Ricorso per cassazione (Disposizioni generali)Fonte: art. 606
29 Giugno 2020
Inquadramento
Il titolo III del Libro IX del codice di procedura penale (artt. 606 – 628) ospita il ricorso per cassazione. Quanto seguirà mira ad offrire una descrizione essenziale delle disposizioni generali sul ricorso per cassazione (artt. 606 – 609) alla luce del diritto vivente rappresentato dalle pronunce delle Sezioni unite della Corte di cassazione e della Corte costituzionale. Disposizioni generali. Motivi del ricorso
Le disposizioni generali sono contenute negli artt. 606-609 c.p.p. e prevedono casi e motivi di ricorso (art. 606), legittimazione a ricorrere di imputato e pubblico ministero (artt. 607 e 608), limiti di cognizione della Corte di cassazione (art. 609).
I motivi per i quali è possibile proporre ricorso per cassazione sono elencati nell'art. 606, comma 1, c.p.p. e riguardano: a) l'eccesso o straripamento di potere, recte l'esercizio da parte del giudice di una potestà che la legge riserva a organi legislativi o amministrativi o che non è consentita ai pubblici poteri. Il giudice penale non ha, ad es., il potere di disapplicare, ai sensi degli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, gli atti amministrativi illegittimi che non comportano una lesione dei diritti soggettivi, ma rinnovano un ostacolo al loro libero esercizio (nulla osta, autorizzazioni) o addirittura li costituiscono, a meno che tale potere non trovi fondamento e giustificazione o in una esplicita previsione legislativa, ovvero, nell'ambito dell'interpretazione della norma penale qualora l'illegittimità dell'atto amministrativo si presenti essa stessa come elemento essenziale della fattispecie criminosa (v. Cass. S.U. 3 gennaio 1987, n. 3, Giordano, in una fattispecie in tema di costruzione abusiva). Il giudice penale non eccede dalle sue attribuzioni nemmeno se valuti comportamenti dell'amministrazione, che pur avendo di per sé genesi lecita e consistendo nel rilascio di provvedimento amministrativo, realizzino un elemento costitutivo della fattispecie penale e nemmeno se disapplichi l'atto presupposto difforme dalla disciplina giuridica di riferimento perché affetto da illegalità formale e sostanziale (Cass. S.U. 12 novembre 1993, n. 11635, Borgia).
b) il vizio di violazione di legge penale, recte l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale (errores in iudicando in iure). Di regola si tratta di errori nella qualificazione giuridica di un fatto: un reato o una circostanza aggravante anziché un fatto lecito; una contravvenzione anziché un delitto; un delitto anziché un altro; un reato aggravato anziché un reato semplice; una fattispecie autonoma di reato anziché una circostanza; un elemento costitutivo del reato anziché una condizione obiettiva di punibilità del medesimo; una causa di esclusione della colpevolezza o della punibilità anziché una causa di esclusione dell'antigiuridicità; un tipo di recidiva anziché un altro, ecc. Non vi rientrano le violazioni della legge processuale (errores in procedendo), ad es. le violazioni di legge in tema di valutazione della prova, l'omesso esame di una prova acquisita, ecc.
c) violazione (inosservanza) di norme processuali stabilite a pena di:
Come si avrà modo di ribadire, la Corte di cassazione, a norma dell'art. 609, comma 2, c.p.p. ha cognizione sulle questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo e sulle questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello. Le questioni di inutilizzabilità e di nullità assoluta sono rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo. Purtuttavia, la cognizione della corte di cassazione oltre i confini del devolutum, di cui all'art. 609, comma 2, è da intendersi limitata alle sole questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento sul fatto. Ne deriva che le questioni di inutilizzabilità e di nullità assoluta possono essere proposte per la prima volta nel giudizio di legittimità se la loro valutazione richiede accertamenti di merito. Detti accertamenti devono essere necessariamente sollecitati nel giudizio di appello, per poi, se del caso, sindacare i relativi provvedimenti mediante un successivo ricorso per cassazione. In ogni caso, non compete alla corte di cassazione, in mancanza di specifiche deduzioni, verificare se esistano cause di inutilizzabilità o di invalidità di atti del procedimento che non appaiano manifeste, in quanto implichino la ricerca di evidenze processuali o di dati fattuali che è onere della parte interessata rappresentare adeguatamente (Cass. S.U. 16 luglio 2009, n. 39061, De Iorio; Cass. S.U. 17 novembre 2004, n. 45189, p.m. in proc. Esposito).
È onere della parte che eccepisce l'inutilizzabilità o la nullità di atti processuali:
Va dedotta in termini specifici la determinante rilevanza probatoria dell'atto (decisività); dimostrando la sua inutilizzabilità o nullità, quindi la fondatezza delle questioni, la catena delle reazioni deve portare allo sgretolamento del capo e il ricorso (che è querela nullitatis) raggiunge così lo scopo per cui è stato previsto. Se il motivo non è decisivo non può portare all'annullamento. Il motivo non decisivo è irrilevante. Fermo restando che la decisività è di immediata evidenza soprattutto quando non riguarda atti a contenuto probatorio, ma atti di impulso (si pensi alla nullità assoluta dell'omessa citazione nel giudizio di appello). Grava su chi denuncia l'inutilizzabilità o la nullità di determinati atti l'onere di indicare se e in quale misura il giudice di merito li abbia posti a fondamento della sua decisione e le ragioni per le quali questa non sia in grado di resistere senza la loro valorizzazione. La sentenza impugnata, pur se formalmente viziata da inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità o di nullità, in tanto va annullata in quanto si accerti che la prova illegittimamente acquisita ha avuto una determinante efficacia dimostrativa nel ragionamento giudiziale, un peso reale sul convincimento e sul dictum del giudice di merito, nel senso che la scelta di una determinata soluzione, nella struttura argomentativa della motivazione, non sarebbe stata la stessa senza l'utilizzazione di quella prova, nonostante la presenza di altri elementi probatori di per sé ritenuti non sufficienti a giustificare identico convincimento (Cass. S.U. 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro; Cass. S.U. 25 febbraio 1998, n. 4265, Gerina). Anche in sede di legittimità può, dunque, procedersi alla cd. «prova di resistenza», nel senso di valutare se gli elementi di prova acquisiti illegittimamente abbiano avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito, controllando in particolare la struttura argomentativa della motivazione al fine di stabilire se la scelta di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa anche senza l'utilizzazione di quegli elementi, per la presenza di altre prove ritenute di per sé sufficienti a giustificare l'identico convincimento.
Si è soliti dire che qualora sia dedotto un error in procedendo ex art. 606, comma 1, lett. c), la Corte è “giudice del fatto” (Cass. S.U. 31 ottobre 2001, n. 42792, Policastro). D'altra parte, a norma dell'art. 187 c.p.p., oggetto della prova sono i fatti, recte i «fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza», i «fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali» e infine, quando vi sia costituzione di parte civile, i fatti «inerenti alla responsabilità civile derivante da reato». Il ragionamento probatorio del giudice, pertanto, è quello che sostiene un giudizio sui fatti, quello che giustifica una decisione sui fatti. Quando la decisione sul fatto è destinata all'applicazione di una norma sostanziale relativa alla responsabilità penale o civile dell'imputato, oggetto del controllo da parte della Corte di cassazione non è direttamente la decisione, che è una decisione di merito, ma appunto soltanto il ragionamento probatorio che la sostiene. Quando si tratti di una decisione sui «fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali», vale a dire di una decisione sul rito, la Corte di cassazione è, invece, essa stessa giudice del fatto e, quindi, esercita il proprio controllo direttamente sulla decisione, quale che sia il ragionamento probatorio esibito per giustificarla. Ne deriva che, per risolvere la relativa questione, la Corte può accedere all'esame diretto degli atti processuali.
Qualora la motivazione manchi assolutamente o sia del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza e completezza, al punto da risultare inidonea a rendere comprensibile l'iter logico seguito dal giudice di merito, ovvero le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate da rendere oscure le ragioni che hanno giustificato il provvedimento, il vizio è qualificabile come inosservanza della specifica norma processuale (artt. 125, comma 3; 292, comma 2, c) e c-bis) c.p.p.) che impone, a pena di nullità, l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (Cass. S.U. 28 maggio 2003, n. 25080, Pellegrino; Cass. S.U. 26 febbraio 1991, n. 5, Bruno). Non è, invece, presidiata da una sanzione di nullità la mancanza o manifesta illogicità della motivazione che, pur consistendo nell'inosservanza dei canoni di conoscenza e valutazione imposti da norme di legge (in particolare artt. 192, 533, comma 1 e 546, comma 1 lett. e) c.p.p.) che regolano il ragionamento probatorio, può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art. 606 (Cass. S.U. 28 gennaio 2004, n. 5876, p.c. Ferazzi in proc. Bevilacqua). Qualora già risulti una causa di estinzione del reato, la sussistenza di una nullità non è rilevabile nel giudizio di legittimità, in quanto l'inevitabile rinvio al giudice del merito è incompatibile con il principio dell'immediata applicabilità della causa estintiva. L'estinzione del reato preclude, invero, l'acquisizione di ulteriori prove e impone di decidere allo stato degli atti; sicché in sede di rinvio il giudice del merito non potrebbe esimersi dal pronunciare immediatamente sentenza di non doversi procedere. (Cass. S.U. 28 novembre 2001, n. 1021/02, Cremonese).
d) La mancata assunzione di una prova decisiva, se la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell'istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall'art. 495, comma 2, in altre parole la mancata assunzione, quindi l'omessa acquisizione (da non confondere con l'omessa valutazione), di una controprova decisiva (ad es., per l'imputato una prova indicata a discarico sui fatti costituenti oggetto di prova a carico). Anche in questo caso si tratta di un error in procedendo, sicché la Corte è – come sopra si è detto - giudice del fatto, giudice in particolare della decisività della controprova richiesta ma non assunta. Il vizio in esame concerne il giudizio di primo grado. Nel giudizio di appello il tema diventa quello della rinnovazione del dibattimento ex art. 603, comma 2, disposizione che impone al giudice, qualora le nuove prove siano sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, di disporre la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall'art. 495, comma 1, c.p.p. In altre parole, in riferimento al giudizio di appello, la mancata assunzione di una controprova decisiva può costituire motivo di ricorso ex art. 606, comma 1, lett. d), solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse secondo il disposto dell'art. 603, comma 2. Negli altri casi, la decisione istruttoria è ricorribile sotto il solo profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione come risultante dal testo del provvedimento impugnato e sempre che la prova negata, confrontata con le ragioni addotte a sostegno della decisione, sia di natura tale da poter determinare una diversa conclusione del processo.
In relazione alla decisività della prova, la Corte deve valutare se la controprova fosse manifestamente superflua, tendesse cioè ad un risultato conoscitivo già palesemente acquisito. L'art. 495, comma 2 va, invero, coordinato con l'art. 495, comma 4, secondo il quale, nel corso dell'istruzione dibattimentale, il giudice può revocare l'ammissione di prove che risultino superflue. Prova decisiva, la cui mancata assunzione legittima il ricorso, è quella idonea a superare contrasti e conseguenti dubbi emergenti dall'acquisito quadro probatorio oppure atta di per sé ad inficiare l'efficacia dimostrativa di altra o altre prove di sicuro segno contrario. Tale non è, per intendersi, quella che ha bisogno di essere comparata con gli elementi già acquisiti, non per negarne l'efficacia dimostrativa, bensì per comportarne un confronto dialettico al fine di effettuare una ulteriore valutazione per quanto oggetto del giudizio (Cass. S.U. 11 aprile 2006, n. 17050, Maddaloni).
e) Il vizio di motivazione, recte la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame (v. disp. att. 165-bis.2). Il vizio di motivazione serve a veicolare la critica dell'argomentazione sul fatto. Non è denunciabile con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di merito, allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta. D'altro canto, l'interesse all'impugnazione potrebbe nascere soltanto dall'errata soluzione delle suddette questioni, non dall'indicazione di ragioni errate a sostegno di una soluzione comunque giuridicamente corretta. Gli errori di diritto nella motivazione e le erronee indicazioni di testi di legge non producono l'annullamento della sentenza impugnata, se non hanno avuto influenza decisiva sul dispositivo. La corte tuttavia deve specificare nella sentenza le censure e le rettificazioni occorrenti (art. 619). La doglianza in diritto, dunque, deve essere non solo fondata, ma anche non emendabile (Cass. S.U.30 novembre 2017, n. 3464/2018, Matrone).
In questo caso la “mancanza” di motivazione non è la carenza sotto il profilo grafico, ma è l'assenza di passaggi argomentativi per rendere l'iter logico comprensibile, verificabile. La Corte verifica se il giudizio di merito è agganciato a tutte le risultanze probatorie obiettive; se l'argomentazione è coerente; se vi è corretta interpretazione delle risultanze e applicazione delle regole della logica; se il giudice ha dato esaustiva risposta ai motivi specificamente prospettati, che non siano manifestamente infondati e che promanino possibile decisività. E si ha “mancanza” di motivazione quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento sono prive (mancanti) di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall'interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività. Per verificare se vi è mancanza di motivazione la Corte può esaminare i motivi di appello e in tal modo accertare se vi sia congruità e completezza dell'argomentazione del giudice di appello con riferimento alle doglianze mosse alla decisione di primo grado. Non è detto, però, che il silenzio su una doglianza integri il vizio di preterizione. Per poterlo affermare occorre verificare se la doglianza (che deve essere specifica) prospettata col gravame non sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata e, in particolare, dalla valutazione del fatto in concreto compiuta. Doglianza “specifica” si è detto sopra: non costituisce causa, infatti, di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo d'appello che per la sua genericità doveva essere dichiarato inammissibile. La motivazione, l'argomentazione, può essere “implicita”, silenziosa. Ad es., l'argomentazione esplicita su un punto può essere motivazione implicita di altro punto che sia in rapporto di consequenzialità logica.
L'obbligo di motivazione è particolarmente intenso se c'è stata riforma della sentenza di primo grado. Il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Cass. S.U. 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino).
Denunciare il vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione (vizio dell'argomentazione) non significa chiedere una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito. La Corte non può esprimere alcun giudizio sulla rilevanza e sull'attendibilità delle fonti di prova, giacché esso è attribuito al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da questo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un'imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova (Cass. S.U. 23 novembre 1995, n. 2110/96, P.G. in proc. Fachini). Come in termini ancor più generali si dice, il vizio di travisamento del fatto in tanto può essere valutabile e sindacabile in sede di legittimità, in quanto risulti inquadrabile nelle ipotesi tassativamente previste dall'art. 606, comma 1, lett. e) (Cass. S.U. 30 aprile 1997, n. 6402, Dessimone). La illogicità, quale vizio denunciabile, deve essere manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cass. S.U. 30 aprile 1997, n. 6402, Dessimone; Cass. S.U. 24 settembre 2003, n. 47289, Petrella). Il legislatore aveva originariamente stabilito che il vizio in esame dovesse risultare dal testo del provvedimento impugnato; in altre parole, il controllo di logicità non poteva spingersi a verificare la rispondenza della motivazione agli atti e documenti processuali (Cass. S.U. 30 aprile 1997, n. 6402, Dessimone; Cass. S.U. 31 maggio 2000, n. 12, Jakani). La Corte si limitava ad analizzare il testo del provvedimento impugnato, verificando la coerenza dell'argomentazione, la corretta applicazione delle regole di valutazione delle risultanze probatorie e delle regole della logica (Cass. S.U. 22 marzo 2000, n. 11, Audino); a verificare che il giudice del merito avesse dato esaustiva risposta ai motivi se specificamente prospettati, non manifestamente infondati e (quanto alla rilevanza probatoria) decisivi. Una volta riscontrata l'esistenza di un logico apparato argomentativo, la Corte non poteva verificare, attraverso l'esame diretto degli atti, la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali. Veniva dunque in considerazione la illogicità “intrinseca”, cioè tra argomenti della decisione con il limite della rilevabilità testuale. Con la legge 20 febbraio 2006, n. 46, il vizio di motivazione non è più solo vizio di argomentazione; può essere anche vizio di informazione. Si è superata la regola che inibiva al giudice di legittimità l'esame diretto degli atti processuali. Il vizio di motivazione può ora risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche “da altri atti del processo”, purché siano “specificamente indicati nei motivi di gravame”. All'illogicità intrinseca della motivazione (cui era equiparabile la contraddittorietà logica tra argomenti della motivazione) si è affiancata la contraddittorietà tra la motivazione e l'atto a contenuto probatorio, l'informazione probatoria. Non rileva più soltanto il ragionamento probatorio intrinsecamente illogico. Rileva anche il ragionamento probatorio che è contraddittorio rispetto agli atti, che è cioè connotato da premesse in fatto infondate. Ha assunto, dunque, rilievo, insieme al contenuto logico, quello informativo della decisione. Se prima l'errore di giudizio si annidava nel ragionamento incoerente, ora l'error in iudicando è rilevabile anche nella motivazione infedele rispetto alle risultanze probatorie acquisite nel processo. Rileva, in altre parole, la contraddittorietà tra argomentazione e atto (informazione probatoria). La contraddittorietà non è più solo testuale, ma è anche extratestuale. Casi di ricorso
Il ricorso per cassazione può essere proposto (art. 606, comma 2, c.p.p.):
È ammesso il ricorso per cassazione contro i provvedimenti abnormi (v., ex plurimis, Cass. S.U. 9 luglio 1997, n. 11, p.m. in proc. Quarantelli; nello stesso senso, ex plurimis, Cass. S.U. 10 dicembre 1997, n. 17/98, Di Battista; Cass. S.U. 24 novembre 1999, n. 26/00, Magnani; Cass. S.U. 20 dicembre 2007, n. 5307/08, p.m. in proc. Battistella; Cass. S.U. 25 marzo 2010, n. 21243, P.G. in proc. Zedda; Cass. S.U. 18 gennaio 2018, n. 20569, P.).
Non è, invece, ammesso ricorso per cassazione, ad es., avverso:
L'art. 5 del d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, in vigore dal 6 marzo 2018, ha inserito nell'art. 606 il comma 2-bis per stabilire che contro le sentenze di appello pronunciate per reati dicompetenza del giudice di pace, il ricorso può essere proposto soltanto per i motivi di cui al comma 1, lett. a), b) e c) o, come anche si dice, solo per “violazione di legge”. Il ricorso è inammissibile, anzitutto, nei casi e secondo le regole generali di cui art. 591, comma 1, c.p.p. (v. voce Impugnazioni - Disposizioni generali). Il ricorso per cassazione è, inoltre, inammissibile se è proposto:
Il ricorso per cassazione avverso sentenza di condanna in appello dell'imputato prosciolto in primo grado con la formula ampiamente liberatoria "per non aver commesso il fatto" può essere proposto anche per violazioni di legge non dedotte, perché non deducibili per carenza di interesse all'impugnazione, in appello (Cass. S.U. 30 ottobre 2003, n. 45276, P.G., Andreotti). L'ambito oggettivo è delimitato dall'art. 607 c.p.p., che individua i provvedimenti suscettibili di ricorso per cassazione da parte dell'imputato (Cass. S.U. 21 dicembre 2017, n. 8914/18, Aiello), ferma restando la ineludibile sussistenza dell'interesse ad impugnare (art. 568, comma 4, c.p.p.). L'art. 607 stabilisce che l'imputato può ricorrere per cassazione contro:
Ricorso del pubblico ministero
L'art. 608 tratta della legittimazione a ricorrere del pubblico ministero.
In particolare: a) il procuratore generale presso la corte d'appello può ricorrere contro ogni sentenza di condanna o di proscioglimento pronunciata in grado di appello o inappellabile (art. 608, comma 1, c.p.p.). Tuttavia, se il giudice di appello pronuncia sentenza di conferma di quella di proscioglimento (c.d. doppia conforme di proscioglimento), il ricorso può essere proposto solo per violazione di legge, recte per i motivi di cui all'art. 606, comma 1, lett. a), b) e c) (art. 608, comma 1-bis, c.p.p. inserito dalla l. 23 giugno 2017, n. 103, in vigore dal 3 agosto 2017); b) il procuratore presso il tribunale può ricorrere per cassazione contro ogni sentenza inappellabile, di condanna o di proscioglimento, pronunciata dalla corte di assise, dal tribunale o dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale (art. 608, comma 2, c.p.p.); c) entrambi possono anche ricorrere nei casi previsti dall'art. 569 c.p.p. (ricorso immediato per cassazione avverso la sentenza di primo grado) e da altre disposizioni di legge (v. ad es. artt. 311, comma 1 e 428, comma 3, c.p.p.). In sintesi, procuratore generale e procuratore della Repubblica possono ricorrere per cassazione solo quando questo potere è loro espressamente attribuito, in altre parole, non possono esperire tale impugnazione nei casi in cui, pur essendo il provvedimento ricorribile, non è prevista una loro specifica legittimazione. Cognizione della corte di cassazione
La cognizione della corte di cassazione è fondata sul principio devolutivo.
a) Il ricorso attribuisce alla corte la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti (art. 609, comma 1 c.p.p.). Sui punti della decisione non costituenti oggetto dei motivi, la corte non può spingere la sua cognizione; la preclusione viene meno solo se la legge prevede poteri esercitabili ex officio.
b) La corte decide le questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado (es. inutilizzabilità patologica; nullità assoluta, abolitio criminis, ecc.) del processo e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (si completa così la previsione dell'art. 606, comma 3 che preclude la deducibilità con ricorso per cassazione delle questioni non rappresentate con l'appello) (art. 609, comma 2). Il sistema delle impugnazioni è, peraltro, contraddistinto dal principio dispositivo, nel senso che è nella facoltà delle parti dare ingresso, attraverso un atto conforme ai requisiti di legge, al procedimento di impugnazione e delimitare i punti del provvedimento da sottoporre al controllo dell'organo giurisdizionale del grado successivo. Ne consegue che il momento di operatività dell'effetto devolutivo ope legis non può che coincidere con la proposizione di una valida impugnazione (impugnazione non inammissibile), che investa l'organo giudicante della cognizione della res iudicanda, con riferimento sia ai motivi di doglianza articolati dalle parti sia a quelli che, inerendo a questioni rilevabili d'ufficio, si affiancano per legge ai primi.
c) Tra le questioni rilevabili d'ufficio ci sono quelle concernenti le cause di non punibilità di cui all'art. 129. Ma - come sopra si è detto - qualora l'impugnazione sia inammissibile (v. sul punto art. 591 in Impugnazioni – Disposizioni generali), non può il giudice ex officio dichiarare l'esistenza di una causa di non punibilità, posto che la verifica negativa di ammissibilità dell'impugnazione ha valore assorbente e preclusivo rispetto a qualsiasi altra indagine di merito (Cass. S.U., 26 giugno 1998, n. 11493, Verga; Cass. S.U. 17 dicembre 2015, n. 12602/16, Ricci). L'art. 129 c.p.p. non riveste, invero, una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, considerato che non attribuisce, di per sé, al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio, svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma si limita a dettare una regola di giudizio, che deve essere adattata alla struttura del processo per così come normativamente disciplinata e che deve guidare il giudice nell'esercizio dei poteri decisori che già gli competono in forza di una corretta investitura (Cass. S.U. 25 gennaio 2005, n. 12283, De Rosa). L'impugnazione inammissibile non può, dunque, produrre gli effetti introduttivi del giudizio del grado successivo. Le sole ipotesi di cognizione da parte del giudice dell'impugnazione inammissibile rimangono:
Va, inoltre, segnalata, nella medesima prospettiva, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., che le Sezioni Unite (Cass. S.U. 25 febbraio 2016, n. 13681, Tushaj) hanno ritenuto rilevabile anche in presenza di ricorso inammissibile rimarcandone la capacità di operare come una depenalizzazione in concreto (Cass. S.U. 22 giugno 2017, n. 53683, Pmp ed altri), pure dovendosi sottolineare la dissimetria, rispetto alle decisioni precedenti, della interpretazione che ha disancorato tale eccezionale attitudine, dalla capacità di determinare la revoca del giudicato (Cass. S.U. 21 giugno 2018, n. 40150, Salatino). Se la prescrizione concorre con una nullità assoluta, prevale la causa estintiva per la ritenuta inutilità del giudizio di rinvio a fronte della mancata deduzione del possibile proscioglimento dell'imputato nel merito, sempreché non risulti evidente la prova dell'innocenza dell'imputato, dovendo la corte di cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all'art. 129, comma 2 (Cass. S.U., 27 aprile 2017, n. 28954, Iannelli; v. altresì Cass. S.U. 28 maggio 2009, n. 35490, Tettamanti). Se si verifica abolitio criminis s'impone la verifica prioritaria se il fatto sia considerato reato, operazione avente natura pregiudiziale al rilievo, oltre che dell'estinzione del reato, anche delle nullità (Cass. S.U. 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli). Soprattutto con riguardo alla prescrizione del reato si sono susseguite fondamentali decisioni. In una prima decisione (Cass. S.U., 11 novembre 1994, n. 21/95, Cresci) si era affermato che soltanto le cause di inammissibilità originaria dell'impugnazione (tutte quelle previste dall'art. 591 c.p.p., ad esclusione della rinuncia; nella specie, si trattava della genericità dei motivi) impedivano di rilevare e dichiarare, ai sensi dell'art. 129, eventuali cause di non punibilità, segnatamente la prescrizione del reato. Per contro, le cause di inammissibilità sopravvenute (ad es., con riguardo al ricorso per cassazione, la manifesta infondatezza dei motivi ovvero l'enunciazione di motivi non consentiti o non dedotti in appello: art. 606, comma 3 c.p.p.) non erano ostative all'operatività della disposizione dell'art. 129 c.p.p. Una seconda decisione (Cass. S.U., 30 giugno 1999, n. 15, Piepoli) aveva circoscritto ulteriormente il numero delle cause di inammissibilità sopravvenute, individuando anche all'interno del citato art. 606.3, cause di inammissibilità originaria del ricorso, segnatamente i motivi “non consentiti” e quelli non dedotti nel giudizio di appello. Restava, dunque, al di fuori della categoria delle cause di inammissibilità originarie, oltre alla rinuncia all'impugnazione, la manifesta infondatezza dei motivi. Ci ha pensato altra successiva pronuncia ad annoverare anche il ricorso contrassegnato da motivi manifestamente infondati fra le cause originarie di inammissibilità (Cass. S.U., 22 novembre 2000, n. 32/01, De Luca). Va solo aggiunto, per concludere sul punto, che le tre decisioni da ultimo citate riguardavano tutte ipotesi in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla pronuncia della sentenza di appello. È rimasta, dunque, come causa sopravvenuta la sola rinuncia al gravame, ma sin tratta di vicenda del tutto diversa dalle altre cause di inammissibilità, discendendo un simile effetto dall'esercizio di un diritto potestativo dell'interessato. Quanto alla prescrizione maturata prima della pronuncia della sentenza d'appello, la S.C. ha chiarito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevarla d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2 c.p.p. se non rilevata né eccepita in sede d'appello e neppure dedotta con i motivi di ricorso (Cass. S.U., 17 novembre 2015, n. 12602/16, Ricci; conforme Cass. S.U., 22 marzo 2005 n. 23428, Bracale). Successivamente, Cass. S.U., 27 maggio 2016 n. 6903/17, Aiello ha affermato che, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello.
d) Con riguardo alle questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (art. 609, comma 2), la corte può, anche d'ufficio, ritenere applicabile il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio per l'imputato, sopravvenuto alla sentenza di appello, disponendo l'annullamento sul punto della sentenza impugnata (nella specie, pronunciata dal giudice di rinvio) pronunciata - come si è detto - prima delle modifiche normative in melius (Cass. S.U. 26 giugno 2015, n. 46653, Della Fazia, preceduta da Cass. S.U. 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto che aveva ammesso la superabilità del giudicato quando interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio). Il mutamento e l'eventuale erronea applicazione della legge possono essere rilevati d'ufficio dal giudice di legittimità anche se l'imputato con il ricorso originario (o con motivi nuovi o memorie) non abbia proposto alcun motivo riguardante la pena né alcuna ragione di critica alla sua determinazione da parte del giudice del rinvio pur dopo le rilevanti modifiche normative intervenute successivamente alla sentenza di conferma della condanna. Pur non vertendosi in un'ipotesi di pena illegale, emergono più ragioni (in particolare, i la formulazione dell'art. 2, comm 4 c.p. e l'inquadramento della violazione sopravvenuta tra le violazioni dei diritti fondamentali della persona che impongono al giudice, in base alla giurisprudenza della Corte cost. e della Corte EDU, di eliminare le conseguenze di tali violazioni) per affermare la rilevabilità d'ufficio della questione indipendentemente dal momento (anteriore o successivo all'entrata in vigore delle modifiche normative di favore) in cui il ricorso sia stato proposto. Nel giudizio di cassazione l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d'ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo (Cass. S.U. 26 febbraio 2015, n. 33040, Jazouli). Nel giudizio di cassazione, dunque, l'illegalità della pena non è rilevabile d'ufficio in presenza di un ricorso inammissibile perché presentato fuori termine. Dalla lettura coordinata degli artt. 648, comma 2, c.p.p. (in base al quale la sentenza contro la quale è ammessa l'impugnazione è irrevocabile "quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l'ordinanza che la dichiara inammissibile") e 591, comma 2 (secondo il quale il giudice dell'impugnazione, anche di ufficio, dichiara con ordinanza l'inammissibilità e dispone l'esecuzione del provvedimento impugnato) si desume che la presentazione di un'impugnativa tardiva non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza, la quale, pertanto, deve essere necessariamente eseguita, anche prima della pronuncia dichiarativa dell'inammissibilità dell'impugnazione (Cass. S.U. 26 giugno 2015, n. 47766, Butera). In questo caso si è in presenza di una impugnazione sin dall'origine inidonea a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione della impugnazione ha già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale, sicché il giudice dell'impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto. Questa speciale causa di inammissibilità è quindi preclusiva di un'eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalità della pena. |