Angelo Zampaglione
28 Settembre 2015

Le disposizioni generali sulla prova sono disciplinate dagli artt. 187-193 c.p.p. e costituiscono una sorta di catalogo delle regole o principi guida in materia di prova rispetto alla regolamentazione dei singoli mezzi di prova ed attengono al mutato rapporto prova e decisione.
Inquadramento

Le disposizioni generali sulla prova sono disciplinate dagli artt. 187-193 c.p.p. e costituiscono una sorta di catalogo delle regole o principi guida in materia di prova rispetto alla regolamentazione dei singoli mezzi di prova ed attengono al mutato rapporto prova e decisione.

In un sistema processuale finalizzato alla dimostrazione del fatto ipotizzato nell'imputazione, le prove costituiscono gli strumenti che consentono di ricostruire ex post, attraverso atti e ricordi di terzi, una vicenda nel tentativo di afferrare il senso delle cose passate. Ciò che va provato non è solo il fatto ma, stando a quanto stabilito dall'art. 187 c.p.p., anche tutto ciò che si riferisce all'imputazione, alla punibilità, alla determinazione della pena o della misura di sicurezza, nonché i fatti da cui dipende l'applicazione di norme processuali e, qualora vi sia stata costituzione di parte civile, le questioni derivanti dall'esercizio dell'azione civile in sede penale.

Per sgombrare il campo da possibili equivoci, preme si da ora precisare che, salvo alcune eccezioni, nel sistema processuale del codice del 1988 la prova è esclusivamente quella assunta nel contraddittorio fra le parti e, quindi, nel corso dell'istruzione dibattimentale oppure in sede di incidente probatorio. Durante le indagini preliminari, invece, non si assumono prove ma solo elementi di prova, che acquisiranno dignità di prova se ed in quanto verranno assunti in contraddittorio tra le parti nel corso dell'istruzione dibattimentale. Possiamo affermare che elementi di prova esistono sia in fase di indagine sia in dibattimento. Quelli raccolti nella fase investigativa, salvo eccezioni, servono al pubblico ministero per orientarsi sull'esercizio dell'azione penale mentre quelli assunti in dibattimento servono al giudice per fondare una sentenza di condanna o di assoluzione.

In evidenza

La fase investigativa ha la funzione di ricercare elementi che saranno successivamente utilizzati per esercitare l'azione penale e costruire la prova. Così, va sin da ora anticipato, che la ricerca di tali elementi più che rappresentare una fase del procedimento probatorio costituisce una sua premessa. Il procedimento probatorio è quello spazio processuale deputato alla formazione dei dati indispensabili alla decisione ed è costituito dalle tre fasi di ammissione, assunzione e valutazione della prova.

Come spesso accade, ogni regola convive con alcune eccezioni: elementi di prova unilateralmente formati nel corso delle indagini possono acquisire la capacità dimostrativa tipica delle prove, divenendo quindi utilizzabili dal giudice per la decisione. Ciò avviene, per espressa previsione costituzionale, quando l'imputato decide di attivare riti speciali come il giudizio abbreviato o il patteggiamento (consenso dell'imputato), nel caso in cui vi sia provata condotta illecita (cd. contraddittorio inquinato) e, infine, in caso di impossibilità oggettiva di ripetizione (cd. contraddittorio impossibile). Trattasi, come noto, delle tre ipotesi in cui è possibile sacrificare il fondamentale principio del contraddittorio che costituisce il cuore pulsante dei principi sul “giusto processo” (art. 111, comma 5, Cost.).

Oggetto di prova

L'art. 187 c.p.p. segna il limite oltre al quale l'indagine processuale non può andare e, in questa prospettiva, costituisce una “garanzia” per tutte le parti, al pari di ogni altra norma in tema di prova e demarca il perimetro del giudizio contenendo anche i poteri del giudice. Non può, poi, sottacersi che la scelta di circoscrivere il tema di prova permette l'attuazione di un sistema di conoscenza giudiziale di natura dialettica.

In evidenza

Sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilità, alla determinazione della pena o della misura di sicurezza, nonché i fatti da cui dipende l'applicazione di norme processuali e, qualora vi sia stata costituzione di parte civile, le questioni derivanti dall'esercizio dell'azione civile in sede penale (Cass. pen., Sez. V, 4232/2010).

Va però segnalato che non sempre l'oggetto di prova coincide direttamente con i temi della verifica, potendo capitare che la dimostrazione tenda verso aspetti che sono ad essi riconducibili solo in via indiretta. Nel primo caso, l'oggetto di prova riguarderà i c.d. “fatti primari” mentre nel secondo l'istruttoria cadrà sui c.d. “fatti secondari”, a partire dai quali la verifica dei temi principali – quelli elencati dall'art. 187 c.p.p. – avviene tramite un ragionamento che si serve di leggi scientifiche, massime d'esperienza e fatti notori.

La Suprema Corte ha affermato che, nel rispetto del principio del contraddittorio, è possibile estendere l'accertamento anche oltre la condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice al fine di ricomprendere tutti quei fatti e quelle situazioni, anche di contorno, che ad essa sono inerenti e si mostrano utili per la verifica dibattimentale delle ipotesi ricostruttive formulate dalle parti (Cass. pen., Sez. V, 4232/2010). Sulla scorta di queste considerazioni, traspare un nuovo aspetto che caratterizza il tema di prova: quello della mutevolezza. Così, l'estensione del thema probandum finisce con l'essere strettamente connessa alla disciplina sulle nuove contestazioni prevista dagli artt. 516 e ss. c.p.p.

Nell'ipotesi in cui l'accertamento implica l'analisi di complessi aspetti normativi o quando il risultato finale richiede l'esame dell'interno psichico (es. dolo, colpa), l'oggetto della prova resta pur sempre il dato fattuale: non saranno oggetto di prova i contenuti delle norme (salvo che non ci si riferisca alla materiale esistenza del provvedimento legislativo) o la loro interpretazione.

Nell'orbita della prova sono ricompresi anche i fatti da cui dipende l'applicazione di norme processuali (es. modalità di acquisizione della prova ai fini di una valutazione di inutilizzabilità ex art. 500 c.p.p., o ancora l'accertamento della data di conoscenza del fatto ai fini del giudizio sulla tempestività della querela).

Sono, poi, oggetto di prova anche quei fatti diretti ad accertare la sussistenza o meno di circostanze che escludono la punibilità. Le vicende della punibilità sono di regola disciplinate dal diritto penale sostanziale e consistono in buona sostanza nell'insieme delle condizioni che possono fondare o escludere l'opportunità politico criminale di punire il fatto antigiuridico e colpevole. Esse comprendono sia le condizioni obiettive di punibilità (art. 44 c.p.) che le cause di estinzione del reato (artt. 150-170 c.p.) e della pena (artt. 171-181 c.p.). A tali categorie, in una prospettiva più ampia, devono affiancarsi le cause personali di non punibilità, consistenti in alcune situazioni contestuali alla commissione del fatto che attengono alla posizione personale dell'agente o ai suoi rapporti con la vittima (ad esempio l'art. 649 c.p. prevede la non punibilità per chi abbia commesso alcuni dei delitti contro il patrimonio a danno di un congiunto, salvi i casi di condotte violente); le cause sopravvenute di non punibilità, consistenti in alcuni comportamenti dell'agente susseguenti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole (si pensi ad esempio alla ritrattazione di cui all'art. 376 c.p. nei delitti di falso giuramento, falsa testimonianza e falsa perizia).

In un sistema penale improntato nel pieno rispetto del principio di stretta legalità, il legislatore ha investito il giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena o della misura di sicurezza. Tale quantificazione, però, deve avvenire sulla base dei parametri fissati dall'art. 133 c.p., consistenti nella gravità del reato e nella pericolosità del soggetto che costituiscono anche i presupposti imprescindibili per l'applicazione di una pena o di una misura di sicurezza. Sul punto, occorre rilevare che ciò che riguarda la gravità del fatto, la capacità a delinquere del reo e la sua pericolosità sociale può essere oggetto di prova esclusivamente ai fini della determinazione di una pena o di una misura di sicurezza.

L'ultimo comma dell'art. 187 c.p.p. fa rientrare tra i temi di prova anche i fatti che attengono alla responsabilità civile derivante da reato, sempre che la parte civile sia regolarmente costituita nel processo penale; il riferimento è all'an e al quantum della pretesa risarcitoria, oltre che alla rifusione delle spese legali. Si pensi, emblematicamente, al rapporto negoziale tra assicurato/imputato e compagnia di assicurazione/responsabile civile nell'ipotesi di sinistro stradale, ove i prossimi congiunti si siano costituiti parte civile nel processo per omicidio colposo.

In evidenza

In conclusione, da un lato che l'art. 187 c.p.p. può essere considerata un punto di riferimento per stabilire i limiti processuali del dimostrabile ma, dall'altro, l'eventuale superamento di tali limiti non è assistito da alcuna sanzione.

Prova atipica

Mentre il progetto preliminare al codice di procedura penale del 1978, redatto in attuazione della l. 3 aprile 1974, n. 108, aveva accolto il principio di “tassatività della prova” disponendo nell'art. 179 che “il giudice non può ammettere prove diverse da quelle previste dalla legge” – il codice vigente ha intrapreso una scelta “intermedia” tra il criterio di “tassatività delle prove” ed il criterio di “libertà delle prove”; a ben vedere, i prevedibili sviluppi tecnologici sul terreno degli strumenti investigativi hanno dirottato il legislatore verso la scelta di non escludere dal processo le prove non disciplinate dalla legge e di attribuire al giudice il compito di un vaglio preliminare, da effettuarsi caso per caso, sulla ammissibilità di tali prove alla luce dei requisiti di cui all'art. 189 c.p.p.

In questa prospettiva, l'introduzione nel processo della prova atipica “impone un procedimento preliminare in vista del quale i protagonisti dibattono sull'an, sui limiti e sul quomodo dell'assunzione, ogni volta che si presenta la necessità di servirsi di strumenti estranei al catalogo o di adattare quelli esistenti” ed “assolve una funzione integrativa del sistema delle prove”.

In evidenza

La prova “atipica”, quella cioè non disciplinata dalla legge, pone in capo al giudice un duplice controllo: l'idoneità in astratto dello strumento probatorio a realizzare un efficace accertamento nel caso specifico dei fatti e la mancanza di pregiudizio alla libertà morale della persona (Cass. pen., Sez. I, 17705/2010).

È considerata prova atipica il riconoscimento “informale”, quello eseguito dal testimone nel corso dell'esame senza l'osservanza delle forme previste dall'art. 213 c.p.p., a prescindere dalla circostanza che sia stato effettuato mediante esibizione di una fotografia oppure attraverso osservazione diretta dell'interessato presente in aula di udienza. Tuttavia, la giurisprudenza riconosce in astratto maggiore affidabilità alla ricognizione effettuata nel rispetto delle forme previste dall'art. 213 c.p.p.; ne consegue che in caso di esiti differenti, il giudice deve illustrare le ragioni che lo inducono a ritenere di dover dare prevalenza ai risultati ottenuti attraverso procedure astrattamente meno affidabili. Si segnala, inoltre, altra interessante pronuncia di legittimità secondo cui l'individuazione in dibattimento dell'autore del reato costituisce una prova atipica la cui affidabilità non deriva dal riconoscimento in sè, ma dalla credibilità della deposizione di chi si dica certo della identificazione (Cass. pen., Sez. VI, 28972/2013).

Più complesso, invece, il percorso di inserimento della videoregistrazione nella categoria della prova atipica. Al riguardo, la Corte costituzionale ha distinto le riprese di sole immagini dalle registrazioni aventi ad oggetto comportamenti comunicativi, attribuendo alle prime natura di prova atipica e inquadrando le seconde nella disciplina delle intercettazioni (Corte Cost., 11 novembre 2008, n. 149). Tale distinzione è stata recepita anche dalle Sezioni unite che hanno delineato la disciplina delle riprese visive a seconda dei luoghi in cui può avvenire la captazione (Cass. pen., Sez. un., 26795/2006).

Uno strumento di indagine che rientra nella categoria delle prove atipiche è il pedinamento tramite sistema satellitare g.p.s. In pratica, inserendo un terminale in un auto o comunque sul corpo di una persona o su un oggetto nella disponibilità di quest'ultima, è possibile seguirne gli spostamenti attraverso un complesso sistema di rilevamento satellitare. Trattasi di attività che solitamente viene posta nell'ambito delle indagini di iniziativa della polizia giudiziaria. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che essa costituisca intercettazione ed è stata considerata modalità tecnologicamente caratterizzata di pedinamento, che rientra nell'ordinaria attività di controllo e accertamento demandata alla polizia giudiziaria, attraverso i mezzi di ricerca della prova cd. atipici (Cass. pen., Sez. IV, 48279/2012).

Il principio dispositivo “attenuato” e le fasi del procedimento probatorio

Il diritto alla prova si concretizza nel potere di ciascuna parte di ricercare le fonti di prova, di chiedere l'ammissione del relativo mezzo, di partecipare alla sua assunzione e, quindi, di conseguire la valutazione del risultato nei termini fissati dalle regole della decisione.

In evidenza

Il procedimento probatorio si sviluppa in tre fasi: quella dell'ammissione, dell'assunzione e della valutazione della prova. Prima di queste fasi, come già anticipato in precedenza, assume un certo rilievo l'attività di ricerca della prova che costituisce la premessa del procedimento probatorio.

Non vi sono dubbi sul fatto che il potere di ricercare prove spetta in primo luogo al pubblico ministero che, nella sua veste di dominus delle indagini preliminari, è chiamato all'esito delle indagini a sciogliere la riserva se esercitare l'azione penale o richiedere l'archiviazione del procedimento (art. 112 Cost.; art. 326 c.p.p.). Come noto, sull'organo inquirente grava l'onere della prova, vale a dire la dimostrazione della fondatezza dell'ipotesi accusatoria, fermo restando il suo dovere di raccogliere anche elementi “a favore della persona sottoposta alle indagini” come stabilito dall'art. 358 c.p.p.

Analogo potere di ricerca, volto in questo caso alla confutazione degli elementi di accusa, è assegnato alla difesa dell'indagato, su cui grava l'opposto onere di allegare fatti e circostanze raccolti anche mediante investigazioni difensive sin dalla fase delle indagini preliminari (art. 327-bis c.p.p.), così da convincere il giudice circa l'infondatezza dell'imputazione.

A ben vedere questo potere di ricerca assegnato alla difesa è espressione del più ampio “diritto di difendersi provando”, già in passato riconducibile al diritto di difesa (art. 24 Cost.) ed oggi inquadrabile nel diritto alla prova riconosciuto all'imputato dall'art. 111 Cost. nelle varie forme che connotano il contraddittorio “forte”; e cioè, in posizione di parità con l'accusa, nell'esercizio dei diritti a preparare la difesa al confronto con le persone che rendano dichiarazioni a suo carico ed all'introduzione nel processo di quelle a sua difesa e di acquisire ogni altro mezzo di prova a suo favore.

Un passaggio nodale verso il rafforzamento del ruolo difensivo in ambito investigativo è rappresentato, indiscutibilmente, dalla legge del 7 dicembre 2000, n. 397 che, da un lato, ha introdotto nel codice di rito l'art. 327-bis e gli artt. 391-bis e ss. e, dall'altro, ha soppresso l'inadeguato art. 38 delle disposizioni attuative. La norma abrogata aveva carattere programmatico ed era del tutto inadeguata a soddisfare alcuni fondamentali aspetti dell'attività investigativa, quali la regolamentazione delle forme, dei tempi, dei poteri del difensore e della valenza dei relativi atti. A ciò va aggiunto che l'evidente inadeguatezza del vecchio impianto normativo, con il tempo, andò addirittura peggiorando a causa di prassi regressive, che canalizzavano sul pubblico ministero, monopolista delle indagini, ogni risultato di tale attività e negavano qualsiasi apertura rispetto ai poteri di documentazione ed alle prospettive di utilizzabilità processuale delle dichiarazioni raccolte dalla difesa. Con la legge del 2000, invece, è stata fornita una più dettagliata disciplina dei poteri investigativi del difensore, colmando quelle grossolane lacune presenti nel vecchio art. 38 disp. att. Anzi, è possibile affermare che, con tale intervento normativo, il legislatore ha cercato di dotare la prova dichiarativa, individuata e raccolta dal difensore, della medesima dignità probatoria di quella individuata e raccolta dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria.

L'art. 190, comma 1, c.p.p., in piena armonia con i principi del giusto processo, attribuisce alle parti un vero e proprio diritto alla prova, manifestando una chiara propensione per il principio dispositivo.

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In realtà, dal capoverso dell'art. 190 c.p.p. traspare la natura “attenuata” di tale principio, laddove sono riconosciuti poteri probatori al giudice, seppur azionabili solo in via eccezionale e a determinate condizioni. Preme, tuttavia, precisare che a tale soggetto non è concesso di sostituirsi completamente alle parti ma solo di intervenire in funzione integrativa o di completamento di un percorso cognitivo da altri già chiaramente configurato. Così, al cospetto di un compendio probatorio lacunoso ed integrabile, il giudice non può applicare direttamente la regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio, ma deve intervenire esercitando i propri poteri officiosi. Al riguardo, la Corte Costituzionale ha escluso che nell'articolo 507 c.p.p. sia configurabile una reale deroga al principio dispositivo, posto che il potere probatorio ivi previsto può essere esercitato dal giudice sia d'ufficio che su istanza di parte (Corte Cost., 26 febbraio 2010, n. 73).

È piuttosto evidente che il principio dispositivo è finalizzato a salvaguardare la “terzietà del giudice” intesa non solo come divieto di svolgere contemporaneamente o successivamente le funzioni di giudice e di parte ma anche come neutralità metodologica nella ricostruzione del fatto.

Ricapitolando, quindi, diritto alla prova significa anche diritto a vedere ammessa e correttamente assunta la prova. Sulle parti grava un “onere formale” consistente nel dovere di introdurre elementi di prova idonei a convincere il giudice circa la fondatezza della propria tesi. In caso di inerzia probatoria, però, il giudice può recuperare ex art. 507 c.p.p. la prova di cui non è sia chiesta l'ammissione laddove assolutamente necessaria. Non bisogna confondere tale onere con quello “sostanziale della prova” che grava – in virtù della presunzione di non colpevolezza – sulla pubblica accusa qualora all'esito del processo il giudice non ritenga provata l'esistenza del fatto di reato.

La titolarità del diritto alla prova è attribuita alle parti e non ai soggetti eventuali (come la persona offesa). Sull'argomento, si è pronunciata anche la Corte costituzionale che ha chiarito che la mancata assimilazione dei poteri della persona offesa a quelli dell'indagato e del pubblico ministero non viola né il diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost., né il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. in quanto risponde all'esigenza di trattare in “maniera adeguatamente diseguale situazioni diseguali” oltre che alla “discrezionalità del legislatore nel modulare la configurazione della tutela della persona offesa in vista delle necessità proprie del processo penale e delle esigenze di speditezza di quest'ultimo” (Corte cost., 10 ottobre 2008, n. 339).

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Come rilevato in dottrina, il diritto delle parti alla prova fa leva su due diverse previsioni costituzionali: l'obbligo di esercizio dell'azione penale, imposto al pubblico ministero dall'art. 112 Cost. e l'inviolabile diritto di difesa, garantito alla parte privata in ogni stato e grado del procedimento dall'art. 24 Cost. (Dell'Anno, Officialità per la prova e neutralità della giurisdizione, Torino, 2008).

Nell'alveo del diritto alla prova va senza dubbio ricompreso anche quello alla “prova contraria”, intesa come quella che tende a negare l'esistenza del fatto affermato dalla prova principale, che si iscrive a pieno titolo nella definizione del procedimento probatorio. Esso concerne sia le prove ammesse su richiesta di una parte, sia quelle disposte officiosamente dal giudice. L'esercizio del diritto alla prova contraria può concretizzarsi anche con l'indicazione di un mezzo di prova diverso da quello oggetto di contestazione e prescinde dal vaglio di pertinenza, in quanto attiene ai medesimi fatti di cui alla prova principale, mentre non sfugge al giudizio di rilevanza, che in tal caso discende direttamente dalla idoneità della prova richiesta ad incidere sul grado di rappresentatività probatoria dell'opposta prova in confutazione. Il diritto alla prova contraria è riconosciuto solo alle parti necessarie del processo e, sul punto, la Corte delle leggi ha giustificato il diverso trattamento tra parti necessarie ed eventuali sulla base del fatto che anche l'imputato non ha diritto alla controprova sui fatti oggetto delle prove in ordine alla responsabilità civile, introdotte dalla parte civile (Corte Cost., 29 dicembre 1995, n. 532).

L'attuale assetto normativo prevede espressamente tale diritto sia in capo all'imputato che ha diritto all'ammissione “delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico”(art. 495, comma 2, c.p.p.); sia in capo al pubblico ministero che ha analogo diritto “in ordine alle prove a carico dell'imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico”.

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In linea con tale principio la giurisprudenza ha affermato che la parte che abbia omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge può chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, poiché il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni è stabilito, a pena di inammissibilità, dall'art. 468, comma 1, c.p.p. soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria. L'opposta soluzione vanificherebbe, infatti, il diritto alla controprova, il quale costituisce espressione fondamentale del diritto di difesa (Cass. pen., Sez. V, 2815/2013).

La prima fase del procedimento probatorio, quella cioè della ammissione dei mezzi di prova, è riservata alle parti e sulle loro richieste decide il giudice attenendosi ad alcuni specifici parametri.

Innanzitutto, il criterio prescelto dal legislatore per circoscrivere l'oggetto di prova è quello della “pertinenza”, inteso come interrelazione logica e funzionale tra il fatto giuridico oggetto di imputazione e i fatti oggetto di prova.

Alla nozione di pertinenza si affianca quella di “rilevanza” che concerne l'idoneità della prova (necessariamente pertinente) a fungere da strumento del giudizio; in quest'ottica, il concetto di rilevanza delimita non l'oggetto ma le fonti di prova, nel senso della loro capacità di confermare la verosimiglianza dei fatti addotti.

Le prove di cui si può chiedere l'ammissione, inoltre, non devono essere vietate dalla legge (come, ad esempio, l'escussione di un teste sottoposto ad ipnosi), né manifestamente superflue (si pensi, emblematicamente, alla richiesta di escutere un numero elevato di testimoni chiamati a riferire sulle medesime circostanze).

Nel corso dell'istruttoria dibattimentale, l'acquisizione progressiva degli elementi probatori introdotti dalle parti potrebbe far ritenere ex post talune prove già ammesse superflue (come nel caso di circostanza già provata) o irrilevanti (come nel caso in cui ci si avveda che il tema di prova non è pertinente con l'oggetto dell'imputazione). In questo caso, è consentito al giudice di revocare l'ammissione di prove superflue o irrilevanti nel chiaro intento di salvaguardare il principio di economia processuale. Analogamente, può ammettere prove che erano state escluse. Tutto ciò però può aver luogo solo dopo aver preventivamente stimolato un contraddittorio tra le parti (art. 495, comma 4, c.p.p.).

Giova, altresì, segnalare che la legge 397 del 2000 ha introdotto nell'articolo 495 c.p.p. il comma 4-bis che consente a ciascuna parte, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, di rinunziare all'assunzione delle prove ammesse a sua richiesta, previo consenso dell'altra parte. È stata, così, introdotta la “rinuncia alla prova” che costituisce una manifestazione normativa del diritto alla prova subordinata al consenso delle altre parti. Tale consenso è necessario in quanto la prova, una volta ammessa dal giudice nel processo, non è più ritenuta di proprietà della parte richiedente ma rientra nel patrimonio del processo.

Per quanto concerne la seconda fase del procedimento probatorio, occorre precisare che le modalità di assunzione o di acquisizione della prova sono dettate dal codice in relazione ai diversi mezzi di prova. Così, ad esempio, il documento viene acquisito mediante deposito mentre la testimonianza viene assunta attraverso una attività di escussione del teste.

L'assunzione della prova deve avvenire nel pieno rispetto del principio del contraddittorio che rappresenta il miglior modo per consentire un processo effettivamente e concretamente partecipato dai protagonisti. Tale regola è sancita al comma 4 dell'art. 111 Cost. secondo cui “la prova si forma in contraddittorio” tra le parti ma al comma successivo sono previste alcune eccezioni in virtù delle quali all'atto di indagine si affianca un altro elemento che consente di trasformarlo in prova (consenso, condotta illecita, irripetibilità).

Per una effettiva e concreta realizzazione del contraddittorio sono imprescindibili altri due principi: quello dell'oralità e quello dell'immediatezza. Il primo rappresenta le modalità mediante cui si sviluppa il metodo dialogico di formazione della prova e costituiscono eccezioni a tale principio le letture dibattimentali. Il secondo, contenuto nel capoverso dell'art. 525 c.p.p., consente ai soli giudici che hanno partecipato alla formazione della prova e allo sviluppo dialettico del processo di emettere la sentenza. Anche se il principio d'immediatezza non è espressamente richiamato nell'art. 111 Cost., esso costituisce un valore essenziale del giusto processo, costituendo categoria indispensabile del rapporto dialettico tra parti e giudice.

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Tale attività di assunzione assume un certo rilievo anche per un altro aspetto: impegna giudice e parti ad effettuare le prime valutazioni. Più precisamente, si intende affermare che la funzione valutativa – che trova il suo momento clou ad istruzione probatoria ultimata – è condizionata da giudizi già formati, o quantomeno orientati, dall'attività di assunzione.

Da quanto sin qui rilevato, si comprende che un dato probatorio può entrare in dibattimento solamente se ammesso e assunto nel pieno rispetto delle regole probatorie e che le prove costituiscono materiali su cui avviene la verifica dell'imputazione.

Lo step successivo è quello della valutazione dell'intero quadro probatorio, le cui regole sono fornite dall'art. 192 c.p.p. Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, è innegabile che la decisione risulta fortemente condizionata dal modo attraverso cui il dato probatorio si forma e dalla sua valutazione.

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Nonostante il legislatore non abbia operato alcun esplicito richiamo al principio del libero convincimento del giudice, tale principio governa l'intera area dedicata alle prove. Così, in un sistema processuale che ripudia le “prove legali”, la valutazione del giudice non conosce costrizioni, ma soltanto criteri guida nei casi espressamente previsti dai commi 2, 3 e 4 dell'art. 192 c.p.p.

Ciò che, invece, grava sul giudice è l'obbligo di motivare razionalmente i provvedimenti che emette e, quindi, di rendere ragione della razionalità dell'itinerario mentale percorso per giungere alla decisione, ponendo così le premesse per il controllo successivo sulle linee di formazione del suo convincimento. Ciò significa che il principio del libero convincimento non fornisce al giudice un potere sconfinato ed incontrollabile, dovendo tale soggetto sempre rispettare le norme che disciplinano la valutazione delle prove (art. 192 c.p.p.) e la motivazione della sentenza (art. 546, comma 1 lett. e), c.p.p.). Ne consegue che se la valutazione probatoria non è razionale e la ricostruzione del fatto non è conforme ai canoni della logica o non è aderente alle risultanze processuali, si offrono alle parti “motivi” su cui fondare ed argomentare l'impugnazione della sentenza.

Non va, poi, trascurato che la fase della valutazione è una attività intellettuale svolta dall'organo giudicante, soggetto indiscutibilmente influenzato dalla sua cultura, dalla sua sensibilità morale e politica, dalle sue ideologie, dall'educazione e da altri fattori significativi.

In altre parole, quindi, il giudice è libero di convincersi ma è obbligato a motivare razionalmente le proprie decisioni. In questo modo, non possono trovare ingresso nel nostro ordinamento né il verdetto immotivato né il riconoscimento senza limiti del principio del libero, arbitrario, soggettivo e insindacabile convincimento. Insomma, la motivazione diventa la linea di confine del libero convincimento e dovrebbe impedire al giudice di fuggire dalla propria razionalità.

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Inoltre, l'art. 192 c.p.p. non si limita a fissare gli snodi principali del congegno decisorio rimesso al giudice, ma traccia al suo interno l'iter delle acquisizioni probatorie che possono essere ritualmente poste a fondamento della decisione.

Così, la valutazione probatoria non è solo considerata nel suo aspetto “statico” – di un giudizio guidato – ma piuttosto nella sua vocazione “dinamica” di un percorso che il giudice deve compiere per pervenire, nel giusto processo, ad una giusta decisione. Non può considerarsi soddisfatto questo “onere di motivazione” se il giudice si limita ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi di prova senza pervenire a quella valutazione unitaria che è principio cardine del processo penale, perché sintesi di tutti i canoni dettati dalla norma stessa; in questa prospettiva, il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme, non in modo parcellizzato ed avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una ricostruzione logica, armonica e consonante che permetta di attingere la verità processuale. (Cass. pen., Sez. un., 33748/2005). A ciò va aggiunto che il libero convincimento – nella sua accezione più garantista – si realizza sulla base delle prove formate nel rispetto della legge processuale.

È molto importante inoltre che, in sede decisionale, il giudice tenga sempre conto delle regole sancite nella Carta costituzionale e nel codice: la presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.), oggi trasformata in presunzione di innocenza; il diritto al contraddittorio, essenziale per confutare le tesi delle altre parti del processo; l'obbligo di motivare adeguatamente e razionalmente la sentenza emessa (art. 111, comma 6, Cost.); l'obbligo di mandare assolto l'imputato qualora la colpevolezza non risulti provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533, comma 1, c.p.p. modificato dalla legge n. 46/2006); il rispetto del principio di immediatezza secondo cui “alla deliberazione concorrono, a pena di nullità, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”.

Tornando all'art. 192 c.p.p., i criteri adottati dal giudice devono essere indicati in sentenza in quanto, così facendo, si garantisce la pubblicità del ragionamento e la controllabilità della coerenza argomentativa e della congruità sostanziale, vale a dire la sua ragionevolezza. Tra questi criteri rientrano le leggi scientifiche e le massime di esperienza.

Le prime vengono, ormai, sempre più utilizzate nell'accertamento del fatto ed in particolar modo del nesso di causalità che lega la condotta all'evento; il giudice spesso si affida a soggetti che posseggono conoscenze specialistiche in una determinata disciplina ed è per questa ragione che oggi nelle aule di giustizia si ricorre sempre più spesso al contributo del perito e del consulente tecnico. Se è corretto affermare che il contraddittorio generalmente inteso è il miglior metodo di ricostruzione del fatto, il contraddittorio tra gli esperti, sempre nell'ambito del processo, costituisce la pratica attuazione del fondamentale strumento euristico della spiegazione e della falsificazione. Le leggi scientifiche sono quelle che esprimono una relazione certa o statisticamente significativa tra due fatti della natura ed hanno le caratteristiche della generalità, della sperimentabilità e della controllabilità.

Le massime di esperienza, invece, sono formulabili da ogni persona sana di mente e di media cultura e fondano un ragionamento dalla struttura tipica del sillogismo, dialettico e teorico, del quale costituiscono la premessa maggiore (la premessa minore è la circostanza indiziante), di natura probabilistica, basata sull'id quod plerumque accidit. Poiché la premessa è soltanto probabile, anche la conclusione del ragionamento del giudice è più o meno probabile.

Anche se il giudice ha un potere di valutare liberamente le prove, la possibilità di evitare efficacemente la inammissibile caduta nell'arbitrio, fonda certamente sulla individuazione di una fonte normativa che determini in maniera trasparente e chiaramente percepibile dall'interprete lo standard probatorio minimo richiesto per la emanazione di una sentenza di condanna e, conseguentemente, per il superamento della presunzione costituzionale di non colpevolezza che necessariamente, attribuendo al pubblico ministero l'onere della prova, impronta la decisione giurisdizionale in ogni caso di dubbio, imponendo in tale ipotesi una pronuncia liberatoria. È stata, difatti, introdotta nel nostro ordinamento dalla legge n. 46 del 2006 (legge Pecorella) la regola che correla appunto l'emanazione di una sentenza di condanna quando la responsabilità dell'imputato è dimostrata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ciò significa che è chiesto al giudice di verificare scrupolosamente la fondatezza dell'accusa mossa all'imputato prima di condannarlo.

Analogamente, il legislatore all'art. 192, commi 2, 3 e 4, c.p.p. sancisce una sorta di esclusione del materiale conoscitivo in mancanza di taluni presupposti: quelli della gravità, precisione e concordanza per gli indizi e quelli dei “riscontri esterni”, vale a dire di ulteriori elementi che ne confermino l'attendibilità, per le dichiarazioni di imputati di reati connessi o collegati.

Con riferimento al riscontro, giova segnalare che esso deve essere capace di confermare, dall'interno, la credibilità della fonte e, dall'esterno, la sua attendibilità rispetto al fatto ed alla posizione specifica del soggetto cui si riferisce. Tali riscontri devono, cioè, confermare la credibilità intrinseca ed avere una rilevanza estrinseca ed individualizzante.

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Preme assolutamente chiarire che in questi casi al giudice non è assolutamente imposto come valutare la prova ma solo cosa deve valutare.

Infine, più complessa sembra essere la valutazione della prova scientifica, dal momento che il giudice potrebbe imbattersi in un duplice pericolo: rimettersi completamente al dictum dell'esperto di turno finendo con il sottrarsi alla propria funzione giurisdizionale oppure assume la veste di peritus peritorum pur essendo, nella maggior parte dei casi, privo delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche richieste per esprimere determinate valutazioni. occorre, sin da ora, chiarire che le regole di valutazione sono le medesime previste per qualsiasi altra prova. Tutto ruota intorno alla “motivazione razionale” tale da scongiurare un verdetto arbitrario ed incontrollabile.

In particolare, può discostarsi dalle conclusioni dell'esperto perché egli è chiamato a valutare, ancor prima che il risultato della perizia, il metodo con il quale l'esperto vi è pervenuto e, di conseguenza, il compito del giudice non è tanto analizzare nel merito ciò che l'esperto asserisce, quanto capire su quale base egli perviene a tale asserto. Questa costituisce una peculiarità propria del sistema processuale di stampo accusatorio. Pertanto, in un sistema così strutturato, il giudice deve operare una scelta tra le diverse e contrastanti tesi del perito e dei consulenti tecnici, dandone “adeguatamente” conto in motivazione. Nel far ciò, preme assolutamente rilevarlo, è chiamato a valutare la reale capacità dell'esperto ad espletare l'incarico ricevuto, senza creare corsie preferenziali per l'operato del perito – che è da lui stesso nominato – rispetto all'operato dei consulenti tecnici di parte. In quest'ottica, infatti, il confronto delle tesi fornite dagli esperti deve avvenire assicurando ai massimi livelli il principio del contraddittorio come previsto dall'art. 111 Cost. Così facendo, il contraddittorio trasforma il processo da strumento di potere a strumento di sapere.

Inutilizzabilità delle prove assunte in violazione dei divieti

In un sistema processuale fondato sul principio di legalità della prova – contrassegnato quindi dalla regola secondo cui il giudice può conoscere esclusivamente materiale legittimamente acquisito – l'inutilizzabilità, quale forma di invalidità che colpisce il valore probatorio dell'atto, rappresenta la “risposta sanzionatoria” del legislatore alle acquisizioni probatorie contra legem. Più semplicemente, il concetto di inutilizzabilità è strettamente connesso con la prova e indica la impossibilità di impiegarla ai fini dell'accertamento. Ciò significa che solo le prove acquisite nel pieno rispetto della legge possono essere utilizzate dal giudice ai fini della decisione e, di conseguenza, solo su queste si può formare il libero convincimento del medesimo.

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L'art. 191 c.p.p. dispone, infatti, che le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate e tale vizio è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

L'inutilizzabilità esprime due aspetti del medesimo fenomeno perché indica sia il “vizio” di cui può essere affetto il dato probatorio e sia il “regime giuridico” cui è sottoposto il prodotto viziato, consistente nella sua esclusione dall'ottica del convincimento giudiziale.

L'estromissione di un dato conoscitivo dal circuito accertativo può essere dovuto a differenti motivi ed infatti nel nostro codice di rito esistono due forme di inutilizzabilità: quella patologica e quella fisiologica.

La prima, quella patologica, è quella che si colpisce le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge. Esistono limiti dovuti all'intrinseca inattendibilità dello strumento di conoscenza e vi sono limiti che non derivano dall'inidoneità euristica dello strumento ma dalla necessità di rispettare i diritti dell'individuo.

La riconoscibilità del divieto può dipendere dalla tecnica di redazione oppure dalla formula adoperata ed, in questo senso, è ravvisabile il divieto se il precetto è costruito in termini di proibizione (per es. utilizzando formule del tipo “è vietato” oppure “non sono consentite”). Il divieto in parola, però, può evincersi anche da norme che autorizzino ad acquisire la prova solo in presenza di determinati requisiti. Sul punto, le Sezioni Unite hanno stabilito che i divieti istruttori non sono solo quelli espressamente previsti dal tessuto codicistico – come accade nei casi indicati dagli artt. 197 e 234, comma 3, rispettivamente in materia di incompatibilità a testimoniare e di non acquisibilità di atti il cui contenuto faccia riferimento alle voci correnti nel pubblico – ma i medesimi possono anche desumersi dall'ordinamento ogniqualvolta essi non siano dissociabili dai presupposti normativi condizionanti la legittimità intrinseca del procedimento di formazione o acquisizione della prova (Cass. pen. Sez. Un., 27 marzo 1996, Sala).

La inutilizzabilità fisiologica, invece, attiene al principio della separazione delle fasi processuali e riguarda gli atti che, sebbene formati validamente e senza violare alcun divieto probatorio, non possono essere utilizzati per la decisione finale in quanto assunti prima del dibattimento, senza un pieno contraddittorio (art. 526, comma 1, c.p.p.).

Esiste, infine, una terza specie di inutilizzabilità: quella relativa, che opera solo con riguardo al dibattimento. Mentre l'inutilizzabilità patologica è insanabile e, pertanto, non può essere superata neanche in presenza del consenso delle parti, lo spazio operativo dell'inutilizzabilità fisiologica – così come di quella relativa – può essere rideterminato attraverso l'operatività del principio dispositivo (si pensi, ad esempio, alla richiesta di giudizio abbreviato oppure alla acquisizione concordata di atti al fascicolo per il dibattimento) (Conti, Accertamento del fatto e inutilizzabilità nel processo penale, Padova, 2007).

Requisiti della prova in casi particolari

L'art. 190-bis c.p.p., introdotto dal d.l. n. 306 del 1992 (conv. con modif. l. 356/1992) e rimodellato dalla legge sul giusto processo (l. n. 63 del 2001), costituisce una limitazione del diritto alla prova delle parti, in deroga ai criteri indicati dall'art. 190 c.p.p. ed ai principi di oralità e di immediatezza cui è ispirato il nostro sistema processuale.

L'originaria formulazione della norma aveva introdotto una sorta di “doppio binario probatorio” nei processi aventi ad oggetto i reati di criminalità organizzata; prevedeva infatti che nei procedimenti di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. – qualora una parte avesse richiesto l'esame di un testimone o di un imputato in procedimento connesso o collegato ex art. 210 c.p.p. e questi avessero già reso dichiarazioni nel corso dell'incidente probatorio oppure se i verbali contenenti le dichiarazioni di tali soggetti forniti in un altro procedimento fossero stati acquisiti ai sensi dell'art. 238 c.p.p. – detto esame avrebbe potuto aver luogo solo se il giudice lo avesse ritenuto assolutamente necessario.

Sorta quindi allo scopo di fronteggiare – in quei soli procedimenti – il fenomeno dell' “usura dei testimoni e dei coimputati”, consistente nella loro esposizione al pericolo di intimidazione, violenza e subornazione, l'art. 190-bis non riuscì a sottrarsi alle prevedibili critiche di chi ne evidenziava l'incompatibilità con le garanzie costituzionali e con i principi della Cedu. I dubbi di legittimità costituzionale erano oltremodo rilevanti nell'ipotesi di utilizzazione di verbali di altri procedimenti nell'ambito dei quali l'imputato era rimasto estraneo.

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Con l'introduzione dei principi del “giusto processo” nell'art. 111 Cost., la versione originaria dell'art. 190-bis appariva in palese contrasto sia con il comma 3 della novellata norma che assicura all'imputato la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, sia con il comma successivo che consacra il principio del contraddittorio nella formazione della prova. Fu così che la legge n. 63 del 2001 sostituì il primo comma dell'art. 190-bis con una disciplina più rispettosa del principio del contraddittorio.

Attualmente, l'applicazione del più restrittivo criterio di ammissione previsto dall'art. 190-bis c.p.p. presuppone la presenza di precedenti dichiarazioni rese dal testimone o da una delle persone di cui all'art. 210 c.p.p. e assunte, appunto, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, nello stesso procedimento, in sede di incidente probatorio o nel dibattimento, ovvero di dichiarazioni rese in altro procedimento, i cui verbali siano stati acquisiti ai sensi dell'art. 238.

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L'esame di tali soggetti è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni, oppure se il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze.

Per quanto concerne quest'ultimo aspetto è stato rilevato che incombe sulle parti interessate l'onere di spiegare, in modo persuasivo, le ragioni che giustificano la reiterazione della prova, e la giurisprudenza ha affermato che il provvedimento di ammissione dell'esame dibattimentale è condizionato dall'apprezzamento discrezionale del giudice, pur quando sia richiesto dalle parti, circa la necessità di un nuovo esame sui medesimi fatti, in relazione alle ragioni che la parte richiedente ha l'onere di specificare e, eventualmente, agli ulteriori elementi di fatto emersi (Cass. pen., Sez. V, 2815/2013).

Pertanto, il nuovo articolo 111 Cost. sembra aver attenuato il modello processuale nettamente differente che privilegiava la lettura di atti formatisi senza contraddittorio delle parti (assunti quindi unilateralmente). L'attuale disciplina, derogando ai principi di oralità e di immediatezza cui è ispirato il nostro ordinamento processuale, ha carattere eccezionale e non può essere estesa oltre i casi espressamente previsti nell'art. 190-bis c.p.p. In tal modo, viene data la prevalenza alla documentazione scritta rispetto alla escussione orale, capovolgendo la sequenza prevista dal capoverso dell'art. 511 c.p.p.; mentre di regola la lettura dei verbali contenenti dichiarazioni è consentita soltanto dopo l'escussione dibattimentale della persona che le ha rese, nelle ipotesi in questione l'acquisizione di tali verbali è automatica salvo che sia necessario assumere la prova ex novo.

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La legge n. 269 del 1998, introducendo il comma 1-bis, ha esteso la predetta disciplina anche ai procedimenti per i reati di pedofilia e di violenza sessuale, laddove l'esame richiesto riguardi un testimone minore degli anni sedici. Diversa la ratio che ha spinto il legislatore ad estendere tale disciplina ai procedimenti indicati nel comma 1-bis rispetto a quelli contemplati dall'art. 51 comma 3-bis, c.p.p. in quanto va ravvisata nell'esigenza di tutelare lo stato psichico ed emotivo della vittima, particolarmente leso da tale tipologia di reati, specie se a danno di minorenni.

In giurisprudenza, inoltre, è stato sostenuto che la parziale reticenza del testimone che abbia già reso, nel contraddittorio delle parti, dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in dibattimento (art. 190-bis c.p.p.), può giustificarne un nuovo esame a condizione che siano indicati gli elementi in base ai quali può ritenersi probabile il superamento delle lacune. Nella specie la difesa aveva sostenuto la necessità del nuovo esame del teste, parzialmente reticente nelle precedenti dichiarazioni rese in un procedimento per reati di prostituzione e pornografia minorile, asserendo che detta reticenza fosse frutto di minaccia o subornazione per indurlo ad accusare ingiustamente l'imputato, asseritamente innocente (Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2010, n. 19729).

Come già evidenziato, l'art. 190-bis c.p.p. esprime la logica del cd. doppio binario, limitando il contraddittorio, l'oralità e l'immediatezza. Si pensi, ad esempio, all'incidente probatorio relativo all'assunzione dell'esame dell'imputato che rende dichiarazioni sulla responsabilità altrui o l'esame della persona indicata nell'art. 210 c.p.p. (art. 392, comma 1, lett. c) e d), c.p.p.) il quale avviene senza aver depositato tutti gli atti di indagine compiuti ma solo mettendo a disposizione delle parti le dichiarazioni rese e non è neppure giustificato dall'urgenza di compiere l'acquisizione anticipata della prova.

I limiti di prova stabiliti dalle leggi civili

L'art. 193 c.p.p., alla luce del principio dell'autonomia e dell'indipendenza fra il procedimento penale e quello civile, stabilisce la non assoggettabilità del processo penale alle regole previste per quello civile. In realtà, tale norma riafferma anche il principio del libero convincimento del giudice, che può essere effettivamente salvaguardato solo tenendo fuori dal processo penale i divieti e i limiti previsti dal processo civile.

Così, fermo restando l'obbligo della motivazione, il giudice è posto nelle migliori condizioni per una “libera ricostruzione degli eventi”, e gli unici limiti che incontra sono quelli stabiliti in tema di stato di famiglia o di cittadinanza, la cui competenza è attribuita al giudice civile a titolo tendenzialmente esclusivo.

L'unica eccezione è rappresentata, infatti, dall'art. 3 c.p.p. che – in tema di pregiudiziali sullo stato di famiglia e sulla cittadinanza, quando la questione non è seria e se l'azione non è già in corso a norma delle leggi civili – affida la soluzione al giudice penale. In questi casi, quindi, quest'ultimo può decidere ma poiché invade il campo civilistico, deve conformarsi al sistema probatorio stabilito per questi particolari temi: l'unitarietà della giurisdizione non può giustificare risultati diversi per l'applicazione di diverse regole di giudizio.

Casistica

Diritto alla prova contraria e termine di cui all'art. 468 c.p.p.

La parte che abbia omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge può chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, poiché il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni è stabilito, a pena di inammissibilità, dall'art. 468, comma 1, c.p.p. soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria. L'opposta soluzione vanificherebbe, infatti, il diritto alla controprova, il quale costituisce espressione fondamentale del diritto di difesa. (Cass. pen., Sez. V, 2815/2013).

Revoca ammissione testi in assenza di contraddittorio con le parti

È illegittimo il provvedimento con cui il giudice, rilevata l'assenza dei testi della difesa, ne revochi l'ammissione, in assenza di un contraddittorio con le parti e senza giustificarne la superfluità ai sensi dell'art. 495, comma 4, c.p.p., considerato che l'omessa citazione del testimone non vincola la decisione sull'ammissibilità della prova, la quale segue alla valutazione di pertinenza e rilevanza della stessa; ne deriva che, a seguito del decreto di autorizzazione, adottato ex art. 468, comma 2, c.p.p., la parte ha una mera facoltà di provvedere alla citazione dei testi - e non un onere processuale dal cui inadempimento derivi la sanzione automatica della decadenza - e qualora non vi provveda, il giudice non può revocare la prova ammessa - a meno che non risulti superflua, ex art. 495, comma 4, c.p.p. - ma deve autorizzare nuovamente la citazione dei testi per un'udienza successiva. (Cass. pen., Sez. V, 41430/2006)

Videoriprese eseguite da privati e prova atipica

In tema di prova atipica, sono legittime e pienamente utilizzabili senza alcuna autorizzazione dell'autorità giudiziaria le videoriprese, eseguite da privati, mediante telecamera esterna installata sulla loro proprietà, che consentono di captare ciò che accade nell'ingresso, nel cortile e sui balconi del domicilio di terzi, i quali, rispetto alle azioni che ivi si compiono, non possono vantare alcuna pretesa al rispetto della riservatezza, trattandosi di luoghi, che, pur essendo di privata dimora, sono liberamente visibili dall'esterno, senza ricorrere a particolari accorgimenti (fattispecie relativa al danneggiamento di una vettura). (Cass. pen., Sez. II, 22093/2015).

Prova documentale e decadenza di cui agli artt. 468 e 493 c.p.p.

Dalla lettura degli artt. 493 e 495 c.p.p. emerge un limite temporale entro il quale può essere esercitato il diritto alla prova individuato nell'inizio dell'istruttoria dibattimentale. Nonostante nessuna norma sembri autorizzare a ritenere che tale sbarramento cronologico sia legato al tipo di prova, “precostituita” o “costituenda”, oggetto della richiesta, la giurisprudenza è ormai unanime nel ritenere che la prova documentale, quale prova precostituita a cui non è applicabile la sanzione della decadenza prevista dagli articoli 468 e 493 c.p.p., è ammissibile anche se richiesta nel corso del dibattimento. (Cass. pen., Sez. III, 8823/2009). Sulla stessa lunghezza d'onda anche la Consulta che non ne ha ravvisato il contrasto né con l'articolo 3 Cost. (sotto il profilo della asserita diseguaglianza di trattamento rispetto al regime previsto per la prova testimoniale), né con il diritto di difesa, potendo, quest'ultimo, essere ugualmente rispettato tramite la doverosa concessione di un termine per esaminare i documenti introdotti successivamente alla fase destinata alle richieste di prova (Corte Cost., 06 luglio 1994, n. 284).

Chiamata in correità o in reità de relato

La chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell'accusato altra o altre chiamate di analogo tenore, purché siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del “thema probandum”; d) vi sia l'indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l'autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse (Cass. pen., Sez. Un., 20804/2013).

Prova documentale ed utilizzabilità

“Le videoregistrazioni eseguite mediante un impianto di sorveglianza apposto dalla persona offesa all'esterno del proprio esercizio commerciale non possono essere considerate prove illegittimamente acquisite ai sensi dell'art. 191 c.p.p., trattandosi di prove documentali di cui il codice di rito espressamente consente l'acquisizione ai sensi dell'art. 234 c.p.p. In tale contesto è del tutto irrilevante che le registrazioni siano state effettuate conformemente o meno alle istruzioni del Garante per la Protezione dei dati personali, non costituendo la disciplina sulla privacy sbarramento all'esercizio dell'azione penale” (Cass. pen., Sez. II, 6812/2013).

Sommario