Rischio assicuratoFonte: Cod. Civ. Articolo 1895
18 Novembre 2016
Inquadramento BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Il rischio costituisce elemento essenziale del contratto di assicurazione e le sue vicende influiscono, conseguentemente, sulla validità e operatività della relativa garanzia. Ciononostante, non pare risolto, né in dottrina né in giurisprudenza, il dibattito circa la definizione e la funzione del rischio all'interno della proposizione assicurativa. L'argomento risulta di centrale rilevanza, specie laddove si tratti di comprendere quali siano i requisiti (di esistenza, liceità, determinabilità e possibilità) del rischio medesimo; e la ricaduta del tema su aspetti pratici di rilevantissimo impatto appare tutt'altro che trascurabile. Come, ad esempio, per quel che attiene alla retroattività delle garanzie, anche con specifico riferimento al dibattito in tema di validità delle così dette clausole claims made (per un maggior approfondimento vedi anche: C. Altomare, Sezioni Unite n. 9140/2016: perché non si scioglie ancora il nodo della claims made; C. Altomare, La “claims made” apre alla copertura delle circostanze note con la “deeming clause”; R. Giordano,Clausola claims made: efficacia, nullità e astratta validità; M. Hazan, La claims made è salva! (ma non troppo..); M. Rodolfi, La claims made: tra liceità e meritevolezza, quanti problemi per gli operatori del diritto, il legislatore e le associazioni di categoria, in RiDaRe). La funzione del rischio nel contratto di assicurazione
Tradizionalmente, rischio ed assicurazione costituiscono parte di una proposizione inscindibile: ed invero il rischio assicurato — comunque lo si voglia collocare all'interno della dinamica negoziale, e sia che lo si consideri individualmente ovvero nell'ambito dell'attività di risk pooling, propria dell'impresa assicuratrice — costituisce elemento centrale del rapporto di assicurazione. Ciò contribuisce a spiegare per quale ragione lo strumento assicurativo gioca un ruolo sempre più rilevante e complementare negli attuali assetti della responsabilità civile, inclini ad accordare maggiori spazi a criteri di imputazione fondati proprio sul concetto di rischio, piuttosto che di colpa. Tuttavia, nonostante tale centralità di ruolo, la dogmatica dell'istituto assicurativo non ha riconosciuto alla figura del rischio un inquadramento teorico chiaro ed univoco.
Non vi è comunque dubbio che, a prescindere dal suo inquadramento teorico, il rischio costituisce un elemento essenziale del contratto [v. anche Buttaro, Assicurazione (Contratto di), ED, vol. III, Milano, 448; Rossetti, Il diritto delle assicurazioni, Vol. I, Padova, 2011, 752; Torrente-Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2013, 783] come confermato dall'art. 1895 c.c. (V. § La nozione di rischio assicurato), che fa discendere un'insanabile nullità della polizza dall'inesistenza genetica del rischio al momento della stipulazione. È, peraltro, opinione diffusa, infatti, che l'operazione assicurativa si sostanzi nel trasferimento all'assicuratore di un dato rischio contro il versamento di un premio. In realtà, a traslare non è la gestione del rischio (rispetto alla quale l'impresa rimane estranea, laddove invece l'assicurato potrebbe continuare a controllarlo) quanto le conseguenze del suo verificarsi, addossate, in tutto o in parte, all'assicuratore, il quale è tenuto ad assorbirle e ad ammortizzarle attraverso i proventi e le risorse conferitegli dalla mutualità (di rischi omogenei) assicurata. La tipologia, la frequenza statistica di accadimento e la potenziale gravità delle conseguenze del rischio dedotto in contratto costituiscono, dunque, elementi determinanti del sinallagma contrattuale e fungono da primo criterio per la quotazione del premio. Per questo motivo le vicende del “rischio” in corso di rapporto – in particolare l'aggravamento, la diminuzione o la sua cessazione - possono incidere severamente sull'iniziale equilibrio sinallagmatico, influenzando le sorti del contratto sino addirittura a provocarne, in determinati casi, l'annullamento o la risoluzione. La centralità del concetto di rischio nella teoretica dell'istituto assicurativo pare dunque evidente; tanto più che le disposizioni del codice civile che riguardano specificamente il rischio (artt. 1892 -1898 c.c.) si applicano tanto al settore delle assicurazioni contro i danni quanto a quello del ramo vita. Rimane il fatto che, quanto alla sua funzione all'interno del rapporto assicurativo, la poliedrica morfologia del rischio sconsiglia approcci rigidamente definitori, lasciando preferire una lettura più aperta della questione; una lettura tale da giustificare l'affermazione secondo la quale il rischio permea – di norma – l'intera vicenda contrattuale caratterizzandone la causa, integrandone (senza esaurirlo) l'oggetto ed informando tanto l'interesse specifico sancito, per il solo comparto delle assicurazioni contro i danni, dall'art. 1904 c.c., quanto l'interesse “generale” postulato dall'art. 1891 c.c., per quel che riguarda le polizze stipulate per conto altrui o di chi spetta. La nozione di rischio assicurato
Analoga “volatilità” si registra sul versante della nozione del rischio assicurato: manca, in dottrina e giurisprudenza, una definizione unitaria e tale da poter calzare universalmente a tutti i contratti di assicurazione. Di più: esistono prodotti assicurativi in cui lo stesso concetto di rischio sbiadisce, allontanandosi – e di molto – dalla sua accezione più tipica. Vien dunque da chiedersi: affrontando la materia assicurativa, cosa deve intendersi esattamente per “rischio”? Muovendo da un approccio esperienziale (e perciò atecnico) il lemma rischio viene usualmente definito come “eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili”, specificando che “è quindi più tenue e meno certo che pericolo” (così, ad esempio, la definizione reperita sul vocabolario Treccani). Il concetto di rischio viene, dunque, associato, sia pur marcandone alcune differenze, a quello di pericolo e di pregiudizio. L'esperienza del linguaggio comune, tuttavia, rivela una frequente distorsione nell'utilizzo della parola “ rischio”, sovente correlato ad eventi futuri ed incerti ma non necessariamente “pericolosi” né forieri di danno (così, ad esempio, talvolta si suol dire “ha pareggiato la partita all'ultimo secondo ed ha anche rischiato di vincerla”….). Ora, è sorprendente rilevare come allo stesso modo, anche nel diritto delle assicurazioni, il concetto di “rischio assicurabile” assuma un'estensione semantica variabile a seconda del tipo di garanzia o di prodotto al quale si riferisce sino a distinguersi, in taluni casi nettamente, da quello di pericolo o di pregiudizio. Analizzando, subito, la macro bipartizione categorica fatta propria dal codice civile, potremmo, infatti, dire che mentre nei contratti del ramo danni (artt. 1904-1918 c.c.) il termine rischio evoca tendenzialmente un pericolo di pregiudizio (o di danno, appunto, sia esso associato a cose, persone o patrimoni), non altrettanto sembra sempre potersi affermare per i contratti del ramo vita (artt. 1919 - 1927 c.c.). Ed invero, nell'ambito di questi ultimi il “rischio” assume contorni mutevoli, venendo per lo più associato ad eventi della vita (propria od altrui) al cui verificarsi sorge una data esigenza previdenziale (alla quale si correla l'obbligo, per l'impresa, di effettuare la propria prestazione economica, in capitale o in rendita). Più in generale è agevole osservare come nell'eterogeneo catalogo dei contratti di assicurazione sulla vita possano incontrarsi formule negoziali eccentriche rispetto alla concezione comune di rischio e di assicurazione, prevedendo che la prestazione dell'assicuratore possa essere resa al verificarsi di eventi della vita niente affatto pericolosi o pregiudizievoli per l'assicurato (sopravvivenza o nuzialità, ad esempio). Di più, taluni contratti dimostrano la vocazione anche finanziaria dell'impresa assicurativa, soddisfacendo esigenze di risparmio e di investimento (si pensi, da un lato, alle polizze Unit ed Index linked e, dall'altro, ai contratti di capitalizzazione o alle operazioni di gestione di fondi collettivi di cui al Ramo sesto) rispetto alle quali potrebbe residuare, al limite, quale unico elemento di incertezza, il rischio economico connesso all'operazione. Alla luce di quanto sopra, e al cospetto della assoluta disomogeneità delle diverse situazioni di rischio dedotte in ciascuna singola soluzione di copertura, si potrebbe tentare di accorparle entro una più generale definizione che, proprio aderendo alla cennata bipartizione causale tra assicurazione-danni ed assicurazione-vita, non coincida con quella di pericolo ma, piuttosto, con quella di evento futuro e incerto (o una serie di eventi futuri ed incerti) il cui accadimento non volontario, e cioè non ascrivibile al dolo dell'assicurato (art. 1900 c.c. , vedi bussola di prossima pubblicazione: “Sinistri cagionati con dolo o con colpa grave dell'assicurato o dei dipendenti"), ingenera un bisogno di ristoro, di protezione, di assistenza o stricto sensu previdenziale. Ciò che distingue il contratto di assicurazione dalla scommessa è il diverso atteggiarsi dell'interesse delle parti rispetto al rischio dedotto in contratto. La differenza principale tra scommessa ed assicurazione consiste, invero, proprio nel diverso modo di percepirlo: chi scommette è propenso al rischio, sperando di poter trarre vantaggio dal suo verificarsi; chi si assicura è invece, di regola, avverso al rischio e tende a neutralizzarne le conseguenze. D'altra parte nella scommessa il rischio a cui si fa riferimento può essere dedotto artificiosamente in un qualsiasi evento, anche se totalmente estraneo rispetto all'interesse delle parti ed indifferente per lo scommettitore. In questo senso ben può accadere che la scommessa, a differenza dell'assicurazione, si fondi, come detto, su di un mero azzardo e non su di uno studio delle probabilità ricavata dall'esperienza e da statistiche. Non così nel contratto di assicurazioni dove (almeno nel comparto danni e nelle assicurazioni vita per rischio di morte) entrambe le parti hanno interesse (o dovrebbero aver interesse…) a che un determinato rischio dedotto in polizza non si verifichi, pur avendo stipulato un negozio volto proprio a fornire gli adeguati sostegni nel caso in cui l'evento avverso finisca per realizzarsi. Come è noto, la scommessa può essere lecita sebbene non tutelata e in tal caso vigono le regole proprie dell'obbligazione naturale secondo cui chi paga, pur non essendovi tenuto per legge, non può ripetere quanto corrisposto in adempimento di un obbligo sociale e morale (salvo che la prestazione sia eseguita da un incapace). Ed il creditore potrà conseguentemente trattenere quanto prestato dal debitore che versi in stato di capacità naturale [Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, 1258]. Ciò stigmatizza l'assoluta divaricazione funzionale tra i due istituti, il primo dei quali, l'assicurazione, realizza funzioni sociali tali da giustificare un sistema di vigilanze e di presidi volti a garantire l'erogazione delle prestazioni promesse (laddove, invece, la scommessa non dà neppure luogo ad alcuna azione giuridicamente tutelata per ottenerne l'adempimento). D'altra parte il mantenimento in capo all'assicurato della possibilità di governare il rischio o comunque di influire sulle sue sorti, laddove possibile (elemento spesso mancante nella scommessa) pone in rilievo la funzione potenzialmente educativa dello strumento assicurativo; uno strumento che dovrebbe premiare, in termini di costo, la gestione virtuosa, o comunque prudente, del rischio prima e durante il contratto assicurativo. Il rischio come evento futuro e incerto
La più classica impostazione dottrinaria risolve il concetto di rischio entro quello di evento futuro ed incerto. Sennonché una tale definizione non risulta indenne da severi dubbi ermeneutici; lo stesso requisito dell'incertezza, in particolare, non va inteso in termini assoluti. Se si pensa, infatti, al rischio di morte nell'assicurazione sulla vita, non può non osservarsi come lo stesso risulti incerto solo quanto al momento del suo verificarsi. L'incertezza, quale elemento strutturale del rischio assicurativo, va dunque valutata in termini relativi, potendo essere riferita sia all'an che al quando dell'evento dedotto in polizza. In altre ipotesi potrebbe financo assicurarsi il quomodo del verificarsi di un determinato rischio, e quindi l'effettiva natura, misura e quantità delle (incerte) conseguenze derivanti da determinati eventi (certi): si pensi al caso in cui venga assicurata la responsabilità di un'impresa edile dal rischio di danni (probabilmente inevitabili) correlati alla demolizione di uno stabile confinante con altri fabbricati di proprietà di terzi. Ebbene, in questa ipotesi sono le modalità con le quali il rischio si verifica in concreto ad incidere sulla natura e quantità dei danni arrecati a terzi, potendo tali pregiudizi andare oltre ad una certa soglia ritenuta inevitabile (e perciò non assicurabile) in quanto intrinsecamente correlata all'attività di demolizione oggetto di copertura. E ancora si considerino talune coperture delle spese mediche, stipulate collettivamente (ad esempio da parte del datore di lavoro a favore di tutti i propri dipendenti) nell'ambito di programmi assicurativi a matrice sostanzialmente previdenziale (in ottica di welfare mix). Tali soluzioni, specie se destinate ad operare per un vasto numero di aderenti e per montanti di spesa non elevatissimi, sono talvolta strutturate in modo tale da non subordinare l'assunzione in garanzia alla dimostrazione del buono stato di salute dei singoli assicurati (i quali, dunque, potrebbero essere coperti anche per spese conseguenti ad esigenze di cure sopravvenute in corso di contratto ma relative a patologie preesistenti, rispetto alle quali ciò che rimane incerto non è l'an ma la misura delle prestazioni sanitarie che verranno richieste in corso di polizza). D'altra parte, in tali situazione di rischio parzialmente compromesse, l'assicuratore dispone di più strumenti, tecnici e tariffari, per limitare la propria esposizione (inserendo, ad esempio, franchigie frontali di cospicuo valore o periodi di “carenza”) in modo coerente con la parte di rischio ritenuta sostanzialmente certa, fermo restando la possibilità di non assumere in copertura quella tipologia di responsabilità. A temperare il pericolo che la frammentazione del rischio in sue componenti (più o meno certe o pregiudicate) snaturi la funzione propria dell'assicurazione (avvicinandola ad una scommessa), possiamo osservare come il contratto assicurativo si caratterizzi anche per il particolare vincolo fiduciario tra assicuratore ed assicurato (e in ciò si enfatizza il tratto della uberrima fides proprio del negozio assicurativo) che tende normalmente a far coincidere l'interesse delle parti alla miglior gestione del rischio, onde far sì che l'evento non si verifichi e che, comunque, lo stesso sia assicurato a condizioni di premio correttamente ponderate. Il tutto tenendo conto della particolare «separazione della sopportazione del rischio (ndr: meglio, delle sue conseguenze), che è dell'assicuratore, dal potere di influire sul rischio con le proprie caratteristiche (selezione avversa) e con il proprio comportamento (rischio morale), che è dell'assicurato» [De Lorenzi, Contratto di assicurazione, Padova, 2008, 89]. Se il rischio, nei (pur laschi) termini ora disaminati, integra naturalmente (senza esaurirli) tanto la causa [v. Donati, Trattato del diritto delle assicurazioni private, Vol. II, Milano, 1954, 107-109; Cottino – Irrera, L'assicurazione: l'impresa e il contratto, Padova, 2001, 99] del contratto assicurativo (che attorno al rischio si struttura) quanto il suo oggetto [v. Pipia, Trattato delle assicurazioni, Roma, 1906, 226; Vivante, Del contratto di assicurazione, Torino, 1936, 74; Torrente – Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2015, 824] ben si comprende perché il rischio debba essere, all'atto della stipula, esistente, lecito, determinato (o determinabile) e possibile. Nei limiti di quanto sopra, il rischio dedotto in contratto può, dunque, essere liberamente modulato nelle sue estrinsecazioni e limitato attraverso l'introduzione, nelle condizioni di polizza, di clausole delimitatrici dell'ambito di operatività della garanzia assicurativa. Ora, quanto alla liceità, va subito osservato come siano vietate (art. 12, Cod. Ass. – d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) le assicurazioni che hanno per oggetto il rischio di pagamento delle sanzioni amministrative e quelle che riguardano il prezzo del riscatto in caso di sequestro di persona. In caso di violazione del divieto il contratto è nullo e si applica l'art. 167, comma 2, Cod. Ass. È altresì illecito il contratto stipulato dalla P.A., con premio a suo carico, avente ad oggetto il rischio che un pubblico funzionario arrechi danni alla medesima pubblica amministrazione nell'adempimento dei propri compiti istituzionali (art. 3, comma 59, l. 24 dicembre 2007, n. 244). Né potrebbe essere validamente stipulato un contratto avente ad oggetto rischi connessi a condotte dolosamente preordinate alla commissione di determinati eventi dedotti in polizza (vedi bussola su “Sinistri cagionati con dolo o con colpa grave dell'assicurato o dei dipendenti (art. 1900 c.c.)”). Per quel che invece attiene alla determinabilità del rischio, a differenza della sua liceità o possibilità, la stessa non riguarda la struttura, in sé del rischio ma attiene alle modalità di costruzione del contratto, imponendo alle parti di consentire, almeno per relationem, di individuare il perimetro dell'obbligazione di garanzia dedotto in polizza. Il tutto dovendo, però, considerare come il riferimento ad un rischio “determinabile” ma non chiaramente determinato nel contratto di assicurazione, pur non inficiando la validità del contratto medesimo, potrebbe talora implicare una violazione, da parte dell'assicuratore, delle regole di chiara ed esauriente determinazione dei contenuti negoziali, e quindi una violazione dell'art. 166, Cod. Ass.; il che potrebbe indurre conseguenze civilistiche (impatto sulla corretta formazione della volontà negoziale da parte dell'assicurato) ed amministrative (stimolando l'intervento dell'Autorità di Vigilanza affinché i capitolati di contratto siano stilati in termini ben comprensibili, immediatamente determinati e in quanto tali più agevolmente percepibili e non equivoci (v. Cass. civ., 24 aprile 2015, n. 8412 e Cass. civ., 18 gennaio 2016, n. 668). Quanto poi alla “possibilità” del “rischio”, occorre che sussistano effettive probabilità che gli accadimenti si verifichino, per quanto minime. Quanto meno sarà probabile che un evento assicurato possa accadere quanto più dovrà essere verificato, in sede di negoziazione e di trattativa precontrattuale, se la copertura assicurativa sia davvero utile e, comunque, “adeguata”, rispondendo ad esigenze di copertura correttamente percepite dal contraente [Antonucci, Comm. art. 1882 c.c., in Volpe Putzolu (a cura di), Commentario breve al diritto delle assicurazioni, Padova, 2013, 36]. L'impossibilità (in concreto) del rischio dedotto in polizza equivale, del resto, alla sua inesistenza, dando luogo alla nullità del contratto ai sensi e per gli effetti dell'art. 1895 c.c. (ovvero alla cessazione del contratto, laddove lo stesso sia divenuto impossibile, e sia quindi venuto meno, in corso di rapporto, ai sensi dell'art. 1896 c.c.). Nulla vieta, peraltro, che al tempo della stipula si dia atto della non attualità di un rischio destinato a divenire tale soltanto in futuro (si consideri il rischio inerente alle responsabilità verso terzi derivanti da lavori edili di prossima esecuzione). In questo caso ci troviamo innanzi ad un rischio la cui futura esistenza costituisce condizione di validità del contratto; contratto che rimarrà pertanto improduttivo di effetti nel caso in cui il rischio medesimo non sorga (si pensi, tornando all'ipotesi di cui sopra, al caso in cui il progetto edile venga abbandonato successivamente alla stipula della polizza). Al di là della genetica inesistenza di un rischio, mai neppure sorto (rispetto al quale il contratto di assicurazione rivelerebbe un'assoluta inutilità funzionale), l'art. 1895 c.c. sancisce anche la nullità di quelle polizze che tendono a garantire un rischio che, al contrario del caso precedente, esisteva ma è cessato prima del perfezionamento del contratto assicurativo. Secondo la citata disposizione codicistica, infatti, «Il contratto è nullo se il rischio non è mai esistito o ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto». Mentre nel primo caso potremmo parlare di ontologica inesistenza del rischio, nel secondo dovremmo invece discorrere di un rischio non più esistente, in quanto venuto meno in epoca antecedente rispetto al contratto in quanto già verificatosi e trasmutatosi in autentica certezza di danno. Del resto se fosse ammissibile il trasferimento all'assicuratore delle conseguenze economiche di un danno già prodottosi nella sfera dell'assicurato ci troveremmo innanzi ad un contratto del tutto diverso dall'assicurazione Qualora il rischio non coincida con il pericolo di un singolo e determinato evento (ad esempio: il furto di un dato bene) bensì sia riferito ad una serie di possibile eventi omogenei (polizza infortuni), la nullità potrebbe essere parziale (art. 1419 c.c.) e tale da non inficiare l'intero contratto - che sopravvivrebbe e sarebbe idoneo a garantire l‘assicurato per i soli eventi futuri - ma soltanto la parte di copertura relativa a sinistri già verificatisi (o comunque a fenomenologie di rischio venute meno) prima della stipula . In questo senso si veda la sentenza di Cassazione n. 14410/2011, secondo la quale: «Essendosi il sinistro per cui è causa verificato prima della stipula del contratto di assicurazione, stante l'inesistenza del rischio a norma dell'art. 1895 c.c., e quindi la nullità del contratto, quanto meno relativamente a tale periodo antecedente, va rigettata la domanda dell'attore» (Cass. civ., 30 giugno 2011, n. 14410). Ma forse – e preferibilmente - potrebbe opinarsi che in tali fattispecie il contratto sia in sé e per sé valido, ferma restando l'esclusione dal paradigma di copertura di quegli eventi che, già realizzati, non possono integrare un rischio assicurabile. A corollario dei principi sin qui disaminati si incontra, sovente, l'affermazione secondo la quale non può essere ammessa in alcun modo la c.d. “assicurazione retroattiva”, i cui effetti si producono da una data anteriore a quella della stipula del contratto, né «l'assicurazione di rischi già verificatisi, ancorché le parti ne ignorino l'esistenza» [Rossetti, Comm. art. 1895 c.c., in La Torre (a cura di), Le assicurazioni, Milano, 2007, 105]. La perentorietà di una tal conclusione, ove non considerata cum grano salis, rischia di pregiudicare prassi di mercato ormai consolidatesi, specie nell'ambito delle assicurazioni della responsabilità, da anni strutturate (anche) su formule contrattuali del tipo “claims made”. Formule nell'ambito delle quali la prestazione assicurativa può risultare dovuta anche in relazione a responsabilità risarcitorie antecedenti alla stipula, purché azionate dal danneggiato in costanza di contratto. L'argomento merita di essere trattato con la dovuta circospezione, avendo cura di bilanciare due proposizioni non necessariamente antitetiche, ed anzi entrambe condivisibili: - da un lato l'affermazione, certamente corretta, della non assicurabilità di un rischio che si sia già interamente estrinsecato, in tutte le sue componenti aleatorie (divenute, dunque, certe, almeno nella ragionevole percezione delle parti e tali da aver già dato luogo al sinistro, comunque lo si sia contrattualmente definito); - dall'altro quella volta ad ammettere la possibilità di individuare il rischio, a fini assicurativi, in modo sufficientemente elastico, consentendo alle parti di individuare, nell'ambito di una medesima fattispecie dedotta in contratto, le componenti di alea che rimangono tali nonostante l'avveramento dei presupposti causali del potenziale danno oggetto di copertura. Sull'argomento, dalle decisive ricadute pratico/operative, sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 9140 del 6 maggio 2016, hanno affrontato il tema inerente alla natura della clausola claims made (per un maggior approfondimento vedi anche: F. Lapenna, Clausola claims made, in RiDaRe) e posto fine a quelle incertezze interpretative suscitate dalla nota sentenza della Corte di cassazione n. 5791 del 13 marzo 2014 riguardo alla «vexata quaestio della validità dell'assicurazione del rischio pregresso». La sentenza della Corte di cassazione n. 5791 del 13 marzo 2014
Il caso trattato dalla Suprema Corte riguardava la copertura della responsabilità professionale di un avvocato, il quale aveva spontaneamente risarcito ad un proprio cliente il danno da questi patito per effetto della intempestiva proposizione di un atto di appello. L'adempimento spontaneo dell'obbligazione risarcitoria avveniva successivamente al deposito della sentenza di rigetto del gravame; dopo di che il professionista chiedeva alla propria compagnia assicuratrice (per la R.C. professionale) di rifondere i costi sostenuti in proprio per far fronte al risarcimento. La polizza azionata era strutturata secondo il modello claims made, impegnando perciò l'assicuratore soltanto «per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta all'assicurato nel corso del periodo di efficacia del contratto». Con riferimento a tale modello assicurativo, la Suprema Corte svolge un ragionamento piuttosto drastico e poco flessibile: secondo la pronunzia, infatti, il rischio viene calato nelle concrete delimitazioni previste dalla polizza assumendo il significato di evento futuro ed incerto al cui verificarsi l'assicuratore è tenuto al pagamento dell'indennizzo (rischio assicurato). Dopo l'eventuale avverarsi dell'evento temuto e descritto nella polizza il rischio non v'è più ed è sostituito dal "sinistro", o "rischio avverato". Ciò posto, la Cassazione prosegue affermando che «Con limitate eccezioni previste dalla legge (ad es., l'art. 514 c.n., che ammette l'assicurabilità del rischio putativo) il rischio dev'essere rappresentato da un evento futuro ed incerto, a pena di nullità o scioglimento del contratto (artt. 1895 e 1896 c.c.). Ai fini della validità del contratto di assicurazione, tuttavia, quel che ha da essere "futuro" rispetto alla stipula del contratto non è il prodursi del danno civilisticamente parlando, ma l'avverarsi della causa di esso. Non è infatti mai consentita l'assicurazione di quel rischio i cui presupposti causali si siano già verificati al momento della stipula, a nulla rilevando che l'evento - e quindi il concreto pregiudizio patrimoniale - si sia verificato dopo la stipula del contratto, quando l'avveramento del sinistro non rappresenta che una conseguenza inevitabile di fatti già avvenuti prima di tale momento». Così, ad esempio, sarebbe nulla ex art. 1895 c.c., per inesistenza del rischio l'assicurazione contro le malattie stipulata da persona in cui la patologia sia già insorta, a nulla rilevando che questa divenga oggettivamente visibile dopo la stipula del contratto; allo stesso modo, sarebbe nulla per inesistenza del rischio l'assicurazione del credito stipulata da chi abbia erogato un mutuo a debitore già insolvente, a nulla rilevando che il fallimento del debitore dell'assicurato sia stato dichiarato dopo la conclusione del contratto; sarebbe nulla, sempre per la stessa ragione, l'assicurazione della responsabilità civile stipulata da persona che abbia già tenuto una condotta illecita, a nulla rilevando che il danno da essa causato sia destinato a prodursi nel futuro. Alla luce di tali energiche considerazioni non sarebbe perciò mai consentita l'assicurazione di quel rischio i cui presupposti causali si siano già verificati al momento della stipula. E neppure rileverebbe, ai fini della validità del contratto assicurativo, il fatto che la sussistenza dei presupposti causali del rischio sia sconosciuta ad entrambe le parti al momento della stipula, posto che l'assicurabilità del rischio putativo sarebbe ammessa nei soli casi espressamente previsti dal legislatore (ai sensi dell'art. 514 c.n.). Sennonché, quel che induce a qualche riflessione critica è l'approccio assoluto, e volutamente non modulare, con cui la pronuncia ha affrontato in termini generali il concetto di “rischio assicurativo”, ritenendolo come una sorta di presupposto “naturalistico” del contratto, da considerarsi in modo strettamente oggettivo ed avulso dalla percezione soggettiva che, dello stesso, le parti potrebbero avere ai fini della valutazione della sussistenza dei presupposti di validità del contratto (ai sensi dell'art. 1895 c.c.). Sarebbe, dunque, del tutto irrilevante ciò che le parti possano aver condiviso circa la perdurante esistenza, all'atto della stipula, di elementi di incertezza sulla verificazione dell'evento dedotto in polizza. Il percorso motivazionale seguito dall'estensore, incentrato soprattutto sulla necessità di distinguere il concetto di “rischio assicurativo” da quello di “danno civilistico”, finiva, dunque, per condurre a conclusioni forse un po' troppo radicali, sino ad escludere l'assicurabilità di qualsiasi fenomenologia di danno i cui presupposti eziologici possano ritenersi già verificati, anche se solo in termini astratti ed anche se sconosciuti alle parti, al momento del perfezionamento della polizza. Il che equivale a dire che in nessun modo le parti potrebbero assicurare i rischi correlati al quomodo del verificarsi di determinati effetti dannosi, selezionando ai fini assicurativi le sole conseguenze pregiudizievoli che, nonostante la certezza di una fattispecie dannosa, potrebbero rimanere del tutto aleatorie e quindi non prodursi in concreto. Ora, una tal presa di posizione risentiva della perentorietà di un orientamento che il relatore della sentenza (il Consigliere, Dott. Marco Rossetti) aveva già fatto proprio in precedenza occupandosi proprio della clausola claims made, affermandone la nullità ex art. 1895 c.c. (Trib. Roma, sez. XIII, 12 settembre 2007, n. 1719). Orbene, l'indirizzo interpretativo segnato dalla sentenza in oggetto è stato avversato da pronunzie della stessa terza sezione civile della Cassazione, la quale – soltanto un mese prima (Cass. civ., sez. III, 17 febbraio 2014, n. 3622 in Giur. It., 2014, 4, 803 con nota di Magni) – aveva affermato che, in una polizza di assicurazione della responsabilità civile professionale, la clausola claims made, pur astrattamente idonea a far rientrare in copertura comportamenti e responsabilità «anteriori alla data della conclusione del contratto», non implica, di per sé, l'inesistenza del rischio assicurato e non può, perciò, ritenersi nulla. Al contrario, individuerebbe un preciso e residuo ambito di aleatorietà (e quindi di rischio), riferito non ai comportamenti colposi del professionista bensì «alla loro idoneità ad arrecare danno a terzi» e a dar corso ad una vera e propria richiesta risarcitoria (posto che, secondo la Corte, «non è detto che qualunque comportamento colposo induca il danneggiato a proporre domanda di risarcimento del danno»). Un tale contrasto in seno alla terza sezione della Suprema Corte richiedeva pertanto un intervento risolutorio delle Sezioni Unite, le quali – come già accennato – si sono definitivamente pronunciate con la sentenza n. 9140 del 6 maggio 2016 in favore della differente tesi poc'anzi illustrata. La sentenza delle Sezioni Unite n. 9140 del 6 maggio 2016 e la libera modulazione contrattuale del rischio
Chiamate a risolvere una volta per tutte i problemi ermeneutici inerenti alla natura della clausola claims made, le Sezioni Unite hanno giustamente ritenuto «ineludibile il confronto con la vexata quaestio della validità dell'assicurazione del rischio pregresso» e, con la sentenza n. 9140 del 6 maggio 2016, hanno finalmente messo fine al contrasto sorto in seno alla terza sezione della Cassazione. Al riguardo, le Sezioni Unite hanno risolto il tema con la giusta perentorietà, ritenendo di dover dissentire dalla tesi secondo la quale il rischio dedotto in contratto di assicurazione non potrebbe essere che futuro e incerto, giammai putativo. E, sulla scorta di tale premessa, la Corte ha quindi definitivamente sconfessato l'assunto secondo cui una clausola claims made che “riprendesse” il passato finirebbe per rivelare una sostanziale mancanza dell'alea richiesta, a pena di nullità, dall'art. 1895 c.c. A confutare entrambe le argomentazioni, la Cassazione ha osservato come l'estensione della copertura alle responsabilità dell'assicurato derivanti da fatti commessi prima della stipula del contratto non faccia venir meno né l'alea, né - con essa - la validità del contratto. A sostegno di tale conclusione, la sentenza delle Sezioni Unite ha testualmente rilevato che «il rischio dell'aggressione del patrimonio dell'assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento: ne deriva che la clausola claims made con garanzia pregressa è lecita perché afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l'alea dell'avveramento progressivo degli altri elementi costitutivi dell'impoverimento patrimoniale del danneggiante-assicurato». Le Sezioni Unite hanno quindi risolto con mirabile chiarezza il tema oggetto di contrasto, mettendo in luce la naturale flessibilità del contratto di assicurazione, il quale può garantire una svariata serie di rischi, a prescindere dalla loro misura o pericolosità. Ciò che conta, affinché non si cada nella nullità di cui all'art. 1895 c.c. è che il rischio, sia pur elevatissimo ed estremamente probabile nel suo verificarsi, non si sia già interamente trasformato in certezza di danno. Infatti, a parere di chi scrive, il carattere necessariamente incerto e futuro del rischio – irrefutabile in termini generali – non può essere inteso in modo così stringente da escludere l'assicurabilità di tutti gli eventi dannosi che, quand'anche non ancora materialmente prodottisi al momento della stipula della polizza, risultino a quel tempo già perfettamente prefigurati sotto il profilo eziologico. Occorre, invero, riportare l'intera questione entro l'alveo della libera determinazione delle parti, richiamando alla possibilità per queste ultime di individuare il rischio in relazione, non solo alla sua dimensione oggettiva, ma alla percezione soggettiva che le parti medesime possano avere dello stesso. Così, a fronte della possibile scomposizione di una generale fattispecie di rischio nei diversi fattori di potenziale pregiudizio che, con un diverso grado di alea, a quella fattispecie potrebbero correlarsi, si può ritenere che, almeno in termini generali, il concetto di rischio e di alea possano essere dalle parti contrattualmente definiti e modulati in relazione a quanto dalle stesse possa essere ragionevolmente percepito ed apprezzato. Certo, le parti medesime non dovrebbero poter dedurre in polizza posizioni di danno assolutamente certe in ogni loro componente e tali da escludere la stessa configurabilità di qualsiasi elemento di dubbio circa il “pericolo” di danno a cui l'assicurato risulterebbe esposto. Ma ciò non equivale a dire che si debba, sempre e comunque, pretendere un'assoluta certezza circa la mancanza, al momento della stipula, di antecedenti causali che, non appalesatisi e magari neppure percepibili “naturalisticamente”, potrebbero in futuro dar luogo alla produzione di un danno (o di una sua componente). Quel che occorre secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite è che, al momento dell'assunzione di un rischio in garanzia, lo stesso – per come contrattualmente definito – sia percepito dalle parti secondo un ragionevole apprezzamento logico, storico e causale, come futuro ed incerto, lasciando apprezzabili margini di alea in ordine all'an, al quando ed al quomodo dell'eventuale sinistro ed a nulla rilevando (di per sé) che, sul piano della causalità giuridica e di fatto, determinati suoi antecedenti eziologici potrebbero già essersi realizzati. E, secondo chi scrive, a definitiva riprova che i presupposti causali di un determinato rischio potrebbero ben essersi tutti verificati all'atto della stipula, purché ignoti alle parti, vi è la stessa indicazione del codice civile e, in particolare, dell'art. 1906 c.c. a mente del quale il danno prodotto da un vizio intrinseco della cosa assicurata (e quindi da un vizio ontologicamente preesistente alla stipula di una polizza a copertura del danno alla cosa medesima) può essere assicurato anche laddove il vizio non sia stato denunziato all'assicuratore, purché le parti abbiano espressamente pattuito tale estensione di copertura (altrimenti esclusa). Né può omettersi di considerare come la prassi di mercato conosca il frequente inserimento, all'interno delle condizioni generali di polizza (per lo più di coperture “della persona”), delle così dette clausole di “carenza”, volte ad individuare un periodo di tempo successivo alla stipula entro il quale il manifestarsi della malattia non dà luogo ad alcun indennizzo, presumendosi una preesistenza della stessa rispetto al perfezionamento del contratto. Il che significa, di converso, che decorso quel termine, la malattia si presume “convenzionalmente” successiva alla stipula, senza necessità di indagarne l'eventuale preesistenza (ferma restando la possibilità di dimostrare che la malattia medesima, pur verificatasi successivamente al periodo di carenza, non fosse in realtà sconosciuta all'assicurato, essendosi già appalesata quando questi si era determinato ad acquistare la relativa garanzia; ma in tal caso la questione integrerebbe una reticenza precontrattuale sanzionabile ai sensi degli artt. 1892 e 1893 c.c.). D'altra parte l'assicurazione malattia, quando prestata in forma di rimborso spese, ben potrebbe riferirsi a patologie conclamate, laddove il rischio dedotto in contratto fosse non la malattia ma la misura delle prestazioni sanitarie richieste, rispetto alle quali la compagnia potrebbe fissare limiti convenzionali di non assicurabilità (corrispondenti agli esborsi ritenuti pressoché certi) e, per altro verso, considerare il fattore demografico per “tarare” l'entità della sua possibile prestazione e stabilire, conseguentemente, il premio. In questi casi lo strumento assicurativo assolve, all'evidenza, funzioni di primaria importanza sociale, anche nell'ambito dei moderni sistemi di welfare mix, rispetto ai quali il risk pooling assicurativo finisce per modularsi in modo atipico, sino a compensare in ottica collettiva, situazioni di rischio sostanzialmente certo (nell'an ma non nel quantum) con posizioni che statisticamente possono ritenersi esenti da rischio. La cessazione del rischio in corso di contratto
Non si discorre di nullità, ma di scioglimento anticipato del contratto, nei casi in cui il rischio — esistente all'atto della stipula — cessi in epoca successiva ed in corso di rapporto. In tali ipotesi, ai sensi dell'art. 1896 c.c., l'assicuratore conserva il diritto al pagamento dei premi finché la cessazione del rischio non gli sia comunicata o non ne venga altrimenti a sua conoscenza. In forza del più volte menzionato principio di indivisibilità del premio, i premi relativi al periodo di assicurazione in corso al momento della comunicazione o della conoscenza della cessazione del rischio continuano ad essere dovuti per intero. Qualora, poi, gli effetti dell'assicurazione debbano avere inizio in un momento posteriore alla conclusione del contratto e il rischio cessi nell'intervallo, l'assicuratore ha diritto al solo rimborso delle spese (ai sensi dell'art. 1896, comma 2, c.c.). La cessazione del rischio può, ma non deve necessariamente, coincidere con la verificazione del sinistro o dell'evento dedotto in polizza. Così, in una copertura contro il furto od il danneggiamento totale di un bene , la polizza si estingue (per cessazione del rischio) una volta che il furto od il danneggiamento totale siano effettivamente accaduti (venendo meno la stessa “cosa” assicurata). Non così invece nelle ipotesi di copertura infortuni o malattia (non mortali), in cui l'infortunio o la patologia occorsi all'assicurato danno luogo ad un sinistro indennizzabile senza far cessare il rischio dedotto in polizza, che rimarrebbe certamente intatto in relazione ad altre e diverse situazioni infortunistiche o di malattia In una garanzia della responsabilità civile correlata allo svolgimento di una data attività (ad esempio: sci alpino) il rischio può cessare anche nel caso in cui quella attività non possa più essere esercitata dall'assicurato (ad esempio, per effetto di una patologia invalidante incompatibile con quello sport). L'art. 1896 c.c. trova meno frequente applicazione nel settore delle assicurazioni sulla vita, in relazione alle quali la cessazione del rischio coincide normalmente col verificarsi dell'evento dedotto in polizza quale momento generativo dell'obbligo di pagamento dell'assicuratore e di naturale conclusione del contratto; in tale comparto potrà dunque parlarsi di cessazione anticipata del rischio in ipotesi residuali, quali la morte dell'assicurato per cause escluse dall'ambito della copertura od il suicidio (laddove estraneo all'ambito della garanza). Come già sottolineato, il rapporto di assicurazione si connota per l'intensità del vincolo fiduciario che connota la relazione tra le parti. Vincolo tanto intenso quanto indispensabile a correggere le possibili distorsioni che potrebbero derivare dalla naturale asimmetria informativa che caratterizza l'istituto, tanto nella sua fase genetica che in corso di contratto. Di qui i precisi obblighi di cooperazione imposti al contraente nella nevralgica fase delle trattative, nell'ambito delle quali egli è tenuto ad offrire all'assicuratore (a tutela anche degli interessi dell'intera collettività assicurata al rispetto di un certo equilibrio assuntivo) una veritiera rappresentazione del rischio, senza indurre l'impresa ad una sua errata ed antieconomica valutazione. La questione trova disciplina negli artt. 1892, 1893 e 1894 c.c. (per un maggior approfondimento sull'argomento, vedi anche F. Martini, Dichiarazioni inesatte e reticenti, in RiDaRe). Quanto invece alla vera e propria dialettica endonegoziale, ossia in corso di contratto, il contraente ha l'obbligo di dare immediato avviso all'assicuratore dei mutamenti che aggravano il rischio, in modo tale che, se il nuovo stato di cose fosse esistito e fosse stato conosciuto dall'assicuratore al momento della conclusione del contratto, l'assicuratore non avrebbe consentito l'assicurazione o l'avrebbe consentita per un premio più elevato (art. 1898 c.c.). Ricevuta la notizia, l'assicuratore può recedere dal contratto, dandone comunicazione per iscritto all'assicurato entro un mese dal giorno in cui ha ricevuto l'avviso o ha avuto in altro modo conoscenza dell'aggravamento del rischio. Il recesso dell'assicuratore ha effetto immediato se l'aggravamento è tale che l'assicuratore non avrebbe consentito l'assicurazione; ha effetto dopo quindici giorni, se l'aggravamento del rischio è tale che per l'assicurazione sarebbe stato richiesto un premio maggiore. Spettano all'assicuratore i premi relativi al periodo di assicurazione in corso al momento in cui è comunicata la dichiarazione di recesso e, se il sinistro si verifica prima che siano trascorsi i termini per la comunicazione e per l'efficacia del recesso, l'assicuratore non risponde qualora l'aggravamento del rischio sia tale che egli non avrebbe consentito l'assicurazione se il nuovo stato di cose fosse esistito al momento del contratto; altrimenti la somma dovuta è ridotta, tenuto conto del rapporto tra il premio stabilito nel contratto e quello che sarebbe stato fissato se il maggiore rischio fosse esistito al tempo del contratto stesso. Sul punto si noti che, secondo l'opinione prevalente, l'aggravamento del rischio debba essere reale e stabile nel tempo. Un fatto meramente transitorio, infatti, non sarebbe idoneo ad alterare il “sinallagma” tra premio e prestazione assicurativa. In ossequio ad un principio di sostanziale bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco, il codice civile tratta anche l'ipotesi inversa:qualora il rischio, invece di aggaravarsi, diminuisca, il contraente potrà farne segnalazione all'assicuratore: i mutamenti che producono una variazione tale che, se fosse stata conosciuta al momento della conclusione del contratto, avrebbe portato alla stipulazione di un premio minore, imporranno all'assicuratore, ex art. 1897 c.c., di adeguare pro futuro la tariffa contrattuale, ferma restando la sua facoltà di recedere dal contratto entro due mesi dal giorno in cui è stata fatta la comunicazione. La dichiarazione di recesso dal contratto ha effetto dopo un mese, in deroga alla regola generale per cui gli atti recettizi producono effetto quando vengono a conoscenza del destinatario. Al pari dell'aggravamento, la diminuzione del rischio non potrà essere determinata da una circostanza meramente transitoria, sebbene la stabilità della situazione sopravvenuta sia condizione necessaria ma non sufficiente perché possa predicarsi la “rilevanza” della diminuzione. È necessario un apprezzamento caso per caso che spetta necessariamente all'assicuratore ovvero l'unico soggetto in grado di valutare l'incidenza della variazione del rischio nel più ampio contesto di una gestione mutualistica di rischi omogenei. In tal senso sembra disporre lo stesso art. 1897 c.c. il quale pone in capo all'assicurato soltanto l'onere di denunciare la variazione rimettendo invece all'assicuratore la scelta tra recedere dal contratto o, in alternativa, applicare una riduzione del premio. Si è a lungo dibattuto sulla ratio sottesa agli artt. 1897 e 1898 c.c. Per quanto, secondo parte della dottrina, le norme in questione mirerebbero a garantire l'equivalenza delle prestazioni dedotte nel singolo rapporto contrattuale, non vi è dubbio che la possibilità di scioglimento del contratto prevista da entrambe le disposizioni vada intesa anche in funzione dell'esigenza di più generale conservazione dell'equilibrio mutualistico dell'insieme dei rischi omogenei a quello oggetto di variazione in aumento o diminuzione. Tale esigenza di mantenimento degli assetti mutualistici di riferimento induce a ritenere che le vicende del rischio idonee a determinare le conseguenze di cui agli artt. 1897 e 1898 c.c. possono esorbitare l'ambito di ciascun singolo rapporto assicurativo e riguardare l'intera e più generale categoria di rischio a cui il contratto fa riferimento. Di qui la possibilità che le norme in questione trovino applicazione anche a fronte di variazioni di rischio che — indipendenti dall'assicurato o dalla sua sfera di azione/controllo — siano da ricondursi al c.d. factum principis (ed in particolare alla determinazione del legislatore). In questo senso, si è espresso il Tribunale di Cagliari intervenendo, in materia di r.c.a., ed occupandosi della nota modifica del regime legislativo indotto dalla «sentenza della Corte costituzionale in data 22 dicembre 1991, n. 188, che ha dichiarato la illegittimità dell'art. 4, lett. b), l. 24 dicembre 1969, n. 990, in quanto escludeva dai benefici derivanti dai contratti di assicurazione stipulati ai sensi della predetta legge, per i danni alla persona, il coniuge ed altri parenti e affini dei soggetti la cui responsabilità civile era coperta dall'assicurazione». Ebbene, tale modifica, applicandosi ai contratti in corso alla data della sua pubblicazione, doveva ritenersi «causa di un notevole aggravamento del rischio» tale da giustificare una riduzione dell'indennizzo «a carico dell'assicuratore, in applicazione analogica, del disposto dell'art. 1898, comma ultimo, c.c.» (Trib. Cagliari, 6 agosto 2001, in Riv. Giur. Sarda, 2003, 33) Orbene, se la ratio sottesa agli artt. 1897 e 1898 c.c. è la medesima, il factum principis potrebbe determinare tanto un aggravamento quanto una diminuzione del rischio. Proprio in tema di riduzione può risultare d'interesse una risalente pronuncia del Giudice Conciliatore di Napoli a mente della quale un provvedimento della p.a. che aveva imposto la circolazione a targhe alterne non avrebbe comportato una diminuzione del rischio «perché il premio non può essere frazionato in rate giornaliere per tutta la durata dell'assicurazione» (Giudice Conciliatore di Napoli, 11 novembre 1993, in Ass., II, 46). Al di là della stravaganza di una motivazione che sembra confondere l'elemento del rischio con il premio, tale pronuncia finisce con l'ammettere, almeno in linea teorica, che un provvedimento della P.A. possa integrare una diminuzione del rischio. Casistica
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