Vincoli di destinazione dei beni comuniFonte: Cod. Civ. Articolo 1117
22 Marzo 2018
Inquadramento
Negli edifici in condominio ogni condomino ha la proprietà esclusiva di un piano o di una porzione di piano ed è, al tempo stesso, comproprietario con gli altri condomini di alcune parti dell'edificio, che per legge sono considerate comuni, se dal titolo non risulti il contrario. In questa prospettiva, costituiscono oggetto di proprietà comune, secondo la previsione dell'art. 1117 c.c., il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e lastrici solari, le scale, i portoni d'ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate, quali parti dell'edificio necessarie all'uso comune (beni comuni necessari); le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l'alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune (beni comuni di pertinenza); le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento e il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche (beni comuni accessori). Tale elenco non è tassativo (Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2015, n. 1680), né omogeneo. Infatti, accanto ai beni necessariamente condominiali, come il suolo, le fondazioni, i muri maestri, ecc., ve ne sono altri, la cui destinazione al servizio collettivo non si pone in termini di assoluta necessità, come per i locali destinati a portineria e, in genere, per gli altri locali di cui all'art. 1117 c.c. n.2). Con riferimento a questi beni si parla impropriamente di presunzione di comproprietà, con ciò intendendo significare che la loro qualificazione normativa in termini di beni comuni può essere derogata da un titolo da cui emerga il contrario. In questo caso occorrerà verificare, in sede di interpretazione del titolo, se l'atto che li sottrae alla presunzione di proprietà comune contenga anche la risoluzione del vincolo di destinazione al servizio collettivo ovvero ne stabilisca il mantenimento, configurandosi, nel secondo caso, l'esistenza di un vincolo obbligatorio propter rem, suscettibile di trasmissione in favore dei successivi acquirenti dei singoli appartamenti. Secondo una tesi tradizionale, dal tenore dell'art. 1117 c.c. si desumerebbe che per condominio negli edifici debba intendersi semplicemente la proprietà comune di alcune parti dell'edificio, che sono poste al servizio di altre parti, ossia dei piani o porzioni di piano, quest'ultime legate da un rapporto necessario e perpetuo di accessorietà e complementarietà in senso unidirezionale. Pertanto, il condominio sarebbe una mera comunione che serve le proprietà solitarie. Configurato nei termini anzidetti, il condominio si risolverebbe in una comunione meramente strumentale rispetto all'esercizio dei singoli diritti di proprietà esclusiva sui diversi appartamenti: i quali seguirebbero un proprio destino individuale autonomo e al di fuori della disciplina speciale del condominio, in armonia con la definizione generale della proprietà come diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo. Siffatta impostazione, evidentemente supportata da una concezione individualistica del fenomeno condominiale, si confaceva alle poche norme dettate dal codice civile del 1865 in tema di contribuzione alle spese di riparazione e di ricostruzione delle cose comuni a tutti i proprietari dei diversi piani di una casa, ma non si giustifica alla stregua dell'articolata disciplina riservata al complesso rapporto del condominio negli edifici in base all'impostazione del condominio contenuta nel codice vigente. Infatti, l'attuale quadro normativo, pur riferendosi principalmente ai rapporti tra condomini, in quanto comproprietari delle parti comuni dell'edificio, non manca di prendere in considerazione la posizione dei condomini, in quanto proprietari esclusivi dei diversi appartamenti, mostrando così di poter ricondurre, almeno in parte, anche tale posizione all'interno della disciplina speciale del condominio. Si è venuta, in questo modo, ad affermare una definizione più ampia di condominio negli edifici come situazione mista di comproprietà e di concorso di proprietà solitarie: l'una legata alle altre da un intimo nesso di reciproca complementarietà e funzionalità. Per effetto dello straordinario diffondersi del fenomeno, è emerso sempre più distintamente che, se la comproprietà delle parti comuni dell'edificio è funzionale alle proprietà esclusive degli appartamenti, queste ultime, a loro volta, vanno incontro, nel loro esercizio da parte dei singoli condomini, ad una serie di limiti diversi da quelli ricordati in termini generali dall'art. 832 c.c. e desumibili, direttamente o indirettamente, dai principi espressi dalla normativa speciale sul condominio, limiti che, così come sono stati enucleati in concreto dalla giurisprudenza, rispondono all'esigenza di rendere funzionale l'esercizio della proprietà sui singoli appartamenti, con la destinazione delle parti comuni dell'edificio, ad un'utilizzazione collettiva e conforme alle caratteristiche naturali dell'edificio stesso. In base a questa impostazione, l'istituto del condominio è governato dal principio di solidarietà. Così si spiega come nei rapporti tra il gruppo e i singoli siano possibili limitazioni e tutele più estese, ancorché di applicazione relativamente elastica, di quelle, ad applicazione rigida, che operano nei rapporti di vicinato. In altri casi, tuttavia, il principio di solidarietà sembra soccombere di fronte all'esigenza, ritenuta primaria, di tutelare i diritti individuali dei singoli condomini, specie se di natura non esclusivamente proprietaria.
Per giungere a questa conclusione si sono seguite vie diverse: talvolta, si è fatto ricorso direttamente ai principi desumibili da alcune norme dettate in tema di condominio o di comunione ordinaria, sostenendo che le iniziative assunte da questo o quel condomino nella parte di sua proprietà possono provocare ripercussioni pregiudizievoli per le parti comuni dell'edificio; talaltra, si sono richiamate le norme sui rapporti di vicinato - e, in particolare, l'art. 844 c.c. sul divieto di immissioni -, modificandone la normale portata per adeguarle ai principi che regolano i rapporti condominiali e traendone conseguenze diverse da quelle a cui le norme stesse condurrebbero se applicate a rapporti tra proprietari di case vicine. L'intimo nesso che lega la comproprietà delle parti comuni alle proprietà esclusive dei singoli appartamenti, e il progressivo distacco di queste ultime dal modello puro di proprietà individuale delineato dall'art. 832 c.c., sono connotati certamente idonei a definire la struttura del condominio sul piano statico, ma non ne esauriscono la definizione se si vuole tener conto anche del piano dinamico. Su quest'ultimo piano, il condominio si configura come una struttura organizzativa che riproduce, sia pure in embrione, il modello tipico delle associazioni, provvedendo a un'attività di gestione che, in quanto affidata ad organi dotati ex lege di poteri essenzialmente inderogabili, tende ad attribuire all'interesse del condominio una rilevanza oggettiva, distinguendolo dagli interessi soggettivi dei singoli condomini.
L'art. 1117, comma 1, primo periodo, c.c. testualmente afferma che «sono oggetto di proprietà comune» i beni successivamente elencati «se non risulta il contrario dal titolo». Entro questi termini, si è ritenuto che la norma abbia introdotto una presunzione relativa di comproprietà. In ordine alla natura di detta presunzione ex art. 1117 c.c., un filone della dottrina nega che si tratti di una presunzione iuris tantum; e ciò perché, rispetto ad essa, non può valere una qualsiasi prova contraria, ma solo quella consacrata nel titolo. Altri inquadrano l'ipotesi nell'alveo di una presunzione sui generis, tenuto conto che essa può essere superata solo dal titolo e non da altri mezzi di prova. Sul punto, si sono pronunciate le Sezioni Unite, le quali hanno chiarito che l'art. 1117 c.c. non ha sancito una presunzione legale di comunione delle cose in essa elencate ai nn. 1), 2) e 3), ma ha disposto che detti beni sono comuni, salvo che non risultino di proprietà esclusiva in base a un titolo, il quale può essere costituito o dal regolamento contrattuale o dal complesso degli atti di acquisto delle singole unità immobiliari o anche dalla maturazione dell'acquisto per usucapione. Che la norma non abbia previsto una presunzione si ricava, non solo dalla sua chiara lettera, che ad un meccanismo presuntivo non accenna affatto, ma anche dalla considerazione che nel codice si parla esplicitamente di presunzione ogni qual volta, con riguardo ad altre situazioni, si è voluto richiamare questo specifico mezzo probatorio indiretto o inferenziale (artt. 880, 881 e 899). D'altra parte, se con la disposizione si fosse effettivamente prevista la presunzione di comunione, si sarebbe ammessa la prova della proprietà esclusiva con l'uso di qualsiasi mezzo e non soltanto con il titolo. La Suprema Corte ha precisato, poi, che - attraverso le pronunce nelle quali è stato richiamato il concetto di presunzione - non si è inteso affermare che la prova della proprietà esclusiva delle cose comuni di cui all'art. 1117 cit. possa essere fornita con ogni mezzo e non con il solo titolo cui la norma espressamente si riferisce. Piuttosto, si sono volute escludere dallo stesso complesso delle cose comuni quelle parti che, per le loro caratteristiche strutturali, siano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari di un determinato edificio. In altri termini, ritenendosi in tali decisioni che la destinazione particolare superi la presunzione legale di condominio, alla stessa stregua di un titolo contrario, benché si sia richiamato erroneamente il concetto di presunzione, del tutto estraneo alla norma, si è, però, enunciato anche il principio, secondo cui una cosa non può proprio rientrare nel novero di quelle comuni ove serva, per le sue caratteristiche strutturali, soltanto all'uso e al godimento di una parte dell'immobile, oggetto di un autonomo diritto di proprietà. L'equivoco che dall'espressione adottata in dette sentenze potrebbe, tuttavia, derivare consiste nel ritenere che la c.d. presunzione legale di comunione possa essere vinta, sia dalla destinazione particolare del bene, sia dal titolo, mentre è solo da quest'ultimo che una cosa comune può risultare di proprietà singola, in quanto la destinazione particolare esclude già all'origine che il bene rientri nella categoria delle cose comuni, e che ad esso possa quindi riferirsi l'art. 1117 c.c. (Cass. civ., sez.un., 7 luglio 1993, n. 7449). Inoltre, la Suprema Corte, sempre nella sua massima composizione, ha definitivamente stabilito che qualora un condomino agisca per l'accertamento della natura condominiale di un bene, non occorre integrare il contraddittorio nei riguardi degli altri condomini, se il convenuto ne eccepisca la proprietà esclusiva, senza formulare, tuttavia, un'apposita domanda riconvenzionale e, quindi, senza mettere in discussione - con finalità di ampliare il thema decidendum ed ottenere una pronuncia avente efficacia di giudicato - la comproprietà degli altri soggetti (Cass. civ., Sez.Un., 13 novembre 2013, n. 25454; Cass. civ., sez. VI/II, 15 marzo 2017, n. 6649). Anche le parti poste concretamente a servizio soltanto di alcune porzioni dello stabile, in assenza di titolo contrario, devono presumersi comuni a tutti i condomini (Cass.civ., sez. II, 2 febbraio 2017, n. 2800). Il condomino che pretenda l'appartenenza esclusiva di un bene compreso tra quelli elencati espressamente o per relationem dall'art. 1117 c.c. ha l'onere di fornire la prova della sua asserita proprietà esclusiva derivante da titolo contrario, in difetto della quale deve essere affermata l'appartenenza dei suddetti beni indistintamente a tutti i condomini (Cass. civ., sez. II, 4 aprile 2001, n. 4953; nello stesso senso, v. Cass. civ., sez. II, 5 gennaio 2017, n. 133).
Il titolo contrario
La dottrina precisa che per titolo non si intende - ai fini dell'art. in esame - il concetto generico di causa giuridica idonea a produrre l'acquisto di un diritto, ma l'atto scritto, avente contenuto precettivo, dal quale deriva la proprietà del singolo condomino, come, ad esempio, il rogito di acquisto della porzione immobiliare, il regolamento di condominio, il contratto stipulato fra tutti i condomini. Al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla c.d. presunzione di comunione, occorre far riferimento all'atto costitutivo del condominio, cioè al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dall'originario unico proprietario ad altro soggetto, indagando se da esso emerga o meno la volontà delle parti di riservare ad uno dei condomini la proprietà dei beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all'uso comune (Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2017, n. 5335; Cass. civ., sez. II, 18 dicembre 2014, n. 26766). Titolo idoneo a sottrarre alla comproprietà dei condomini le parti dell'edificio da presumersi comuni, a norma dell'art. 1117 c.c., è l'atto costitutivo del condominio, non anche il successivo atto di vendita della proprietà esclusiva della singola porzione, il quale può trasferire, unitamente alla porzione medesima, solo la corrispondente quota di comproprietà su dette parti comuni (Cass. civ., sez. II, 27 maggio 2011, n. 11812). Per vincere in base al titolo la presunzione legale di proprietà comune, non sono sufficienti il frazionamento-accatastamento, e la relativa trascrizione, eseguiti a domanda del venditore costruttore, della parte dell'edificio in questione, trattandosi di atto unilaterale di per sé inidoneo a sottrarre il bene alla comunione condominiale, dovendosi riconoscere tale effetto solo al contratto di compravendita, in cui la previa delimitazione unilaterale dell'oggetto del trasferimento sia stata recepita nel contenuto negoziale per concorde volontà dei contraenti (Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2017, n. 5336; Cass. civ., sez. II, 30 aprile 2014, n. 9523).
Il condominio parziale
La configurazione del condominio parziale è ormai pacificamente ammessa dalla dottrina: da molti anni, infatti, è stato affermato il principio secondo cui è ammissibile che in uno stesso edificio alcune parti o servizi comuni appartengano a gruppi di partecipanti, e non necessariamente a tutti i proprietari di piani o appartamenti nell'edificio. Esistono, in queste ipotesi, comunioni parziali su cose o servizi, regolate dalle disposizioni sul condominio negli edifici. Il condominio parziale raffigura una categoria radicata nell'esperienza giurisprudenziale, la quale, però, pur individuandone i presupposti, ha in genere affrontato frammentariamente i problemi della ripartizione delle spese e delle maggioranze assembleari, con riferimento ad oggetti specifici. Secondo le più recenti pronunce, sussiste condominio parziale ex lege, in base alla previsione di cui all'art. 1123, comma 3, c.c., ogni qualvolta un bene, rientrante tra quelli ex art. 1117 c.c., sia destinato, per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, al servizio e/o godimento esclusivo di una parte soltanto dell'edificio condominiale; tale figura risponde alla ratio di semplificare i rapporti gestori interni alla collettività condominiale, sicché il quorum, costitutivo e deliberativo, dell'assemblea, nel cui ordine del giorno risultino capi afferenti alla comunione di determinati beni o servizi limitati solo ad alcuni condomini, va calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate (Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2016, n. 4127; Cass. civ., sez. II, 24 novembre 2010, n. 23851).
Vincoli interni ed esterni di destinazione
Il singolo condomino non può compiere opere tali da oltrepassare i limiti di uso della cosa comune posti nell'art. 1102 c.c., norma dettata in tema di comunione, ma applicabile al condominio in ragione del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c., secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. La norma pone due fondamentali limiti all'uso della cosa comune: un limite interno ed un limite esterno. Il limite interno consiste nel divieto di alterare la destinazione della cosa e nel contestuale divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso. Pertanto, colui che utilizza la cosa comune: - deve rispettare la destinazione d'uso attuale della res e non la può alterare; - non deve impedire che anche gli altri comunisti possano parimenti utilizzare la cosa, seppur egli ne usufruisca in maniera più intensa rispetto agli altri. Proprio al fine di evitare la violazione del principio posto nell'art. 1102 c.c., qualora il bene comune sia di fatto destinato ad uso e comodità esclusiva di singoli condomini, il giudice deve verificare se le rimanenti parti della cosa comune siano in grado di soddisfare anche le potenziali analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione e se sia rimasta inalterata la destinazione quale bene comune della cosa. Il limite esterno, invece, attiene all'estensione materiale delle parti di proprietà condominiale, al di fuori della quale non può parlarsi di uso o di miglior uso della cosa comune, poiché il rispetto della proprietà esclusiva dei singoli condomini esige che gli altri non possano invadere la sfera altrui, né gravarla di pesi o limitazioni, ove non abbiano riguardo a un particolare diritto. Infine, occorre osservare che i beni condominiali, vale a dire le porzioni di un edificio condominiale in titolarità di tutti i condomini, possono essere distinti in due categorie: i beni comuni volti a soddisfare un interesse generale, senza che siano attivate particolari iniziative (si pensi al tetto dell'edificio o al terreno che costituisce l'area di sedime del fabbricato condominiale) e quelli la cui utilità discende da un comportamento attivo da parte dei condomini (si pensi alle aree destinate a parcheggio, agli impianti o al vano scale). Per comprendere se l'utilizzo della cosa comune da parte di un condomino leda i diritti degli altri partecipanti alla comunione occorre considerare se la situazione concreta consenta o meno a questi ultimi di fare pari uso della res o se l'utilizzo da parte del singolo condomino pregiudichi l'utilità che ne possano fare gli altri. A tale proposito, la giurisprudenza ha puntualizzato che la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento l'art. 1102 c.c., non deve essere intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri. Nell'ambito dei rapporti condominiali, infatti, occorre rispettare il principio di solidarietà, in virtù del quale si deve salvaguardare il costante soddisfacimento, in modo equilibrato, delle esigenze e degli interessi di tutti coloro che partecipano alla comunione. L'art. 1118 c.c. regola l'uso delle parti comuni e prevede che, in assenza di diversa disposizione, il diritto di ciascun condomino (sulle parti comuni) è proporzionale al valore dell'unità immobiliare che gli appartiene. Nondimeno, si deve tenere distinta la misura del diritto di ogni condomino sulle parti comuni, la quale rileva per quanto concerne i pesi e i vantaggi della comunione, rispetto al godimento della cosa comune, il quale spetta a ciascun condomino in pari misura, ma che può essere esercitato in maniera più intensa o diversa anche da uno solo di essi, purché non venga pregiudicata la facoltà degli altri condomini di farne pari uso e non venga alterata l'originaria destinazione della res. Ne consegue che, affinché un bene condominiale possa essere utilizzato per fini individuali, occorre verificare se un simile utilizzo non ne travolga la sua tradizionale destinazione, volta a soddisfare interessi generali. Ad esempio, si pensi al diritto generale di utilizzare il giardino condominiale, al diritto di ricevere informazioni tramite mezzi telematici (il riferimento è all'apposizione di un'antenna o di una parabola sul tetto del condominio), al diritto di apporre sul tetto del fabbricato (o in altra parte comune) pannelli che consentano di ricavare energie rinnovabili. La rinuncia di un condominio al diritto sulle cose comuni è vietata, ai sensi dell'art. 1118 c.c., in caso di condominialità necessaria o strutturale, per l'incorporazione fisica tra cose comuni e porzioni esclusive ovvero per l'indivisibilità del legame, attesa l'essenzialità dei beni condominiali per l'esistenza delle proprietà esclusive, non anche nelle ipotesi di condominialità solo funzionale all'uso e al godimento delle singole unità, che possono essere cedute anche separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni (Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2015, n. 18344).
Le modificazioni delle destinazioni d'uso delle parti comuni, finalizzate a soddisfare le esigenze d'interesse condominiale, sono espressamente regolate dalla riforma di cui alla l. 11 dicembre 2012, n. 220, che ha introdotto l'art. 1117-ter c.c., con decorrenza dal 18 giugno 2013, norma espressamente dedicata a tale tema. Per converso, prima della novella tutte le innovazioni erano contemplate dall'art. 1120, comma 1, c.c., senza distinzioni di sorta. Alla luce della novella, le modificazioni delle destinazioni d'uso non possono più essere annoverate nella categoria delle innovazioni, se non in senso atecnico, poiché per esse è prevista una disciplina ad hoc. Precisamente, le innovazioni trovano la loro definizione nelle pronunce della giurisprudenza, che qualifica come tali non tutte le modificazioni, ma solamente quelle modifiche che, determinando l'alterazione dell'entità materiale o il mutamento della destinazione originaria, comportano che le parti comuni, in seguito all'attività o alle opere eseguite, presentino una diversa consistenza materiale ovvero vengano a essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti (Cass. civ., sez. II, 26 maggio 2006, n. 12654). Ne discende che l'innovazione consiste in una particolare modificazione che rende nuova la cosa (opus novum), con trasformazioni e cambiamenti dell'originaria funzione e destinazione - mutamenti funzionali - o con alterazioni della sua entità sostanziale - mutamenti strutturali - (Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2012, n. 18334). Ove, invece, la modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, lasciandone immutata sia la consistenza sia la destinazione, così da non turbare i concorrenti interessi dei condomini (come nel caso del semplice restringimento di un viale di accesso condominiale che non ne precluda la destinazione e la funzionalità agli altri condomini), si versa nell'ambito delle mere modifiche, regolate dall'art. 1102 c.c. (Cass. civ., sez. II, 5 ottobre 2009, n. 21256). Nondimeno, la previsione della nuova figura delle modificazioni della destinazione d'uso impone l'individuazione di adeguati criteri di discriminazione, ai fini di emarginare la disciplina applicabile solo con riguardo alle predette modificazioni, che determinano delle innovazioni solo in senso improprio. Segnatamente, la realizzazione delle modificazioni delle destinazioni d'uso impone un quorum qualificato molto stringente (quattro quinti dei partecipanti al condominio e quattro quinti dei millesimi, ossia del valore dell'edificio) ed esige un iter di convocazione dell'assemblea piuttosto articolato (l'invio della convocazione con la raccomandata o con mezzi telematici deve pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione, deve essere affisso per non meno di trenta giorni nei locali di maggior uso o negli spazi a tal fine destinati). Inoltre, la convocazione dell'assemblea deve indicare, a pena di nullità, le parti comuni oggetto della modificazione nonché la nuova destinazione d'uso che si intende ad esse imprimere. Altrimenti, l'ordine di convocazione sarà invalido. La relativa deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa dell'effettuazione degli adempimenti strumentali in ordine alle modalità della convocazione. All'esito, le modificazioni del bene comune sono atte a trasformarlo fino a consentirne un uso del tutto estraneo rispetto alla sua originaria destinazione oggettiva e funzionale. Resta fermo, in ogni caso, il divieto di destinazioni d'uso che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterino il decoro architettonico, ma non quelle che rendano la cosa inservibile all'uso o al godimento anche di un solo condomino. Per contro, l'art. 1120, comma 1, c.c., anche nella nuova formulazione, regola le innovazioni delle cose comuni, purché dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle stesse cose comuni. Per dette innovazioni, definite semplici, occorre una maggioranza speciale: quella degli intervenuti in assemblea, che rappresenti almeno i due terzi dei millesimi. Sicché la distinzione tra le due fattispecie può essere fondata sull'intensità dell'intervento innovativo, ossia modificativo della consistenza o della funzione, che può essere significativo o piuttosto semplice. Pertanto, ricadono nelle modificazioni delle destinazioni d'uso del bene comune le modificazioni rilevanti, notevoli, considerevoli, ossia gli interventi di un certo spessore – come, ad esempio, l'installazione di un campo da tennis o da calcetto o addirittura di una piscina su un'area comune o la trasformazione di un giardino in un'area di parcheggio –, che non rientrano in quegli altri usi cui oggettivamente il bene avrebbe potuto essere, per sua natura, potenzialmente destinato. Siffatti mutamenti della destinazione d'uso, pur non incidendo sulla struttura, ossia sulla morfologia del bene, sono idonei a mutarne l'utilizzazione oggettiva o il godimento soggettivo. Sicché le modificazioni delle destinazioni d'uso, qualificate solo in senso atecnico come innovazioni significative, presuppongono, per un verso, la natura sostanziale dell'intervento da realizzare e, per altro verso, un cambiamento radicale dell'originario scopo, attuale o potenziale, cui il bene era o avrebbe potuto essere asservito, uno stravolgimento definitivo della sua identità funzionale, pur senza cambiarne la sostanza attraverso interventi edilizi di alterazione dell'identità morfologica. Un'area comune, invece, può essere destinata a parcheggio, a giardino, a parco giochi, per cui il cambiamento del suo uso realizza una semplice innovazione, appunto perché l'uso in concreto fissato si iscrive tra quelli potenziali cui il bene avrebbe potuto essere destinato. In ogni caso, non tutte le parti comuni potranno costituire oggetto della modificazione della destinazione d'uso: si dovranno escludere quelle la cui ontologica sussistenza è indefettibile per la conformazione stessa del condominio. Così non potrà essere mutata la destinazione dei beni necessariamente condominiali di cui al n. 1) dell'art. 1117 c.c., che siano intrinsecamente e strutturalmente funzionali all'esistenza stessa dell'edificio condominiale, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri, le travi portanti e le scale, ecc. Resta fermo che il soddisfacimento di esigenze di interesse condominiale impone modificazioni di destinazioni d'uso sempre orientate in senso collettivistico, tali da non distrarre le cose comuni dal loro vincolo strutturale e funzionale, attribuendone l'uso alle porzioni di proprietà esclusiva dei singoli condomini, mentre non ricade nella modificazione della destinazione d'uso la cessione delle parti comuni ad un condomino o anche a un terzo estraneo al condominio, con destinazione del bene a scopi privati.
In materia di modificazione delle destinazioni d'uso delle parti comuni (art. 1117-ter c.c.), principio generale desumibile dall'art. 1102 c.c., in tema di comunione, è quello secondo cui l'uso delle cose condominiali avvenga nel rispetto del duplice limite della non alterazione della loro destinazione e del mantenimento, in capo agli altri partecipanti, della possibilità di farne parimenti uso secondo il loro diritto. Al riguardo, si chiarisce che tra questi limiti è preminente il primo, giacché è la destinazione impressa alla res che condiziona i poteri dei partecipanti. Sennonché, l'utilizzazione della cosa comune, di regola espressa dall'uso normale, come praticato dalla generalità degli utenti, può, in realtà, avvenire da parte di uno o più dei partecipanti anche in modo particolare e diverso da quello degli altri, senza sconfinare in abuso, purché la destinazione della cosa resti rispettata (Trib. Roma 22 febbraio 2012). Sul punto, la Suprema Corte sostiene che - in considerazione della peculiarità del condominio degli edifici, caratterizzato dalla coesistenza di una comunione forzosa e di proprietà esclusive - il godimento dei beni, degli impianti e dei servizi comuni è in funzione del diritto individuale sui singoli piani in cui è diviso il fabbricato: dovendo i rapporti fra condomini ispirarsi a ragioni di solidarietà, si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (Cass. civ., sez. II, 24 giugno 2008, n. 17208). A tal riguardo, la nuova norma di cui all'art. 1117-quater c.c. ha lo scopo di tutelare l'uso che il singolo condomino può fare delle parti comuni, dando la possibilità non solo all'amministratore, ma anche al singolo condomino, di intervenire ove detto uso vada ad incidere in modo negativo e sostanziale sulla destinazione delle parti comuni stesse. Pertanto, a fronte di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l'esecutore e possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. Non rileva che, in passato, le condotte lesive di tale destinazione siano state tollerate dai condomini. Sicché, alla stregua del dettato della norma, il condomino può obbligare l'amministratore a convocare l'assemblea, anche in mancanza di fondate motivazioni e con intenti non esclusivamente conciliativi. In proposito, la norma non chiarisce i termini esplicativi dell'incidenza negativa di una diversa destinazione d'uso. D'altro canto, si prevede che l'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista del comma 2 dell'art. 1136 c.c., ossia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Si reputa che concretamente dovrà farsi ricorso a una delibera assembleare, al fine, sia di intimare o ribadire la cessazione dell'attività che integra la violazione della destinazione d'uso, sia di avviare l'azione giudiziaria, potendo non risultare sufficiente allo scopo la semplice diffida all'esecutore da parte di singoli condomini o dello stesso amministratore. Il riferimento all'esecutore della modifica lascia intendere che le iniziative contemplate dalla disposizione possano dirigersi anche verso un terzo, estraneo ai partecipanti al condominio. Tale disposizione appare invero idonea a generare qualche perplessità, dal momento che subordina la reazione della comunità condominiale ad una maggioranza comunque qualificata.
Casistica
Benacchio, Comunione e condominio, Torino, 1976, 92; Branca, Comunione. Condominio negli edifici (1110-1139), in Commentario al codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1982, 196; Celeste - Scarpa, Riforma del condominio, Milano, 2013, 28; Corona, Contributo alla teoria del condominio negli edifici, Milano, 1974, 32; Corona, Profili della riforma delle norme sul condominio, in Giur. it., 2013, 7; Fragali, La comunione, in Trattato Cicu - Messineo, Milano, 1983, 137; Girino, il condominio negli edifici, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, 8, Proprietà, II, Torino, 1982, 340. Bussole di inquadramentoPotrebbe interessarti |