Attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria e contestazione del riconoscimento

Giacinto Parisi
27 Ottobre 2023

La presente Bussola di inquadramento tratta il tema dell'attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri alla luce degli aggiornamenti introdotti dalla riforma Cartabia.

La disciplina anteriore alla l. n. 218/1995

Nel contesto della disciplina del codice di procedura civile del 1940, il riconoscimento delle sentenze straniere non era automatico, ma richiedeva, ex art. 796 c.p.c., l'instaurazione di un apposito procedimento di delibazione, che si svolgeva secondo le forme di un ordinario giudizio di cognizione (Cass. civ., 13 marzo 1991, n. 2646Cass. civ., 26 luglio 1989, n. 3508). Tale riconoscimento era subordinato all'accertamento di specifiche e stringenti condizioni (art. 797 c.p.c.), alcune delle quali consentivano al giudice italiano, in presenza di determinate circostanze, di sindacare, anche nel merito, il contenuto della sentenza straniera: si consideri, a titolo esemplificativo, che il giudice italiano riesaminava il merito della controversia laddove il giudizio all'estero si fosse svolto in contumacia (cfr. art. 798 c.p.c.).

Solo nel particolare caso del riconoscimento di efficacia in pendenza di giudizio (c.d. riconoscimento incidentale), ossia nel caso in cui fosse stato richiesto, nel contesto di un giudizio pendente avanti il giudice italiano, il riconoscimento di una sentenza straniera passata in giudicato, lo stesso aveva luogo in modo sostanzialmente automatico, anche se con effetti limitati al solo giudizio pendente e alle sole parti del giudizio medesimo (art. 799 c.p.c.).

Anche per i provvedimenti in materia di volontaria giurisdizione vigevano gli stessi principi, in quanto l'art. 801 c.p.c. richiamava al riguardo gli artt. 796 e 797 c.p.c. sopra citati.

La predetta disciplina, nonostante l'abrogazione operata dalla l. n. 218/1995, continua a trovare applicazione per il riconoscimento delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici.

In evidenza

La Corte di cassazione ritiene che si abbia una ultrattività della normativa abrogata in quanto la fonte di legge formale ordinaria intervenuta sul punto, ai sensi del disposto di cui all'art. 7 Cost., è inidonea a spiegare efficacia sulle disposizioni dell'Accordo, con Protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 ottobre 1984 e reso esecutivo con la l. 25 marzo 1985, n. 121), le quali contengono un espresso richiamo agli artt. 796 e 797 c.p.c. (in tal senso, Cass. civ., 3 settembre 2014, n. 18627Cass. civ., 10 dicembre 2010, n. 24990). 

La riforma di cui alla l. n. 218/1995

La riforma introdotta dalla l. n. 218/1995 ha radicalmente mutato a partire dal 1997 (anno di entrata in vigore del Titolo IV della medesima legge) l'atteggiamento dell'ordinamento italiano in ordine alla questione del riconoscimento delle sentenze straniere, ponendosi in linea di continuità con alcune convenzioni internazionali, come, ad esempio, quella di Bruxelles del 1968, a cui ha fatto poi seguito il Reg. n. 44/2001/CE (c.d. Bruxelles I) e, ancora, il Reg. n. 1251/2012/UE (c.d. Bruxelles I-bis), di cui tuttavia non ci si occuperà in questa sede.

L'art. 64 l. n. 218/1995 dispone infatti che le sentenze straniere – emesse, cioè, in uno Stato estero – hanno automaticamente efficacia nell'ambito dell'ordinamento italiano, purché ricorrano una serie di requisiti (cfr., tra le molte, Cass. civ., sez. un., 22 febbraio 2004, n. 13662; App. Napoli, 26 febbraio 2007): l'accertamento degli stessi, tuttavia, è soltanto eventuale, avendo luogo nella sola ipotesi in cui si abbia una contestazione rispetto alla riconoscibilità della sentenza oppure qualora sia necessario procedere ad esecuzione forzata (cfr. art. 67 l. n. 218/1995, su cui si tornerà infra).

Ovviamente, condizione preliminare ed essenziale che consente l'applicazione delle norme appena menzionate è che l'atto giurisdizionale possa qualificarsi, sulla base della normativa italiana, come sentenza.

In proposito, va chiarito che tale nozione debba essere interpretata in modo non formalistico: come già si riteneva nel vigore della disciplina codicistica, infatti, il riconoscimento opera con riferimento a tutti i provvedimenti che possano essere qualificati come «decisori», indipendentemente dal nomen iuris ad essi attribuito dal singolo ordinamento (in tal senso si veda anche la Relazione illustrativa alla l. n. 218/1995). Inoltre, secondo l'opinione preferibile, ad essere riconosciute sono soltanto le sentenze di merito definitive: non lo sono invece quelle di rito, di delibazione e quelle non definitive.

In sintesi, le condizioni richieste dall'art. 64 l. n. 218/1995 sono:

(i) il rispetto da parte del giudice straniero delle norme e dei principi in tema di giurisdizione dell'ordinamento italiano (cfr., sul punto, Cass. civ., 25 luglio 2006, n. 16978; Trib. Monza, 28 febbraio 2007);

(ii) la regolare notificazione dell'atto di citazione (o, in genere, dell'atto introduttivo) secondo le norme dell'ordinamento straniero, nonché il rispetto dei «diritti essenziali della difesa»;

In evidenza

A questo riguardo, sono stati ritenuti violati i «diritti della difesa» nel caso di citazione notificata in uno Stato, pur con la consapevolezza da parte del notificante che il convenuto si trovava in un altro Stato (Trib. Novara, 20 maggio 2009); di contro si è ritenuto non violasse tali diritti la notificazione effettuata (nel rispetto della normativa straniera) in luogo diverso dalla residenza, con sottoscrizione dell'avviso di ricevimento da parte di persone qualificatesi come parenti (Cass. civ., 25 luglio 2006, n. 16978).

Ancora Cass. civ., 17 luglio 2013, n. 17463, ha ritenuto non riconoscibile una sentenza di dichiarazione giudiziale di paternità dell'Alta Corte di Asmara per essere la notificazione dell'atto introduttivo avvenuta mediante pubblicazione della notizia di fissazione dell'udienza in un quotidiano eritreo, non essendo essa effettivamente pervenuta nella sfera di riconoscibilità dei destinatari residenti in Italia.

(iii) la regolare costituzione delle parti o, comunque, la regolare dichiarazione di contumacia (in senso contrario, si veda invece il previgente art. 798 c.p.c.);

(iv) il passaggio in giudicato della sentenza straniera;

In evidenza

La valutazione in merito al passaggio in giudicato di una sentenza straniera (nozione che deve essere adattata alle specifiche caratteristiche del singolo ordinamento) e ai conseguenti effetti su di un giudizio pendente in Italia rappresenta questione pregiudiziale rispetto alla decisione in tema di giurisdizione, la quale tuttavia, esula dall'oggetto del regolamento preventivo di giurisdizione, con conseguente inammissibilità del ricorso ( Cass. civ., sez. un.,  5 giugno 2005, n. 12792).

(v) l'assenza di sentenza italiana passata in giudicato che abbia deciso sulla medesima controversia;

(vi) l'assenza di procedimenti pendenti avanti ad un giudice italiano aventi il medesimo oggetto della sentenza straniera promossi prima della controversia straniera;

(vii) la non contrarietà all'ordine pubblico degli effetti della sentenza straniera, ove per «ordine pubblico» si intende una clausola generale di salvaguardia dell'ordinamento interno, ricorrente nell'ambito del diritto internazionale privato, i cui confini sono tuttavia incerti, essendo la loro individuazione rimessa all'opera della giurisprudenza (cfr., ad esempio, App. Firenze, 15 luglio 2008, che ha equiparato la nozione di ordine pubblico a quella di norme imperative).

In evidenza

Le più frequenti applicazioni della clausola dell'ordine pubblico si sono avute nelle controversie in materia di famiglia.

Ad esempio, è stata ritenuta conforme all'ordine pubblico la sentenza straniera che dichiarava il divorzio tra i coniugi, in assenza di un precedente periodo di separazione, e che disponeva 

l'affidamento condiviso della prole, pur senza specificarne le modalità (Cass. civ., 25 luglio 2006, n. 16978).

Un altro ambito problematico è rappresentato dal riconoscimento delle sentenze (generalmente provenienti dagli ordinamenti di common law) in materia di «danni punitivi»: l'orientamento giurisprudenziale da ultimo prevalso è nel senso di ammetterne il riconoscimento, entro determinati limiti (cfr. Cass. civ., Sez.Un., 5 luglio 2017, n. 16601contra Cass. civ., 19 gennaio 2007, n. 1183; App. Bolzano, 16 agosto 2008, secondo cui i «danni punitivi» sarebbero contrari all'ordine pubblico e, in particolare, contrasterebbero con la funzione essenzialmente compensativa, e non sanzionatoria, attribuita dall'ordinamento italiano alla responsabilità civile).

La l. n. 218/1995 regola inoltre altri due casi di riconoscimento di provvedimenti stranieri.

Il primo, disciplinato dall'art. 65 l. 218/1995, riguarda i provvedimenti stranieri relativi «alla capacità delle persone nonché all'esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità».

La predetta disposizione ha introdotto un meccanismo di riconoscimento automatico dei provvedimenti stranieri in quanto atti giurisdizionali.

Va sottolineato come l'uso del termine «provvedimenti» non sia certo causale, visto che il riconoscimento non è limitato alle sole sentenze, ma a tutti i provvedimenti giurisdizionali che incidono in qualche misura sugli status o sui rapporti di famiglia (cfr. Cass. civ., 21 ottobre 2005, n. 20464, con riferimento al riconoscimento di un provvedimento di «omologazione» di una separazione consensuale tra coniugi, App. Bari, 13 febbraio 2009, in tema dei c.d. «parental orders» inglesi). Non rientrano nel campo di applicazione dell'art. 65 cit., invece, i provvedimenti relativi all'adozione di minorenni, espressamente disciplinati o dalla Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993 o dall'art. 36 l. 4 maggio 1983, n. 184, a seconda dell'ipotesi presa in considerazione (cfr. Cass. civ., 26 giugno 2023, n. 18199Cass. civ., 18 marzo 2006, n. 6079Cass. civ., 11 marzo 2006, n. 5376).

Inoltre, i requisiti previsti da tale norma per il riconoscimento sono ancor meno stringenti rispetto a quelli indicati nell'art. 64 cit., riducendosi a:

(i) la sussistenza della giurisdizione del giudice che ha pronunciato i medesimi provvedimenti sulla base delle norme di conflitto dettate dall'ordinamento internazionalprivatistico;

(ii) la non contrarietà all'ordine pubblico

(iii) il rispetto dei diritti essenziali alla difesa.

Ciò posto, non è chiaro se i provvedimenti di cui si tratta debbano essere riconosciuti in via esclusiva sulla base della sussistenza dei requisiti di cui all'art. 65 cit. ovvero se il riconoscimento possa eventualmente avvenire anche a norma dell'art. 64 cit. Tale ultima tesi, che presuppone quindi un concorso tra le due norme appare preferibile, sebbene sia da ritenersi che il riconoscimento ai sensi dell'art. 64 cit. sia residuale rispetto a quello di cui all'art. 65 cit. (in tal senso, anche Cass. civ., 17 luglio 2013, n. 17463Cass. civ., 28 maggio 2004, n. 10378).

Altra ipotesi particolare è quella relativa ai provvedimenti stranieri in materia di volontaria giurisdizione, il cui riconoscimento è ancora più semplificato rispetto a quello riguardante i provvedimenti in materia di status e di rapporti di famiglia, in quanto i tre requisiti previsti dall'art. 65 cit. si riducono sostanzialmente a due: l'art. 66 l. n. 218/1995, infatti, prevede il riconoscimento dei provvedimenti stranieri anche nel caso in cui il giudice straniero non abbia giurisdizione ai sensi delle norme di conflitto italiane, essendo sufficiente che la giurisdizione sussista sulla base di «criteri corrispondenti» a quelli italiani.

Il riconoscimento in corso di causa

Analogamente a quanto già previsto dalle norme codicistiche e, in particolare, dal previgente art. 799 c.p.c., anche il comma 3 dell'art. 67 l. n. 218/1995 regola una particolare (ed agevolata) forma di riconoscimento in pendenza di giudizio, qualora, cioè, la riconoscibilità della sentenza sia «contestata» nel corso di un processo: in tal caso spetta al giudice della controversia decidere sul punto, pur se con efficacia limitata al medesimo giudizio.

L'automaticità del riconoscimento, prevista dal già menzionato art. 64 cit., parrebbe quasi rendere superflua la disciplina dell'art. 67 cit.; in effetti, quest'ultima norma si riferisce alla «contestazione» della riconoscibilità della sentenza, proprio per segnalare l'automatismo del riconoscimento, contrastabile solo a seguito di specifica ed espressa eccezione in tal senso.

In realtà, si è correttamente osservato come l'art. 67 mantenga comunque una propria autonomia precettiva, sia perché la possibilità di riconoscimento delle sentenze viene tradizionalmente esplicitata per legge, sia perché viene attribuita la competenza a decidere su tale questione ad un giudice diverso dalla Corte di Appello, organo funzionalmente deputato al riconoscimento delle sentenze e dei provvedimenti stranieri, sia perché, infine, il principio della domanda escluderebbe la possibilità per il giudice di pronunciare d'ufficio (in assenza, cioè, di espressa eccezione sul punto) sulla riconoscibilità della sentenza straniera.

In evidenza

Facendo applicazione della predetta disposizione, è stata riconosciuta incidentalmente, sulla base dell' art. 65 l.  n.  218/1995 , una sentenza straniera di divorzio ucraino, dichiarando conseguentemente inammissibile la successiva domanda di separazione coniugale promossa in Italia dalla moglie nei confronti del marito (Trib. Belluno, 5 novembre 2010, n. 211). 

Il procedimento di exequatur

Nel caso di mancata ottemperanza spontanea oppure in caso di contestazione del riconoscimento della sentenza o del provvedimento straniero, «chiunque abbia interesse» può ricorrere alla Corte di Appello del luogo di attuazione del provvedimento – competenza da qualificarsi come funzionale e, dunque, non derogabile ai sensi dell'art. 33 c.p.c. (arg. ex App. Milano, 12 novembre 2012, pronunciata in tema di riconoscimento di un lodo straniero ai sensi dell'art. 839 c.p.c.) – affinché venga verificata la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento (cfr. art. 67, comma 1, l. n. 218/1995).

In altri termini, quindi, il controllo giudiziario circa la sussistenza dei requisiti è posticipato ed eventuale, avendo luogo soltanto nel caso in cui venga messa in discussione la riconoscibilità della sentenza o del provvedimento straniero: il presupposto di tale procedimento, infatti, è rappresentato dalla mancata ottemperanza, dalla contestazione o dalla necessità di procedere ad esecuzione forzata e può sopravvenire anche nel corso del giudizio, non essendo necessaria la sua sussistenza al momento della domanda, purché sia presente al momento della decisione (cfr. Cass. civ., 20 aprile 2023, n. 10671).

In evidenza

Sebbene il procedimento di exequatur presupponga, tra l'altro, la volontà della parte di instaurare un procedimento esecutivo, la Corte di Cassazione ha ritenuto irrilevante ai fini della sussistenza della giurisdizione del giudice interno la concreta esperibilità sul territorio italiano di un'esecuzione forzata, ad esempio in assenza di beni aggredibili in sede esecutiva al momento della proposizione dell'istanza ( Cass. civ., sez. un., 18 novembre 2008, n. 27338).

Il procedimento di exequatur costituisce un vero e proprio giudizio di cognizione, il quale, nel vigore della disciplina originaria di cui alla l. n. 218/1995, si svolgeva nelle forme del rito ordinario di cognizione, mentre, a seguito dell'introduzione dell'art. 30 d.lgs. n. 150/2011, seguiva, dapprima, le forme del rito sommario di cognizione «speciale» di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c. e 3 del medesimo d.lgs. n. 150 e, oggi, a seguito delle novità introdotte dalla c.d. riforma Cartabia di cui al d.lgs. n. 149/2022, segue le forme del rito semplificato di cognizione di cui agli artt. 281-decies ss. c.p.c.

L'oggetto del procedimento è necessariamente limitato all'accertamento dei requisiti di riconoscibilità, con conseguente inammissibilità di qualsiasi altra domanda, nonché di un controllo sul merito della decisione adottata, essendogli devoluto al giudice il controllo estrinseco dell'atto, limitato al decisum, cioè al contenuto precettivo della statuizione, sia pure ricostruita alla luce della parte espositiva della motivazione, e ciò in ragione della ratio sottesa a tale disciplina, volta a favorire la circolazione delle sentenze straniere che, all'opposto, sarebbe pregiudicata se il giudizio di riconoscimento assumesse i connotati di un riesame di merito (cfr. Cass. civ., 24 marzo 2023, n. 8462). La decisione della Corte d'appello ha efficacia meramente dichiarativa (Cass. civ., 6 giugno 2003, n. 9085Cass. civ., 14 giugno 2002, n. 8592Cass. civ., 9 maggio 1977, n. 1777), dato che, come detto, il riconoscimento è automatico in presenza dei requisiti richiesti dalla legge (App. Napoli, 20 gennaio 2006).

In proposito, la Suprema Corte ha ritenuto ricorribile per cassazione il provvedimento di delibazione emesso dalla Corte d'appello (Cass. civ., 11 luglio 2014, n. 16039; nonché, prima delle modifiche introdotte nel 2011, Cass. civ., 16 giugno 2006n. 13955).

Il comma 3 dell'art. 67 l. n. 218/1995, infine, prevede espressamente che la sentenza straniera (o il provvedimento straniero), unitamente al provvedimento che accoglie la domanda di accertamento dei requisiti di riconoscimento, costituisca titolo esecutivo per l'esecuzione forzata.