatio in pejus non solo al dispositivo ma anche alla motivazione, in modo da consentire che all'imputato nel giudizio di appello venga riservato un trattamento sotto ogni aspetto migliore rispetto a quello ottenuto in primo grado (M. Montagna). L'affermazione, però, non trova riscontro in giurisprudenza essendosi anzi rilevato che il divieto di reformatio riguarda esclusivamente il dispositivo e non anche la parte motiva della pronuncia (Cass. pen., Sez. un., 19 gennaio 1994, n. 4460).
Divieto di reformatio in pejus e statuizioni civili
Alcune problematiche hanno riguardato le statuizioni civili in relazione alla considerazione che il divieto in oggetto riguarderebbe soltanto le disposizioni prettamente penali della sentenza impugnata; quindi non viola il divieto della reformatio in pejus la sentenza che, in assenza di appello della parte civile, provveda alla liquidazione di una somma di denaro a titolo di provvisionale, non concessa dal giudice di primo grado, posto che il divieto attiene soltanto alle disposizioni di natura penale ((Cass., Sez. un., 27 ottobre 2016, n. 53153; Cass. pen, Sez. V, 18 maggio 2015, n. 25520; Cass. pen., Sez. II, 17 settembre 2010, n. 35351; Cass. pen., Sez. VI, 23 settembre 2009, n. 38976; Cass. pen., Sez. V, 14 maggio 2003, n. 30822; Cass. pen., Sez. V, 8 maggio 1998, n. 7967. Tale orientamento non è, però, pacifico poiché secondo altre pronunce è illegittima la statuizione del giudice di secondo grado che, appellante solo l'imputato, l'abbia condannato al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile, quando la domanda di quest'ultima sia stata rigettata, sia pure implicitamente, dal primo giudice, poiché opera, anche con riferimento alla materia delle statuizioni civili, il divieto di reformatio in pejus (Cass. pen., Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 13545; ed anche con riferimento al giudizio di rinvio Cass. pen., Sez. I, 17 novembre 2010, n. 2658). In materia di misure di sicurezza aventi contenuto patrimoniale si registrano alcuni interventi di rilievo che hanno riguardato l'applicazione del principio del divieto di reformatio alla statuizione di confisca ove appellante sia sempre solo l'imputato. In tema di confisca ex art. 240 c.p.p., il giudice d'appello non può disporre la confisca dei beni sequestrati, modificando in danno dell'imputato la sentenza solo da quest'ultimo impugnata, anche quando la confisca obbligatoria sia stata illegittimamente esclusa dal giudice di primo grado (Cass. pen., Sez. VI, 4 febbraio 2009, n. 7507; Cass.pen., Sez. IV, 1 ottobre 1999, n. 12356). Con riguardo alla confisca ex art. 12-sexies d.l. 306/1992, il sequestro adottato ai fini della confisca è subordinato all'accertamento di merito della sproporzione dei beni rispetto ai redditi posseduti e della mancata giustificazione della loro provenienza; ne consegue che, qualora il giudizio di primo grado si sia concluso senza l'applicazione della predetta misura, al giudice d'appello non è consentito disporre il sequestro preventivo di cui all'art. 12-sexies, comma 4, d.l. 306/1992, in quanto ciò avverrebbe in violazione del principio devolutivo e del divieto di reformatio in pejus (Cass. pen., Sez. VI, 4 giugno 2014, n. 39911; Cass. pen., Sez. VI, 7 febbraio 2008, n. 10346; Cass. pen., Sez. VI, 28 giugno 2006, n. 26268; Cass. pen., Sez. VI, 15 gennaio 2001, n. 10353). In tema di misure di sicurezza personali si è stabilito che non viola il divieto della reformatio in pejus il giudice d'appello che, riformando la sentenza di condanna, applichi la misura di sicurezza prevista dalla legge quale conseguenza del proscioglimento per vizio di mente dell'appellante (Cass. pen., Sez. VI, 4 novembre 2010, n. 42026); differente è il caso in cui il giudice di secondo grado applichi una misura di sicurezza personale non disposta dal primo giudice senza riformare la pronuncia impugnata: in tale caso, si integra una violazione del principio (Cass. pen., Sez. VI, del 08 gennaio 2014, n. 15892; Cass. pen., Sez. I, 30 aprile 2009, n. 2004). Divieto di reformatio in pejus e giudizi di impugnazione
Va poi ricordato come il divieto di reformatio in pejus viene considerato un principio generale dell'ordinamento (M. Montagna) per cui lo stesso è applicabile a tutti i giudizi di impugnazione ed, in particolare come già detto, al giudizio di rinvio a seguito di annullamento disposto dalla Corte di cassazione; sicché costituisce una violazione del divieto di reformatio in pejus l'applicazione di una pena anche solo pari a quella in precedenza irrogata, quando l'imputato sia stato assolto da uno dei reati che avevano concorso a determinare la quantificazione della pena nel precedente giudizio di merito ed il P.M. non abbia proposto impugnazione in ordine al trattamento sanzionatorio (Cass. pen., Sez. I, 20 gennaio 2004, n. 23176; Cass. pen., Sez. VI, 16 giugno 2009, n. 31266; Cass. pen., Sez. VI, 11 maggio 2010, n. 18301). Ancora, si è ritenuto applicabile il divieto in esame in materia di riesame delle misure cautelari (Cass. pen., Sez. I, 27 aprile 1993, n. 1805); non mancano, però, opinioni dissenzienti che trovano fondamento nella particolare disciplina dettata dall'art. 309 e secondo le quali il riesame delle misure cautelari non è soggetto al vincolo del principio tantum devolutum quantum appellatum e, di conseguenza, neppure al divieto di reformatio in pejus, potendo il tribunale confermare, ai sensi dell'art. 309, comma 9, il provvedimento impugnato anche per motivi diversi da quelli del primo giudice (Cass. pen., Sez. IV, 14 novembre 1997, n. 2967). Va, però ricordato come il divieto di reformatio in pejus non possa trovare applicazione a seguito dell'annullamento della precedente condanna ai sensi dell'art. 604, comma quarto; al proposito, infatti, si è affermato che il divieto di infliggere una pena più grave, di cui all'art. 597, comma terzo, non opera nel nuovo giudizio conseguente all'annullamento della sentenza di primo grado – impugnata dal solo imputato – disposto dal giudice di appello o dalla Corte di cassazione per nullità dell'atto introduttivo ovvero per altra nullità assoluta o di carattere intermedio non sanata (Cass. pen., Sez. Un., 11 aprile 2006, n. 17050; Cass. pen., Sez. II, 25 febbraio 2009, n. 24820).
La rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nella previsione del nuovo art. 603, comma 3-bis, c.p.p.
Nell'ambito delle questioni attinenti alla reformatio in pejus si inserisce la nuova previsione legislativa di cui all'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., introdotto dalla legge di riforma del processo penale 103/2017. Tale disposizione, in particolare, si occupa della riforma della pronuncia assolutoria di primo grado e prevede che «nel caso di appello del P.M. contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale». A ben vedere, prima ancora che con l'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., il tema della riforma della pronuncia assolutoria di primo grado è stato modificato da arresti della giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte Edu. In particolare,la Corte europea con la sentenza Dan contro Moldavia, del 5 luglio 2011, ha ritenuto integrata la violazione dell'art. 6, par. 1, della Cedu nella parte in cui il processo di appello aveva condotto ad un ribaltamento della condanna, in assenza di attività istruttoria e, quindi, sulla scorta dei soli atti assunti in primo grado, stabilendo che «la Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l'innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell'attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate». Seppure, quindi, non contrasta in linea astratta con i principi della Cedu una condanna emessa dal giudice di appello in riforma di una pronuncia assolutoria, tuttavia, l'affermazione di responsabilità in sede di gravame che dovesse conseguire ad una diversa valutazione di attendibilità delle prove orali ritenute decisive richiede, però, per essere rispettosa dell'art. 6 della Cedu, l'esame diretto dei testimoni da parte del giudice d'appello. La Corte Edu ha poi emesso, sulla scia della sentenza Dan, ulteriori pronunce, nelle quali ha affrontato il tema della condanna in grado di appello in riforma della pronuncia assolutoria emessa all'esito del giudizio di primo grado. Nella specie, nel caso Hanu contro Romania ha dichiarato che, qualora un giudice d'appello sia chiamato ad esaminare un caso in relazione ai fatti di causa ed alla legge e a fare una valutazione completa della questione relativa alla colpevolezza o all'innocenza del ricorrente, non può, per una questione di giusto processo, adeguatamente stabilire questi problemi senza una valutazione diretta delle prove fornite di persona dall'accusato, che sostiene di non aver commesso il fatto ritenuto integrativo di una fattispecie penale. Inoltre, anche se spetta normalmente al giudice nazionale stabilire se sia necessario o opportuno sentire testimoni, circostanze eccezionali, come la condanna in appello in riforma, portano a concludere che la mancata escussione di una persona come testimone sia incompatibile con l'art. 6 della Convenzione, e ciò anche se non ne sia stata fatta richiesta dalla parte. Alla luce delle predette interpretazioni giurisprudenziali, si impone al giudice di appello la riapertura dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di secondo grado, anche oltre gli stretti parametri consentiti dall'art. 603 c.p.p., e ciò, ogni qualvolta, nel caso in cui, a seguito dell'appello di una sentenza di assoluzione in primo grado, il giudice di appello intenda addivenire ad una sentenza di condanna, in forza della diversa valutazione della attendibilità di una prova orale. (Segue). Gli interventi della corte di cassazione in tema di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. La sentenza Dasgupta
Proprio sul punto introdotto dalle sentenze della Corte Edu è in seguito intervenuta la Corte di cassazione, stabilendo principi che continuano ad avere rilievo sotto il profilo dell'interpretazione del nuovo comma 3-bis dell'art. 603 c.p.p. Infatti, la Suprema Corte ha sancito la manifesta infondatezza dell'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 603 c.p.p., per contrasto all'art. 117 della Cost. e all'art. 6 della Cedu, nella parte in cui non prevede la preventiva necessaria obbligatorietà della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per una nuova audizione dei testimoni già escussi in primo grado, nel caso in cui la Corte di appello intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione dell'imputato (Cass. pen., Sez. V, 5 luglio 2012, n. 38085). Su questo stesso percorso si inseriscono quelle affermazioni giurisprudenziali secondo cui il giudice di appello per riformare in peius una sentenza assolutoria è obbligato – in base all'art. 6 Cedu, così come interpretato dalla Corte Edu nel caso Dan contro Moldavia – alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile. Seppure, quindi, si è implicitamente affermata l'applicabilità del principio introdotto dalla Corte Edu, se ne sono limitati gli effetti, stabilendosi che l'obbligo di rinnovazione della prova sussisterebbe solo quando la prova orale contestata ed oggetto di giudizio di attendibilità difforme da quello espresso dal primo giudice, che pure la ha direttamente assunta, sia l'unica posta a fondamento dell'affermazione di responsabilità. In sostanza, tale interpretazione ha limitato l'operatività della regola sancita dai giudici di Strasburgo ai soli casi di rivalutazione di attendibilità di una prova esclusivamente orale e di decisività della stessa ai fini del giudizio di responsabilità. Solo quando la diversa valutazione della prova testimoniale ovvero delle dichiarazioni di un imputato di reato connesso determina l'affermazione di responsabilità il giudice di appello è, pertanto, tenuto alla riassunzione d'ufficio della prova. Ciò che, infatti, appare necessario evidenziare è la circostanza che, in tali casi, l'obbligo di riassunzione della prova ricade sul giudice, il quale dovrà procedervi anche in assenza di richieste di parte, evidentemente facendosi qui riferimento al potere di rinnovazione ex officio pure disciplinato dall'art. 603 c.p.p. A fronte di tali indirizzi che avevano sostanzialmente ridotto lo spazio operativo dell'obbligo di rinnovazione, sono intervenute le Sezioni unite, con la pronuncia Dasgupta (Cass. pen., Sez. un., 28 aprile 2016, n. 27620), che sembra avere spazzato le interpretazioni riduttive. Nella stessa, in particolare, si afferma che la necessità per il giudice di appello di procedere, anche d'ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante. Inoltre, la previsione contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. d) della Cedu, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza della Corte Edu, implica che il giudice di appello, investito dall'impugnazione del P.M. avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca un'erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma 3, c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale, attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio di assoluzione di primo grado. Infine, nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione della concludenza delle dichiarazioni ritenute decisive, l'impossibilità di procedere alla necessaria rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa preclude il ribaltamento del giudizio assolutorio ex actis, fermo restando il dovere del giudice di accertare sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva alla nuova audizione, sia che la sottrazione all'esame non dipenda né dalla volontà di favorire l'imputato, né da condotte illecite di terzi, essendo in tali casi legittimo fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni assunte. I principi affermati da tale fondamentale pronuncia vanno ora rivalutati alla luce del comma 3-bis dell'art. 603 c.p.p. nuova formulazione. Appare, pertanto, chiaro che nella interpretazione di detta norma oggetto di modificazione tutte le valutazioni già compiute dalle Sezioni unite mantengono la loro valenza interpretativa, non sussistendo sostanziale incompatibilità tra i suddetti principi ed il nuovo testo normativo, che anzi sembra così già interpretato nel suo contenuto. Un'altra sentenza emessa dai giudici nazionali rilevante ai fini del tema oggetto di trattazione è quella delle Sezioni unite del 19 gennaio 2017, Patalano. Nella stessa, la Suprema Corte sembra essere andata al di là della stessa volontà della giurisprudenza della Corte Edu, sganciando l'obbligo dal suo presupposto fondamentale e, cioè, il principio di immediatezza tra giudice della condanna e prova, che la Corte europea ha inteso tutelare. Le Sezioni unite in esame, in particolare, erano chiamate a pronunciarsi sul quesito se nel caso di appello del P.M. contro una sentenza di proscioglimento emessa all'esito del giudizio abbreviato per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, il giudice di appello che riforma la sentenza impugnata debba disporre l'esame delle persone che hanno reso tali dichiarazioni. Le stesse hanno fornito risposta affermativa; con la conseguenza che non distinguendo in alcun modo il nuovo comma 3-bis dell'art. 603 c.p.p. il tipo di giudizio, l'obbligo di rinnovazione incombe sul giudice di appello, in tutti i casi di rivalutazione della prova dichiarativa, sia essa stata assunta nel corso dell'istruzione dibattimentale in contraddittorio, sia essa stata acquisita nella fase delle indagini preliminari e poi utilizzata durante il giudizio abbreviato, sia condizionato che non. Nel costituirsi in giudizio l'Avvocatura generale aveva evidenziato, invece, come nel giudizio abbreviato non condizionato la prova dichiarativa non è stata raccolta in forma orale, immediata e nel contraddittorio delle parti, ma solo valutata ex actis dal giudice di primo grado che ha pronunciato l'assoluzione; sicché non ricorrono le ragioni fondanti la regola di simmetria operativa, enunciata dalle Sezioni unite Dasgupta, in assenza di dati normativi e sistematici indicativi del fatto che l'obbligo di motivazione rafforzata debba essere obbligatoriamente assolto attraverso l'effettuazione di una istruttoria dibattimentale, inesistente nel giudizio di primo grado, con l'assunzione per la prima volta in appello di una prova dichiarativa decisiva. L'estensione anche al giudizio abbreviato della regola secondo cui, ove P.M. o parte civile propongano appello avverso una sentenza di assoluzione per motivi relativi alla valutazione di prova dichiarativa, il giudice di appello deve disporre la rinnovazione dell'esame dei dichiaranti, invece, trova secondo le Sezioni unite aggancio nell'interpretazione della valenza del canone della responsabilità solo oltre ogni ragionevole dubbio, di cui all'art. 533 c.p.p. Tale criterio generalissimo, infatti, collegato alla presunzione di innocenza di valenza costituzionale, cardine dei moderni ordinamenti processuali, pretende che in mancanza di elementi sopravvenuti, l'eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze od insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare aperti residui ragionevoli dubbi sull'affermazione di colpevolezza. Ciò significa, come evidenziato nella sentenza Dasgupta, che per riformare un'assoluzione non basta una diversa valutazione di pari plausibilità rispetto alla lettura del primo giudice, occorrendo, invece, «una forza persuasiva superiore», capace, appunto, di far cadere ogni ragionevole dubbio, perché, mentre la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza, bensì la mera non certezza della colpevolezza. L'assoluzione pronunciata dal giudice di primo grado travalica ogni pretesa di simmetria. Essa, implicando l'esistenza di una base probatoria che induce quantomeno il dubbio sulla effettiva valenza delle prove dichiarative, pretende che si faccia ricorso al metodo di assunzione della prova epistemologicamente più affidabile; sicché la eventuale rinuncia dell'imputato al contraddittorio nel giudizio di primo grado non fa premio sulla esigenza di rispettare il valore obiettivo di tale metodo ai fini del ribaltamento della decisione assolutoria. Secondo la Corte, perché, insomma, l'overturning si concretizzi davvero in una motivazione rafforzata, che raggiunga lo scopo del convincimento “oltre ogni ragionevole dubbio”, non si può fare a meno dell'oralità nella riassunzione delle prove rivelatesi decisive. Invero, anche nell'ambito del giudizio abbreviato l'imperativo della motivazione rafforzata è destinato ad operare in tutta la sua ampiezza, attraverso l'effettuazione obbligatoria di una istruttoria e con l'assunzione per la prima volta in appello di una prova dichiarativa decisiva. La costituzionalizzazione del giusto processo induce, inoltre, a configurare il giudizio di appello che abbia ribaltato una sentenza assolutoria, pur se a seguito del rito abbreviato, un “nuovo” giudizio, in cui il dubbio sull'innocenza dell'imputato può essere superato, come già osservato, solo impiegando il metodo migliore per la formazione della prova. L'appello in tal caso non si risolve, infatti, in una mera sede di valutazione critica dei percorsi motivazionali del giudice di primo grado, ma in un giudizio “asimmetrico” rispetto a quello di primo grado, nel quale è comunque necessaria un'integrazione probatoria, non più da considerare in termini di eccezionalità rispetto ad un primo grado di giudizio connotato dalla presunzione di regolare esaustività dell'accertamento (Cass. pen., Sez. un., 19 gennaio 2017, n. 18620). È evidente come affermando tale principio le Sezioni unite abbiano aderito a quell'orientamento già esposto e secondo cui l'oralità diviene il tratto qualificante per superare il dubbio ragionevole posto da una prima decisione di segno assolutorio. Tuttavia, le stesse Sezioni unite si sforzano di precisare che quanto esposto vale solo nei casi in cui di differente valutazione del significato della prova dichiarativa si possa effettivamente parlare. Non perciò quando il documento che tale prova riporta risulti semplicemente travisato. In questo caso, difatti, non può sorgere alcuna esigenza di rivalutazione di tale contenuto attraverso una nuova audizione del dichiarante. Divieto di reformatio in pejus e misure di prevenzione
Quanto al procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione personali o patrimoniali a fronte di affermazioni circa la ricorrenza del principio e secondo cui il divieto della reformatio in pejus nel giudizio di impugnazione opera anche sul procedimento di prevenzione (Cass. pen., Sez. I, 5 febbraio 1991, n. 545) si registrano altri orientamenti che hanno sottolineato la diversità del procedimento affermando che, poiché vale il principio dell'attualità della pericolosità del proposto, non è precluso al giudice di appello di esaminare di ufficio se siano sopravvenuti alla decisione di primo grado elementi che inducano tanto a ritenere una attenuazione della pericolosità quanto un suo aggravamento. Infatti, nel giudizio di appello nel procedimento di prevenzione vale il principio dell'effetto limitatamente devolutivo del gravame, sancito in via generale dall'art. 597, per il quale al giudice di appello è attribuita la facoltà di prendere in considerazione anche elementi, rilevabili di ufficio, su cui non si sia concentrata l'attenzione del primo giudice (Cass. pen., Sez. VI, 30 gennaio 1998, n. 342; Cass. pen., Sez. un., 3 luglio 1996, n. 18). F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2006, 1147. C. Massa, Reformatio in pejus, (divieto di), in Enc. Giur., XXVI, Roma, Treccani, 1991, 2. M. Montagna, Divieto di reformatio in pejus ed appello incidentale, in AA.VV., Le impugnazioni penali, trattato diretto da A. Gaito, I, Torino, Utet, 1998, 375. I. Pardo, C. Ingrao, La riforma delle impugnazioni penali (L. Orlando), Milano, Giuffrè, 2017.
M. Pisani, Le Impugnazioni, Bologna, Monduzzi 2006, 482. G. Riccio, A. De Caro, S. Marotta, Principi costituzionali e riforma della procedura penale, 171 G. Spangher, Reformatio in pejus (divieto di)¸ in Enc. Giur., XXVI, Roma, Treccani, 1991, 297. |